15 Dicembre 2020, 23.01
Blog - Circolo Scrittori Instabili

La sopravvissuta

di Elda Cortinovis

Settembre 2013. Al suono della campanella Annie si precipitò in classe. Era l’ultimo anno del liceo e voleva a tutti i costi sedersi col gruppo “giusto”, quello di Jennifer, Alisa e Mary...


... In estate aveva avuto modo di trascorrere con loro alcune giornate e dopo i primi anni di liceo si era sentita finalmente accettata. Due gomitate e via, era già seduta nella loro fila. Si voltò e accennò loro un saluto appena prima che l’insegnante entrasse in classe, Jennifer le rispose con un sorriso. All’uscita doveva prendere l’autobus per tornare a casa. Ad aspettarla c’erano due amiche d’infanzia che abitavano vicino a lei. Annie rallentò il passo e frugò nella cartella fingendo di cercare qualcosa. Le ragazze la chiamarono, il pullman stava partendo, ma Annie fingeva di non sentirle. Poi fece un cenno a loro come per dire: “Andate pure, vi raggiungo”. L’autobus partì e lei rimase nel piazzale. Poté così tornare dalle sue nuove amiche, sarebbe rientrata a casa più tardi.

“Le conosci quelle?”, chiese Mary.

“Poco”, rispose Annie pur sapendo che non era vero, ma quell’anno, dopo tutta la fatica che aveva fatto per essere accettata da quel gruppo d’élite, avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di non essere di nuovo emarginata. Sarebbe stata con le sue amiche d’infanzia la sera, una volta tornata nel suo quartiere, ma durante il giorno, a scuola, lei voleva essere come tutte le altre.

La sua carnagione olivastra, i capelli neri come la pece e le gote un poco paffute non nascondevano la sua origine, ma era fortunata, era abbastanza alta a differenza di molte altre aborigene e questo era convinta avesse giocato a suo favore nell’integrarsi.

Non era stato comunque facile, si era sentita tante volte rifiutata e guardandosi oggi con i jeans e il giubbotto come tutte, ne aveva fatti di passi per mischiarsi tra i compagni di scuola. Aveva abbandonato man mano i vestiti che sua madre le procurava e lottando si era fatta acquistare quelli alla moda. Parlava solo inglese e rifiutava la sua lingua madre. Il suo comportamento creava spesso dissapori in famiglia, ma Annie voleva essere canadese al cento per cento, il resto non le importava. Era contenta così, almeno credeva, mai avrebbe immaginato cosa le sarebbe accaduto qualche tempo dopo.

Febbraio 2015

I lembi degli abiti rossi fluttuavano al vento, Annie li sfiorava con la delicatezza con cui si accarezza il viso di una persona amata. Non c’era giorno che non passasse in quel luogo e ogni drappo rosso appeso ai rami degli alberi, che disordinatamente componevano il bosco, aveva un nome. Un nome femminile, perché le vittime di quella barbarie etnica erano giovani donne a cui era stato sottratto il diritto di vivere. Annie adesso per la sua gente era  Uki, la “sopravvissuta”, e lei così sì sentiva, convivendo ogni istante della sua vita con la sindrome di chi scampa da morte certa.

Camminava tra quegli abiti appesi alle grucce, con un forte senso di colpa, perché lei si era salvata, mentre le altre donne non ce l’avevano fatta. Alcune ritrovate in quel fiume, il cui nome raccoglieva tutto il dramma di quei corpi martoriati, altre scomparse nel nulla. Gelida, con il battito del cuore rallentato, era stata raccolta sull’argine del Red River. Il fiume che bagna Winnipeg e le cui sponde rigogliose attraversano il Canada, fino al confine con gli Stati Uniti. Non aveva mai temuto l’acqua fredda, neppure da piccola quando seguiva il padre a pescare. Il popolo a cui apparteneva proveniva dall’artico e il freddo scorreva nel loro sangue. Ma mai avrebbe pensato che proprio grazie a quelle temperature polari, un giorno sarebbe sopravvissuta.

Seduta a terra, con la testa leggermente abbassata e i capelli neri che le coprivano il viso, iniziò a scrivere la sua storia: il prima e il dopo. Lei che fino al “prima” era stata più fortunata di altre e non si era persa nel vortice della droga e della prostituzione, condizione invece di molte indigene, ma studiava e conduceva una vita normale. Aveva scelto la facoltà di infermieristica, erano pochi gli Inuit che riuscivano a proseguire gli studi, ancor meno se donne. Un bel traguardo di cui andava fiera. Per riuscirci, si era trovata tante volte nella condizione di rinnegare le sue tradizioni per adeguarsi agli altri pur di essere accettata. Il “dopo” era tutto da costruire e aveva il sapore di giustizia e di riscatto. Ma per raccontarlo doveva passare attraverso la storia del suo popolo. Quello che “prima” aveva più volte tradito.

Voleva ripercorrere la strada dei suoi avi che dai ghiacci erano scesi fino al Canada. Ghettizzati, modellati, cambiati. Capaci di adattarsi per sopravvivere, ma conservatori delle tradizioni per non dimenticare. Voleva ritrovare il significato dei gesti dello Shamano, dei riti, dei canti serali per tornare alle origini e recuperare ogni credenza; per dare valore a ciò che in terra straniera sembrava non valere nulla e che spesso veniva calpestato.

Stare in silenzio tra quegli abiti rossi, era l’unico modo per scavare fino in fondo al suo animo e rinascere. Assorta, ascoltava le voci delle donne che animavano il bosco, ognuna con una sua storia da raccontare. P. che non era mai stata ritrovata, K. che a soli 14 anni era stata fatta a pezzi e chiusa in un sacco, V. gettata nel fiume dopo aver subito violenza da un branco di giovani, e altre migliaia di storie così dolorose che il fruscio delle loro voci tra le fronde si trasformava via via in uno strido acuto. Ogni volta che questo accadeva, Annie avrebbe voluto tapparsi le orecchie per non sentire il grido di dolore risvegliato dalle atrocità subite, ma Uki resisteva perché il suo compito era di raccogliere tutta quella sofferenza e di ascoltare le loro storie per poi scrivere, scrivere, scrivere.

Essere testimone di quanto era accaduto e dare voce alle giovani donne Inuit per raccontare di ognuna il “prima” e immaginare per loro il “dopo” era la sua missione. Perché quelle donne che avevano amato, riso e vissuto, fino alla loro tragica scomparsa, avevano anche dei progetti che non potevano e non dovevano essere dimenticati.

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.




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“Tempo” di Elda Cortinovis




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