26 Settembre 2020, 07.12
Blog - Circolo Scrittori Instabili

Fantasmi a luci rosse (parte prima)

di Alessandro Tondini

Paolo era arrivato nel parcheggio condominiale e aveva infilato la sua Golf nell’unico spazio libero...


... Per fortuna ho affittato anche il box, e io che credevo di aver lasciato alle spalle anche i problemi di parcheggio, pensò. Il trasloco era ormai completo, quella notte avrebbe dormito nel nuovo appartamento. Scese dall’auto, aprì il portellone del bagagliaio e ne estrasse una grossa valigia, l’ultima. Con la coda dell’occhio scorse, al di là dei vetri dell’auto, la faccia di un ometto anziano che lo scrutava curioso. Pensò fosse un vicino di casa e lo salutò d’istinto: «Buongiorno».

«Buongiorno a lei», rispose con prontezza l’uomo, «fa frescolino oggi».

«Ma veramente qui il clima mi sembra sempre mite», disse Paolo.

«È appena arrivato, vero? Viene da Brescia?»

“Alla faccia, già informatissimo”, pensò Paolo e rispose «Sì, ma sono di qui. La mia famiglia si era trasferita in città quand’ero piccolo».

«E come mai è tornato?»

Paolo avrebbe voluto tanto rispondergli “fatti un po’ i cazzi tuoi”, ma il suo interlocutore era un vecchietto troppo carino: un omino ovale, vestito con una salopette arancione, la cui testolina tutta bianca sporgeva a malapena oltre il tettuccio della Panda.

«Perché ero stufo della confusione. Volevo tornare a vivere in tranquillità.»

«Quando saremo morti ce ne avremo di tempo da stare in pace. Lei mica è tornato per star tranquillo, avrà avuto altri motivi eeeh?»

Paolo era seccato, sei un vecchietto grazioso, ma sei pure un impiccione: «Mi creda, vivere qui è un’altra cosa. La vita che conducevo era troppo stressante».

«See, see, tutti a dir così, poi si rimpiange quel che si faceva prima, comunque io sono Alcide e abito al primo piano.»

«Piacere, Paolo. Io sto al secondo.»

Paolo allungò la mano destra per stringergli la mano, ma l’ometto allontanò il braccio sbuffando: «Io saluto a voce: le auguro buona giornata e buona permanenza».

Alcide si diresse lungo la discesa che andava verso il centro del paese. Paolo rimase a osservarlo. L’ometto era manchevole della mano destra e camminava con un bastone poiché la gamba sinistra era rigida come un tronco. Piccolo, ovale, monco, con gamba offesa e inoltre ficcanaso, pensò Paolo sorridendo, chissà se aver conosciuto per primo uno così porta fortuna o sfiga nera? Sollevò la valigia e si diresse all’entrata del condominio, una grande porta a vetri con un cartello che raccomandava: “Accompagnare la porta, la molla è rotta, il vetro rischia di rompersi se sbatte!”.

Da questa venne fuori un tipo di mezza età coi capelli lunghi e grigi che indossava una felpa violacea con la scritta Pink Floyd, un paio di jeans slavati e pieni di strappi che gli strizzavano le gambette da ranocchio e, ai piedi, delle scarpe da ginnastica usurate e inguardabili. La faccia era da foto segnaletica con un tocco di grottesco tormento. Paolo gli fece un gentile sorriso e aggiunse: «Salve». Il tizio lo guardò con aria sorpresa mista a disgusto: «’Ngiorno», bofonchiò rauco. Lasciò che la porta si richiudesse da sola con forza e s’incamminò con andatura barcollante. Simpatico il soggetto, si disse Paolo. Prima di infilare la chiave per riaprire la porta, si soffermò sui cognomi indicati sui campanelli: Brigante, Carapelli, Gravina, al piano primo; Gorreri, Sangiacomo, al secondo. Mancava Berto, il suo. Questo qui sarà stato il Brigante, ridacchiò.

Entrato nell’ingresso lo accolse un secondo cartello appiccicato alla porta dell’ascensore: “GUASTO”. Ne fu sorpreso: ma come? Ieri funzionava! Vabbe’ pazienza, son solo due piani. Due piani, ma con un bel po’ di gradini e una valigia pesante da trasportare. Giunto in cima era a corto di fiato e già sudaticcio. Stava infilando la chiave nella toppa quando sentì aprirsi la porta dell’appartamento di fronte al suo. Apparvero due donne, più o meno.

«Lei dev’essere quello nuovo», esclamò quella che all’apparenza era la più vecchia.

«Nuovo, ma non più giovane, ahimè!», rispose Paolo, aggiungendo una leggera risata.

C’era poco da fare gli spiritosi, la più matura lo scrutava arcigna e, quella che forse era la più giovane non si capiva bene dove guardasse: un occhio era puntato sul soffitto mentre l’altro sparava sulle scale. Entrambe indossavano una vestaglia beige e delle ciabatte paffute che avvolgevano dei cortissimi calzini bianchi.

«Piacere, Berto», Paolo si avvicinò alle due.

La più giovane si ritrasse in un istante dietro alla porta, mentre la più matura gli rispose con una smorfia seccata: «Noi siamo le sorelle Sangiacomo, questo è un posto tranquillo, spero che lei sia un tipo a modo», e fece un passo all’indietro. Paolo si fermò nel mezzo del pianerottolo.

«Potete stare tranquille, ormai mi è passata la voglia di far festa», buttò lì sperando che la bisbetica cogliesse il doppio senso.

«Mi fa piacere. La saluto», gli rispose scomparendo all’interno.

«Arrivederci», anche no magari , si disse.

Entrato nel suo appartamento non poté non riflettere sui suoi nuovi vicini.

Per adesso non ce n’è uno normale – sospirò – speriamo in bene nei restanti.

Passò la giornata a sistemare le sue cose e per cena si fece portare una pizza d’asporto. Mentre sorseggiava una birra iniziò a sentire una leggera vibrazione che dalla nuca si irradiava al resto del corpo: aveva finito di tenere la mente impegnata, cominciavano i pensieri. Non aveva alcun ripensamento, era convinto della sua decisione.

Uscire dalla società e trasferirsi sul Lago di Garda era stata un’ottima idea. Aveva passato una vita a sbattersi di lavoro, ma adesso, a cinquantacinque anni, doveva mollare. Il lavoro gli aveva dato soddisfazioni e anche parecchi soldi, ma la sua salute era più importante. Aveva bisogno di riposo e di una vita tranquilla: Al diavolo il denaro e la carriera! Se non mi fermavo ci lasciavo le penne.

C’era una cosa però che non poteva non rodergli dentro: Bianca. Era passato già un anno da quando se n’era andata. Lui aveva capito, accettato, ma in fondo subìto la sua decisione. Era solo e doveva ricostruirsi una vita. La stanchezza era tanta e sedimentata da tempo, le sue riflessioni sul passato non avevano la forza di tenerlo in piedi. Si sdraiò sul nuovo giaciglio e, in pochi istanti, dormiva della grossa.

Si svegliò di soprassalto. Guardò la sveglia sul comodino: le 00:20. Erano passate più di due ore da quando si era addormentato, qualcosa aveva disturbato il suo sonno. Dalla finestra penetrava il chiarore dei lampioni stradali, ma non era stato quello il motivo del suo risveglio. Da qualche parte del condominio provenivano dei gemiti.
Paolo credette che qualcuno dei vicini fosse intento in un amplesso carnale, ma ripensando a quelli che aveva conosciuto l’ipotesi non lo persuadeva del tutto.

I mugolii di piacere si facevano sempre più insistenti, ma non riusciva a individuarne la provenienza, gli sembrava venissero dal piano di sotto, o forse, dalla tromba delle scale. Le voci umane, che sembravano appartenere a una o più donne, dapprima sommesse, poi sempre più alte, si tramutarono d’improvviso in grida di dolore, urla piene di paura, strepiti di atroce sofferenza.
Paolo era sorpreso e impaurito: ma che cazzo succede? Staranno mica ammazzando qualcuno?

Si alzò dal letto per andare alla porta, ma dopo pochi istanti tutto ripiombò nel silenzio.

(to be continued)

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.





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