27 Ottobre 2020, 06.21
Blog - Circolo Scrittori Instabili

Mr. Toad

di Bianca Patrizi

«Buongiorno», mi presentai educatamente all’impiegato dello sportello dell’accettazione dell’ALS, «sono Mr. Toad e vorrei…»


E quelle furono le uniche parole che riuscii a pronunciare perché il tipo dietro al vetro sollevò lo sguardo annoiato, sgranò gli occhi, spalancò la bocca e schizzò dallo sgabello come se l’avesse attaccato un cobra. Sospirai. Ne avevo piene le tasche di quelle reazioni inconsulte e contai da uno a dieci. Arrivato al dieci l’impiegato era sempre lì con occhi e bocca spalancati e quell’espressione di disperata incredulità dipinta sulla faccia stile urlo di Munch.

Passai all’«Ommm», ma la situazione non migliorò. Anzi. Il suono che mi usciva morbido e continuo dalla gola sembrava terrorizzarlo ancor di più, congelandolo in quella posizione statica e innaturale.
Sapevo di non essere di una bellezza armoniosa stile Alain Delon, né assassina alla Dirk Bogarde, ma c’era di peggio al mondo e un minimo di esperienza avrebbe dovuto insegnargli a reagire, non dico con britannica coolness*1 di cui io stesso sono un esemplare, ma almeno con una dignitosa pseudo indifferenza, se non altro per non allarmare l’interlocutore di turno.

Non si è mai del tutto tranquilli quando si entra in un presidio ospedaliero e lungi da me l’idea di offendere gli addetti ai lavori, ma se ne sono raccontate tante di favole metropolitane su chirurghi distratti che amputano arti sani e qualcosa nell’immaginario collettivo è rimasto latente a sabotare la fiducia nel taumaturgo e la fede nella scienza medica.
Per non parlare dell’incertezza psicologica del paziente che lo pone, in quanto tale, in posizione down rispetto al luminare che sta per consultare e dalle cui labbra uscirà la condanna definitiva o la speranza salvifica.

Ma così è. Non tutti siamo uguali e non tutti reagiamo allo stesso modo. Ho ormai accettato queste differenze, in parte culturali, in parte caratteriali, ma in un angolo remoto della mia anima alberga ancora la speranza se non dell’amore almeno dell’amicizia e, quando vengo respinto in maniera così palese dal ribrezzo che suscito negli altri, quel senso di solitudine, di frustrazione e – sì, lo ammetto mio malgrado – di umiliazione, mi ferisce come una spada che mi trafigge da parte a parte. Mi sarebbe bastato arrivare al reparto TSO.
Non chiedevo altro. Lì c’era la mia ultima speranza. Quante volte delusa fino a oggi! I miei non facevano che ripetermi che se ero nato così, così dovevo rimanere a vita perché cercare di cambiare la mia natura sarebbe stato innaturale, ma io avevo un sogno.

I have a dream.*2

Se l’aveva avuto Martin Luther King perché non io? Perché io non ero alla sua altezza, mi rispondeva una vocina interiore. Così abbassavo il tiro: l’avevano cantato anche gli ABBA, «I have a dream», e l’avevano anche messo in un film di successo, spingendosi perfino oltre, al fatidico «if you see the wonder of a fairy tale*3» che mi aveva intrappolato in quella mia speranza cocciuta di diventare chi non ero. Perché dovevo rinunciare?

Così di voce in voce, mi era giunta quella della ragazza ricoverata solo pochi giorni prima che si aggirava pallida ed emaciata nei corridoi spogli del reparto di Trattamento Sanitario Obbligatorio protendendo una mano aperta e vuota. Non so cosa mi prese. Forse fu la disperazione a spingermi a tentare il tutto per tutto.
Sta di fatto che abbandonai di colpo il mio britannico aplomb, girai le spalle all’impiegato dell’accettazione senza nemmeno salutarlo e corsi come un forsennato verso l’ascensore. Riuscii ad infilarmici un decimo di secondo prima che le porte si chiudessero con uno sbuffo leggero alle mie spalle. La fortuna era finalmente dalla mia e l’ebbrezza del sogno che stava per avverarsi mi rese audace. Non so. So che arrivai al reparto TSO e lì la vidi.

Avanzava verso di me con la leggerezza di una fata, l’abito rosso lungo fino in fondo ai piedi, i capelli castani (chissà perché li avevo immaginati biondi) che sciolti le ricadevano sulle spalle e in testa, senz’altro messo da qualche ricoverato con le rotelle non propriamente a posto, una scatola di cartone che una volta aveva contenuto un pandoro, rimodellata a cono, rossa come l’abito. Dalla punta di quel cappello di fortuna usciva, morbido e fluttuante, un velo bianco che si librò tremulo nell’aria mentre lei si chinava verso di me, protendendo le braccia diafane.

“Mr. Toad!”, esclamò con un sorriso di pura beatitudine.

Finalmente qualcuno che non mi respingeva inorridito. Con un balzo leggero, atterrai nel palmo della sua mano morbida e calda e fu quasi senza fiato che le sussurrai:

«Se mi baci mi trasformerò in un bellissimo principe».

E lei, guardandomi negli occhi rispose:

«Preferisco avere un rospo*4 parlante».

*1 Coolness, lett. freschezza; fig. sangue freddo, disinvoltura; nel caso specifico è da intendersi come impassibilità
*2 Io ho un sogno
*3 Se vedi la magia di un racconto di fate
*4 Rospo, in Inglese “toad”
____________________________

Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.






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