29 Dicembre 2020, 07.05
Blog - Circolo Scrittori Instabili

Legami di sangue

di Marcello Rizza

È trascorso già un anno... Alla cerimonia c’erano tutte le persone a me care, solo tu non c’eri quel giorno Saimiri.


 Non saprei misurare questo tempo, non so se pesi quanto un’onda che procede pigra nell’oceano da un continente all’altro o se duri un’immensità come un disperato viaggio nello spazio profondo, so solamente che se mi pongo questa domanda è perché mi sei mancata tantissimo. Continuo a pensarti nei luoghi dove mi rifugio nella preghiera, in fondo alla chiesa come l’ultimo dei fedeli guardando al Crocefisso o in qualsiasi altro posto dove la natura mostra la sua bellezza. Ora sono qui, seduto sulla scogliera a strapiombo e osservo il mare mosso da flutti lontani che giungono da chissà dove e mi piace pensare che arrivino dalla tua terra natale.

Il mare mi ha sempre accompagnato, o ci ho vissuto vicino o sono andato a cercarlo. Sulle sponde marine negli anni, scavando la sabbia, ho raccolto le conchiglie più belle e ognuna l’ho intitolata ai miei affetti. All’inizio, da piccolo, erano poche e le tenevo in tasca. Ora sono in quella vetrina, ma non ne dimentico nemmeno una, hanno tutte un bel nome.

La conchiglia tondeggiante e bianca con le striature color dell’ambra mi ricordano nostra madre, costretta ad amarmi tanto da promuovermi a ciò che poi sono diventato. Appena nato mi ha soprannominato Dentino perché ero sottopeso e bianco come un dente. Fino a che è restata in vita, anche se ormai ero più alto di lei e abbronzato dal sole africano, mi ha chiamato così: il suo piccolo Dentino. Ha provato solo un giorno ad allattarmi, a non farmi diventare come lei, ma il suo seno era sterile e inutile e ne conosceva il motivo. Per questo fece quello che non voleva fare. Provando il dolore di chi sa di fare il male necessario, come quello d’amore e quello d’Africa, mi addentò teneramente sul collo, così mi raccontò in punto di morte. L’alternativa era di farmi morire di fame.

Mamma, la ricordi, era una donna buona e se ne era fatta una ragione di quello che gli era capitato. La sua vita cambiò quando, appena sposa, incinta di me, fu avvicinata a una festa da un uomo orribile, brutto e grasso, incurante dell’igiene, dall’età indefinita, che non aveva certamente occhi magnetici e una pelle che profumava di cuoio e sandalo come nei scontati romanzi rosa. Ma, non per merito suo, era irresistibile quando esercitava i suoi comandi. Esercitò su lei i poteri della sua natura, quelli che anche Mamma ereditò e mai usò, e fu un oplà finirci a letto e ritrovarsi con i segni dei canini sul collo. Nessuno capì perché divorziò in fretta e furia e fu anche uno scandalo, vista la sua professione. E non cercò mai più la compagnia di un uomo, si dedicò solamente all’istruzione e ad amarci e crescerci.

Era magra come un chiodo. Che io sappia non si è mai servita della razza umana, si nutriva appena per restare in vita con quel che poteva ricevere da un amorevole gattino che a sua volta si nutriva del sangue dei topini che cacciava. Tutto sommato non aveva sconvolto più di tanto la natura gattesca. A parte quel problema, e un atteggiamento schivo e riservato per nasconderlo, viveva come tutte le persone normali, era una buona insegnante di religione che passava le serate a correggere i compiti in classe, a leggere poesie o a guardare film sentimentali alla televisione. Ogni domenica, alle 10:30, assisteva alla funzione religiosa.

Nella culla mi mise subito assieme a te, Saimiri, sorella amata. Eri una scimmietta mia coetanea, ancora più minuta di me che ero piccolo. Avevi quel bel nome, musicale, esotico come la terra che ti apparteneva e che non avevi mai calcato e non sapevo ancora quando giocavamo assieme che era tanto il nome proprio quanto quello della tua razza. Quando mamma mi ha svezzato dal suo collo, come per gioco, ti addentavo e mi facevo addentare, ci nutrivamo di tutto, ci bastavamo. Saimiri, la mia conchiglia più bella, quella che assomiglia a una piccolissima brioche e che regala riflessi madreperla. Quando Mamma ci faceva il bagnetto nella vasca guardavo la mia pelle rosa e ammiravo la tua peluria color del grano scaldato dal sole. Avevi paura dell’acqua, ricordi? Non volevi che ti lavasse e le mordevi la mano, poi agilissima mi balzavi al collo abbracciandomi forte forte, poi ti agganciavi al lampadario e tornavi ad abbracciarmi forte. Smisi in fretta di provare a muovermi e saltare come te perché finivo sempre a terra, capii in fretta che la nostra natura era diversa, quante culate che ho preso! Eppure ti ho sempre respirato, mia gemella!

Non andai subito a scuola come i miei coetanei, Mamma non si fidava ancora di me, del mio autocontrollo. Mi insegnò lei le tabelline e a scrivere e riusciva a farmi viaggiare con la mente parlandomi di tutti i paesi del mondo e delle tante civiltà esistite nei secoli. Mi insegnò anche a pregare, a confidare in Dio, ad amare il prossimo e soprattutto a rispettarlo, era una buona cattolica. Mi spiegò che non è il difetto o l’eccellenza fisica a definire l’uomo, ma che sono la coscienza e il cuore.

A un certo punto mi iscrisse a un istituto scolastico, Mamma capì che dovevo attrezzarmi per affrontare il mondo che non sapeva, se non per qualche mito, della nostra esistenza. Ci teneva tanto che la situazione non cambiasse, mi diceva sempre: “Dentino, mi raccomando, non dobbiamo mai fare sapere alle persone che siamo diversi”.

E poi la svolta, la conchiglia grossa, quella che mai avrei potuto tenere in tasca e che avvicinandola all’orecchio ci sento il mare ancora vivo: Padre Carlo. Per la mia prima comunione, sacramento a cui Mamma teneva tanto, dovetti confessarmi. Quello che lei non aveva calcolato era che, secondo i suoi insegnamenti, io in confessione avrei detto la verità. Il sacerdote la convocò, le disse che nel sacramento aveva saputo delle cose di me che per il suo ufficio non poteva rivelare, ma che era lei a dovergliele spiegare. Che donna! Le rispose, cattolica e furba, che anche lei voleva avvalersi del sacramento, con tutti i crismi e riti, inginocchiata nel confessionale e con la veletta sul capo. Padre Carlo, in profonda crisi di coscienza, le disse perentorio che avrebbe violato il suo ministero e che non avrebbe potuto non parlarne con la comunità scientifica, col vescovo o addirittura con il Santo Padre. A quel punto mia madre fece quello che mai lui si sarebbe aspettato: gli mostrò una boccetta piena di veleno e gli rivelò quella che era la sua mossa pietosa studiata da tempo, disse che se il nostro segreto sarebbe stato reso pubblico si sarebbe tolta la vita e l’avrebbe tolta a me, a te e al gattino.

Padre Carlo sparì per tre mesi, ancora oggi non so dove sia andato a pregare e a chiedere consiglio a Lui. So che non ci tradì, che tornò risoluto e prese a cuore la nostra situazione. Con Mamma convennero che la soluzione migliore sarebbe stata quella di essere istruito, controllato sulla mia natura e avviato all’interno di un istituto religioso. Da adolescente che cominciava ad avvertire i primi pudori e prudori e che cominciava a chiedersi se il sesso riguardasse il sangue e quei meravigliosi colli delle ragazze che si vedevano in televisione o nei cataloghi di Postal Market, mi ritrovai a seguire un percorso seminarista molto particolare.

Per me Padre Carlo, quel santo uomo, mentì e fece mentire un suo amico medico che ancora oggi sarà lì a chiedersi perché ha dovuto falsificare in quel modo i referti medici. Me ne dispiace ancora di averlo indotto a macchiarsi, a sporcare la sua probità. Quando il sacerdote andò a parlare col Vescovo della mia situazione aveva una cartella clinica che documentava una rara e complicata forma di sindrome mielodisplasica e quindi dichiarava che necessitavo di giornaliere trasfusioni di sangue. Gli disse anche che ero votato al sacerdozio e che lui voleva diventare missionario e portarmi con sé in Africa, per istruirmi all’interno di un ospedale cattolico dove avrebbe potuto garantirmi le cure necessarie. Per me, per aiutarmi, per amore universale, rinunciava al suo comodo posto di curato di campagna per trasferirsi in Africa. La consapevolezza del suo gesto mi portò a un più sofisticato concetto di amore per l’uomo e per l’umanità.

Chiesi solamente di portare con me le prime conchiglie che avevo raccolto e di partire con te, Samiria, ma riuscii solamente a ottenere le conchiglie. Salutarti fu tristissimo, tu non capisti che non avremmo più potuto vivere la quotidianità, io non sapevo che non ci saremmo mai più incontrati. Dopo un mese dalla mia partenza Mamma mi informò sulla tua morte dandomi spiegazioni vaghe su quanto ti fosse accaduto.

Ricordo ancora quando ricevetti le prime trasfusioni di sangue umano, era come una sbornia di sangue africano, mi rendeva forte ma lo ricevevo per trasfusione e non potevo sentirne il profumo e il sapore che mi proveniva dal tuo collo pulito. La mia via verso il Cristo mi chiedeva due impegni: quello canonico di rinunciare a una vita sessuale e quello specifico di rinunciare a nutrirmi dai colli. Scegliere il sacerdozio non è una passeggiata se la percorri con rigore e serietà, devi far conto con una scelta difficile e ponderata, supportata da convinzioni, fede e studio critico. In più, per onestà, mi chiesi se una persona col mio problema, che comunque avrebbe dovuto sempre vivere nella menzogna del non rivelarsi appieno, potesse diventare un ministro di Dio e nei miei studi di filosofia e teologia cercavo un aiuto e un conforto. Mi piacque subito Origene che considerava l’anima identica in tutti gli esseri umani mentre mi mise in difficoltà San Tommaso d’Acquino che la vedeva come una entità propria del singolo. Alla fine, dopo aver studiato Spinoza, Bentham, Mill, Kant e tanti altri, non ho mai individuata una speculazione etica che contravvenisse al mio diritto, come minoranza sconosciuta, di prendere i voti sacerdotali.

È stato emozionante presentarmi a Dio e dichiararmi Suo ministro l’anno scorso quando fui nominato sacerdote. Ricordo ancora le calde lacrime di nostra madre, il suo vibrare e tremare nell’emozione, quando dall’altare per la prima volta, nell’investitura, dissi: “Prendete e bevetene tutti, questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti… ”.

Visse ancora pochi mesi Mamma, era restata giusto il tempo di vedermi realizzato e felice. Al suo capezzale mi disse la verità sulla tua morte, sorella. Dopo che ero andato via hai smesso di nutrirti, hai perso la voglia di vivere lontana da me, ti sei lasciata andare. Tu, la mia conchiglia più bella, l’unica femmina di cui trattengo il ricordo di un profumo e di un sapore, che continuo a pensare nelle mie preghiere.

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.





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