4. Jázmin
Seduta sulla panchina di marmo aspirava, lenta ed elegante, una sigaretta lunga e sottile quanto le sue pallide dita. Capelli neri, vestito nero, cappello nero, rossetto e smalto viola; li stava aspettando all’esterno della hall dell’aeroporto Ferenc Liszt. Gli occhi socchiusi a causa del vento erano quelli di un cecchino pronto a uccidere. Mentre l’ultima nuvola di fumo veniva dissolta da una violenta folata Jázmin Szà bo prese la mira, strinse l’unghia del dito medio contro il pollice e, con freddo distacco, lanciò il mozzicone in una fossa piena d’acqua. In un film hollywoodiano la pozzanghera sarebbe stata piena di benzina e, dopo essersi incendiata, avrebbe appiccato il fuoco all’intero aeroporto che sarebbe esploso in mille deflagrazioni. La pellicola che Paolo e Gitta stavano cercando non era di quel genere e la cicca si limitò a esalare la sua ultima brace in pochi centimetri d’acqua sporca.
Jázmin e Gitta si abbracciarono senza dire una parola. Gitta sorrideva, Jázmin teneva gli occhi chiusi. Paolo le osservava con stupore: davanti a lui, unite nell’abbraccio, vi erano lo yin e lo yang. Jázmin era bella quanto Gitta, ma il suo fascino era inquietante e oscuro.
«Ciaae Paulo», disse Jázmin senza sorridere, e furono le uniche due parole che proferì in quella specie di italiano.
Raggiunta l’auto di Jázmin, una vecchia Lada squadrata color ruggine, Gitta si sedette davanti. Paolo sul sedile posteriore. Gitta e Jázmin confabulavano in magiaro. Paolo non capiva niente e nemmeno s’azzardava a intromettersi col suo inglese stentato. Arrivati in un quartiere periferico, geometrico e razionale come da prontuario di urbanistica sovietica, si fermarono davanti a una decrepita villa d’epoca asburgica circondata da un giardino bisognoso di cure palliative.
«Eccoci arrivati», disse Gitta a Paolo, «è la casa della nostra famiglia, un po’ antica, ma ancora bellissima vero?».
A Paolo ricordava la casa degli Addams. Avrebbe voluto fare una battuta, ma poco prima, nello specchietto posteriore, aveva incrociato un’occhiata poco rassicurante di Jázmin. Si limitò ad annuire. La cadente dimora della famiglia Szà bo sarebbe stato il loro quartier generale per i prossimi giorni di ricerca. Jázmin conosceva un famoso regista, un certo Béla Balázs detto Bibi.
«Bibi è a Praga a girare un film, ma domani rientra a Budapest e ci darà una mano», disse tutta allegra Gitta.
«Fantastico», rispose poco convinto Paolo, «dov’è la nostra camera?».
Jázmin lo incenerì con lo sguardo.
«Tu dormi al piano di sopra, io e Jázmin divideremo la camera dei nostri genitori», gli rispose Gitta.
Paolo ne era sicuro: Jázmin capiva la sua lingua oppure gli leggeva nel pensiero. Si sentiva fuori posto, come un ospite non gradito, e anche Gitta sembrava diversa. Cenarono nella sala illuminata da una moltitudine di candele rosse. La corrente elettrica pareva non essere ancora approdata in quella nobile e antiquata abitazione. Paolo passò la notte in una lugubre e gelida stanza confortato da qualche coperta di lana e dalla presenza di Szilveszter, il gattone bianco e nero di Jázmin. Il felino rimase immobile sul suo sterno per l’intera nottata, puntandogli in faccia i suoi occhioni arancioni. Il messaggio era chiaro: «Tu da qui non ti muovi!».
L’indomani si recarono nel distretto di Kőbánya dove Bibi aveva il suo studio.
«Welcome in Budasex», li accolse squillante il regista.
Alto, magro, dinoccolato e vestito come un Elton John anni settanta, Béla Balázs si dimostrò un grande affabulatore, capace di tenere un monologo in perfetto inglese che Paolo riuscì quasi a capire. Quel poco, comunque, gli bastò per comprendere che esisteva una copia della pellicola in questione, che si trovava in una specie di archivio tenuto da un ex-pornoattore ungherese e che, ahimè, Budapest aveva consegnato lo scettro del porno a Praga. Congedati da Bibi, si diressero a casa del porno archivista, una villetta sulla collina di Buda. Questa volta Paolo e Gitta rimasero in auto, entrò solo Jázmin.
«Credi che riuscirà a farsela consegnare?», chiese Paolo.
Gitta lo guardò come se avesse di fronte un bambino sciocco: «Pensi che mia sorella non sappia come ottenere ciò che vuole?».
«Be’, con un pornoattore… », provò a ironizzare Paolo.
Gitta non disse nulla, ma la sua espressione bastò per inchiodarlo al sedile. Paolo non aprì più bocca. Dopo una mezz’ora abbondante, durante la quale lui e Gitta rimasero in un gelido silenzio riempito dall’heavy metal trasmesso da una radio locale, Jázmin riapparve con una grossa bobina sottobraccio. Aprì la portiera posteriore e la ficcò in braccio a Paolo.
«Take care of this», gli disse.
Le due sorelle si abbracciarono soddisfatte e mugolanti. Ripartirono verso casa. Quella sera, nella dimora di famiglia, festeggiarono il ritrovamento con libagioni di palinka miscelata a un intruglio di erbe misteriose. Dopo un solo bicchiere Paolo iniziò a sentirsi strano e si lasciò cadere in una larga e soffice poltrona. In un battibaleno Szilveszter lo raggiunse piazzandosi sulla sua pancia, mentre Gitta e Jázmin si misero a danzare al ritmo di un sottofondo di tamburi.
Un frastuono di bufera, come se un hovercraft si fosse materializzato dal nulla nel malandato giardinetto, risvegliò con violenza il catatonico sonno di Paolo. Era ormai l’alba e il camion-spazzatrice si dilettava a raschiare l’asfalto del quartiere senza porsi alcun problema di disturbare gli assopiti abitanti. Dopo aver capito che nessun commando armato stava penetrando nella sua stanza, Paolo si rese conto di essere rimasto sulla poltrona tutta la notte. Aveva la testa indolenzita come in un dopo sbornia e ricordava a malapena la serata appena trascorsa. Le uniche immagini sbiadite che riusciva a mettere a fuoco erano le due sorelle che fluttuavano a mezz’aria avvolte da spirali di fumo bianco.
“L’avrò sognatoâ€, pensò non troppo persuaso.
«Paolo, che fai ancora lì? Muoviti che dobbiamo prendere l’aereo», la voce di Gitta gli penetrò nelle orecchie come un proiettile.
«Sì, sì, faccio presto», le rispose docile.
Dopo una ventina di minuti arrivò un taxi a prenderli.
«Dov’è finita tua sorella?», chiese Paolo.
«È dovuta andare in centro per lavoro», rispose evasiva Gitta.
Paolo realizzò che di Jázmin non sapeva assolutamente niente e nemmeno di Gitta. Non sapeva, ma Gitta era lì con lui, e questo era sufficiente. Quando il taxi ingranò la prima, lasciando dietro di sé un cumulonembo di polvere nera, Paolo ebbe l’impressione di intravedere una figura femminile dietro a un vetro della decrepita casa.
“Se non è un fantasma è di sicuro Jázminâ€, pensò. Ma la cosa non lo turbava affatto. Non avrebbe sofferto la mancanza della sorella.
Durante il volo Paolo ritrovò la Gitta che conosceva: allegra, solare e loquace.
«Sei piaciuto molto a Jázmin», disse Gitta dopo aver commentato entusiasta il panorama visto dall’alto.
«A me non è sembrato proprio», le rispose stupito e infastidito da quell’affermazione.
«Mi ha detto che sei perfetto: sensibile, intuitivo e dotato. Sei pronto per il rito.»
Quell’ultima frase lo turbò un pochino: «Quale rito?».
«Non ti ricordi quello che ti abbiamo detto ieri sera? Hai bevuto troppo vero?»
«Ho bevuto un solo bicchiere e non mi ricordo un accidenti. Cosa mi avreste detto?»
Gitta sospirò: «Dobbiamo proiettare il film e occorre trovare il pubblico».
«Pubblico? Ma non conosco nessuno io», brontolò Paolo.
«Bastano poche persone, quelle giuste.»
«Quelle giuste? Che vuoi dire?»
«Ma sì, ci siamo io, te e il signor Rizzi. Poi invitiamo il Savoldi e un paio dei tuoi vicini di casa. Ci manca soltanto un prete.»
«Un prete?», esclamò sorpreso Paolo.
«Certo, un prete. L’Italia è un paese cattolico e serve un cerimoniere del culto che si pratica nella tua terra.»
«Ma ti rendi conto? Un prete invitato a una proiezione di un film porno. Già che ci siamo invitiamo anche due suore!»
«Non fare lo stupido. Se vogliamo che il rito funzioni ci serve un prete cattolico.»
Gitta era risoluta, non c’erano alternative.
In una chiesetta dell’entroterra gardesano ogni mercoledì sera si svolgeva una particolare funzione: un incontro di preghiera chiamato messa carismatica. Padre Heinz, un prete altoatesino di notevole stazza, era l’animatore di quelle cerimonie così poco ortodosse e, in effetti, il movimento carismatico era un ordine riconosciuto all’interno della Chiesa cattolica…
Il Rizzi si rivelò essere un frequentatore assiduo di questi mercoledì di preghiera e, grazie a lui, Padre Heinz venne convinto a presenziare alla proiezione de “Le pornocuocheâ€. Nell’appartamento di Paolo venne installato un proiettore portato dal Rizzi e furono invitati, alla seconda e completa visione: il Savoldi, il sig. Alcide, il sig. Brigante e le sorelle Sangiacomo. Le due zitelle declinarono con sdegno l’invito, ma Gitta ritenne che, comunque, non sarebbero state indispensabili per la buona riuscita della cerimonia.
La proiezione funzionò a meraviglia: Savoldi, il sig. Alcide e il Brigante erano in visibilio, il Rizzi più che eccitato era commosso e Padre Heinz riuscì a benedire ogni performance erotica con sincronismo eccezionale. Sul finale del film Gitta si produsse in uno dei suoi acuti da soprano soprannaturale raggelando tutti gli astanti, compreso un Padre Heinz ben avvezzo a manifestazioni non convenzionali. Il rito si era compiuto.
Quando rimasero soli Paolo si accorse che Gitta aveva gli occhi lucidi.
«Che succede? C’è qualcosa che non va?»
«No, no è tutto a posto», rispose Gitta con voce emozionata, «le mie cugine sono finalmente in pace».
«Le tue cugine? Le due attrici erano tue parenti?», le chiese stupito.
«Erano le figlie di mia zia Ãgota, la sorella di mia madre Zsuzsanna. Adesso sono tutte insieme nella luce.»
Paolo le disse: «Dovresti chiamare Jázmin».
«Jázmin già sa, ha sentito che tutto è andato bene, come doveva essere. Ora devo andare da Ilonka.»
«Come? Vai via? E chi sarebbe Ilonka?», Paolo si sentì tremare le gambe.
«È la sorella minore delle due attrici, vive a Praga. Devo andare a stare un po’ con lei. Ha sofferto così tanto!»
«Sì, ma», balbettò Paolo, «le sue sorelle non sono più imprigionate in un limbo, adesso starà meglio».
«È giusto quello che dici Paolo, ma, anche se il rito ha funzionato, Ilonka ha bisogno del mio conforto.»
«E quando tornerai?» chiese Paolo sconsolato.
«Non so. Ho bisogno di tempo.»
Paolo capì che non l’avrebbe più rivista. Si avvicinò alla finestra. Si era alzato il vento, mulinelli di foglie secche roteavano come folletti danzanti mentre le ante del palazzo di fronte venivano schiaffeggiate senza riguardo. In fondo alla strada una donna se ne stava immobile appoggiata al muro. Era vestita di nero e fumava una sigaretta.
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Per gentile concessione del
Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.