23 Novembre 2020, 07.00
Blog - Circolo Scrittori Instabili

Addio sospeso

di Barbara Favaro

La notte era tiepida. Notte, in realtà era quasi mattina, e la luna rischiarava il viale silenzioso e loro due – uno accanto all’altra – stavano respirando l’aria fresca in attesa di qualcosa...


... La sigaretta tra le labbra si consumava senza fretta, lei un passo indietro per non prendersi quel fumo addosso.

Avrebbe potuto essere un addio perfetto se fossero stati entrambi coscienti che quello era un addio. Lui avrebbe detto le cose giuste, o le avrebbe dette lei, e quella notte i silenzi avrebbero avuto un significato diverso. Le auto parcheggiate avevano i vetri appannati, la pioggia che dal materassino steso nel retrobottega li aveva accompagnati mentre facevano l’amore aveva lasciato tracce visibili ovunque. Fuori e dentro.

Chiuse gli occhi, doveva guidare per due ore prima di poter raggiungere il suo letto e buttarsi alle spalle quella serata. L’amarezza no, quella sarebbe rimasta, ne fu certa in quell’istante, quando lui soffiando il fumo verso il cielo disse:

“Ho una giornata di merda oggi. Avere mio suocero in negozio mi fa girare le palle… “

“È gentile a darti una mano, apprezza questo e il resto fattelo scivolare addosso”, lo disse più che altro per non stare zitta, non gliene fregava nulla del suocero e del negozio, delle sue lamentele e di tutto quello che le buttava addosso da due anni. Questo voleva dirgli, ma se lo evitò. Voleva soltanto andare a casa e crollare a letto e dormire. Solo questo.

Lui la guardò, le si avvicinò e le diede un bacio leggero sulle labbra: “Grazie per la bella serata, piccola”.

Lei sorrise pensando: chissà se si ricorda come mi chiamo…

“Vado”, ma gli uscì bene quel suono, nulla che lo potesse mettere in allarme.

“Non correre e mandami un messaggio quando arrivi, così dormo tranquillo”, probabilmente dirlo lo faceva sentire meno in colpa considerato che avrebbe dovuto spostarsi lui e invece per la terza settimana consecutiva era stata lei a raggiungerlo, come se fosse ovvio, come se fosse dovuto.

Non rispose, aprì la portiera e lui l’abbracciò da dietro: “Neanche un bacio?”, le sussurrò all’orecchio.

No, mi rimarrebbe il sapore della sigaretta addosso e ricorderei per i prossimi 195 km che ti odio quando te ne freghi del fatto che detesto il fumo e che ti odio quando neanche ti ricordi di chiedermi come sto e ti odio quando nomini tuo suocero in un momento in cui vorrei dimenticare che non sei mai mio completamente e appartieni alla tua vita che non sono io.

Non disse nulla. Si voltò, si baciarono e lui la tenne stretta per dieci secondi. Salirono sulle reciproche auto, raggiunsero le reciproche case, si immersero di nuovo nelle loro reciproche vite. Distanti e complicate, distanti e annoiate, distanti e infelici. Come loro.

Quell’addio bastardo consumato nel silenzio avrebbe rimesso tutto a posto con il tempo, ma ancora non potevano saperlo. In quel momento avevano scambiato una fine per un arrivederci e quel vuoto spiegava soltanto metà della loro storia. Che poi una storia, per essere tale, dovrebbe avere un finale scritto, altrimenti che cosa ne rimane?



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