31 Ottobre 2011, 07.44
I racconti del lunedì

Tapascio Bombatus - Ottava puntata

di Ezio Gamberini

"E se te ne cerchi un'altra, sceglila almeno bella, giovane e ricca!" "Sei ingiusta, - ribatto - sai benissimo che per me le prime due qualità sono assolutamente ininfluenti".


(Divagazione calcistica)
 
Proprio quando mi sto preparando per affrontare il mio primo lunghissimo di trentaquattro chilometri devono uscire certi discorsi.
Il Tapascio Bombatus è ormai sopportato da venticinque anni dalla sua dolce metà, cioè volevo dire, per quanto riguarda il peso, dal suo dolce terzo.
Qualcuno sostiene che ci si sceglie. Io credo che ci si incontri.
Chissà se un giorno riuscirò a portarla con me a correre. Sarebbe una riscoperta, perché da ragazzina Grazia sfrecciava nelle campestri e faceva tre allenamenti a settimana.
 
Poi, come dicevo, ci siamo incontrati, da adolescenti, e siamo ancora in viaggio dopo aver raccolto in corsa tre nuovi passeggeri.
Non riesco ad immaginare la mia vita senza di loro, così come non riesco a capacitarmi di come abbia potuto cessare qualsiasi attività fisica per più di quindici anni, con una parentesi di circa tre anni in cui allenai la squadra di calcio del mio paese, in terza categoria, quando avevo ventisei anni ed avevo smesso con il calcio giocato da tre per un infortunio alla caviglia.
 
Dopo aver vinto dai dieci ai tredici anni un titolo regionale ed uno provinciale e due secondi posti negli stessi campionati, organizzati dal CSI, - vi assicuro che era piuttosto inusuale, per quei tempi, che dei ragazzini montano-lacustri affrontassero trasferte a Milano, Bergamo, Mantova, Varese, Como, Lecco… ci sembrava di dover oltrepassare le Colonne d'Ercole… - a quattordici anni passai alla gloriosa Falck, dal dopoguerra fino agli anni settantanove - ottanta seconda squadra dell'intera provincia per importanza, risultati e censo dopo il Brescia Calcio.
 
Restai senza fiato quando, dopo un mese, ricevetti la prima busta paga.
Pensavo si fossero sbagliati ed invece quello era proprio il mio stipendio. A quindici anni giocavo nell'Under ventuno e a sedici entrai nella rosa della prima squadra di serie D, sentendone il profumo, e disputando un meraviglioso Trofeo Beretti contro squadre blasonate come Brescia, Mantova, Verona, Trento, Chievo, Bolzano…….
 
Ogni quindici giorni, quando giocavamo in trasferta, sempre di sabato pomeriggio, il pullman veniva a prendermi all'uscita della scuola due o tre ore prima della fine delle lezioni; per fortuna negli studi non avevo problemi ed il preside era un tifoso accanito e ogni lunedì voleva un resoconto della gara.
Il mio ruolo era quello di centrocampista. Ringhioso, ma anche elegante. Un "Furino" dai piedi buoni, insomma.
Mi capitò contro Trento e Mantova, sia all'andata che al ritorno, di giocare quattro gare stupende. Soprattutto in casa del Trento disputai una gara eccezionale: creavo e tamponavo, lanciavo e ricucivo, tiravo e ripartivo, instancabile.
S'infortunò il "libero" e dovette uscire; lo sostituii negli ultimi venti minuti della partita incantando tutti, me compreso, per interventi decisivi, uscite da situazioni ingarbugliate con palla al piede, lanci millimetrici. Insomma, quasi un marziano. Non tardarono ad arrivare richieste da queste due squadre, che allora militavano in serie C, per il mio trasferimento.
 
Quando lo racconto a Paolo diventa matto: "Ma come si fa a rifiutare un'offerta simile? In serie C, professionista! E se magari ti fossi distinto ti avrebbero cercato squadre di serie B o A!".
Il mio primogenito, che pur avendo soltanto quindici anni ha già disputato una decina di campionati, tra l'altro fresco vincitore del titolo provinciale nella categoria giovanissimi con il Salò, primo su centocinquanta squadre, abbagliato dagli ingaggi che percepiscono i calciatori al giorno d'oggi, ma senza tuttavia conoscere le amare realtà che possono nascondersi dietro certe situazioni, ogni tanto mi accusa di non aver fatto il grande salto. Come faccio a spiegargli che, a parte l'attaccamento alla famiglia ed agli amici, profondissimo, in quel momento era già avvenuto l'"incontro" decisivo per la mia vita, con la tipetta di cui narro all'inizio di questa puntata, e che non avevo bisogno di altro?
 
Disputai altri tre campionati di Promozione (di allora, diciamo una quarta serie di oggi) arrivando sempre nelle primissime posizioni.
Che magnifici stadi e che stupendi tappeti erbosi ho calcato, in quegli anni, senza contare l'emozione provata a sedici anni, in un'amichevole contro il Brescia. Gli ultimi venti minuti il mio allenatore mi fece entrare: "Vai, marca Beccalossi!".
Non mi fece vedere neanche il pallone. Riuscii a malapena a stringergli la mano, alla fine della partita che terminò soltanto due a zero per i professionisti i quali non avevano lesinato gli sforzi e neppure l'agonismo.
Lino Mutti, centravanti del Brescia ed in futuro ottimo allenatore "emergente" di Atalanta e Cosenza, mi diede un pestone sulla caviglia che mi fece veder le stelle. Ogni volta che lo vedo in TV gli mando un moccolo!
 
Poi avvenne l'irreparabile. Dodici mesi buttati a cinquanta chilometri da casa, insieme ad altri centocinquanta svitati, in un aeroporto che al tempo contava un Roma settimanale e per il resto F104 che da mattina a sera saettavano sulla testa, a cento metri da dove dormivo. In un anno - maledetti! essendo in pochissimi la cucina era ottima - ingrassai otto chili.
Al ritorno fui ceduto al Sirmione, dove cominciarono i miei guai alle caviglie e fui ingessato. I successivi due anni li trascorsi al Salò. Prima che finisse il secondo campionato, a ventitre anni, esausto, presi le scarpe e le attaccai al classico chiodo.

Nei successivi tre anni mi disinteressai completamente delle vicende calcistiche e poi…..
Non pensavo minimamente a quello che mi sarebbe successo di lì a poco. L'amico Renato, presidente della locale squadra di calcio iscritta al campionato di terza categoria, mi chiese di dargli una mano.
Quando mi accorsi del tranello era troppo tardi e mi ritrovai all'improvviso nominato allenatore della prima squadra. Come ci divertimmo in quei tre anni. In TV imperversavano Arbore e Frassica, il "bravo presentatore, vero?". Quando giocavamo in trasferta, letta la formazione, prima di chiudere il discorso di preparazione alla gara esclamavo: "E non vorrete deludere il vostro bravo allenatore, vero?", i ragazzi rispondevano urlando, in coro: "Veroooo !". Gli avversari ridevano di gusto.
 
Quando entravamo in campo e li bastonavamo, però, la musica era diversa e non ridevano più. Noi invece sì.
Il primo anno finimmo al quinto posto, l'anno successivo al quarto e chiedemmo di essere ammessi al campionato di seconda categoria, un ripescaggio, insomma. Fu accettato. Siccome la società era dotata di risorse quanto un piccione viaggiatore, non ci rinforzammo, anzi vendemmo i due ragazzi più promettenti e che meglio si erano comportati nel campionato precedente. Affrontammo il torneo come una barchetta di carta tra i marosi dell'oceano. Vi lascio immaginare come finì.
 
L'ultimo posto coincise anche con il mio addio alla panchina. Il ricordo più bello è pero legato alla partita che disputammo in casa del Club Azzurri, squadra cittadina capoclassifica, allenata da Chico Nova, centravanti e goleador di Brescia e, soprattutto, Atalanta, negli anni sessanta, che fu anche mio allenatore nella Falck (l'altro che mi allenò fu Gigi Brotto, veneziano, gran portiere del Brescia anni sessanta, appassionato di lirica e con una gran bella voce da basso, il quale mi chiamava sempre "bocia!"). Su un magnifico tappeto erboso, all'interno di un complesso sportivo dotato di campi da calcio, piscine e campi da tennis, che ancora oggi fa bella mostra di sé nei pressi dello stadio Rigamonti di Brescia, si affrontavano la prima della classe contro l'ultima; il nostro destino pareva segnato. Avevo detto ai ragazzi che non avevamo nulla da perdere, quindi la partita andava affrontata senza timore.
 
Entrammo in campo e facemmo girare la palla in modo straordinario, tutto riusciva facile e pulito. Dopo un quarto d'ora, da noi dominato, segnammo un bellissimo gol a conclusione di un'azione corale. Mi sembrava di essere Trapattoni! Dopo una ventina di minuti gli avversari riuscirono a pareggiare. Non ci perdemmo d'animo e ricominciammo a giocare. Geometrie perfette, aperture improvvise, botte di culo; sta di fatto che segnammo il secondo gol, bello come il primo, e passammo nuovamente in vantaggio.
Chico mi guardava con una faccia che sembrava dire: "Ma da dove venite, da Plutone?". Allo scadere del primo tempo l'arbitro fischiò un rigore assolutamente inesistente a favore degli avversari. Ne dissi di tutti i colori al signore vestito di nero e fui espulso. Due a due, e nel secondo tempo, spompati e demotivati, incassammo altri quattro gol. Alla fine della partita il presidente rivale, Bonomelli, venne a farci i complimenti, che mi parvero sinceri.
Anche sui giornali, il giorno dopo, fu ribadito che il risultato non doveva trarre in inganno e si chiedevano come mai una squadra che giocava un calcio così bello occupasse l'ultimo posto in classifica.
 
Da allenatore, altre amichevoli contro il Brescia che contava personaggi quali i portieri Bordon, Marchegiani, il futuro campione del mondo, il brasiliano Branco, Zoratto, Corini, Piovani, ancora Beccalossi e sulla panchina Bruno Giorgi, Massimo Giacomini. In quelle occasioni quei fetentoni dei miei ragazzi si misero d'accordo e continuarono a chiamarmi "mister" per due ore a fila: "Mister, devo tenere la fascia?", "Mister, mi sgancio?"…. bastardi!
 
In quei tre anni il mio impegno fisico non fu notevolissimo, ma perlomeno due volte a settimana ero costretto a cambiarmi per scendere in campo con i ragazzi (ragazzi per modo di dire, perché alcuni erano anche più vecchi di me!).
Un buon numero di calorie erano comunque bruciate. Ma il fatto determinante, per il mio fisico, accadde quando avevo ventisette anni e stava per nascere Anna.
Decisi di smettere di fumare, da un giorno all'altro, e ci riuscii, non senza conseguenze. Il mio peso infatti aumentò considerevolmente fino a raggiungere livelli preoccupanti, tali da procurarmi addirittura problemi di movimento. Non parliamo poi di quando, un paio di volte all'anno, da veri incoscienti, ci si fronteggiava in partitelle tra amici. Un vero calvario: pareva che il cuore uscisse dal petto!
 
Dimmi, Abebe, ora che ho quasi quarant’anni, come mai proprio a me è capitato di innamorarmi della corsa, che ho sempre odiato…... perché sono stato scelto proprio io? Potevo diventare un bel pasticcere bolognese, o un notaio di Pordenone, oppure un militare viennese…. Sarei potuto nascere quindicimila anni fa con il pensiero rivolto alla spasmodica ricerca di bacche e radici per riempire la pancia, oppure tra sette o ottomila anni, indaffarato a riparare il computer centrale dell'astronave che da settantatre generazioni vaga per lo spazio alla ricerca di nuovi mondi vivibili. Perché, perché proprio a me è toccato in sorte di preparare una maratona, una maratona, dico, in soli sette mesi scoprendomi in partenza più simile ad un barilotto che ad una gazzella?
 
“Ehhh, Tapascio caro…la scelta non è stata facile.
Dopo una prima scrematura eravate rimasti in duemilacentonovantadue. Una pessima memoria per i torti subiti controbilanciata da una stupefacente per il bene ricevuto ha ristretto la cerchia e limitato la selezione a duecentotredici. Il non aver mai pronunciato: "Te l'avevo detto", poi, ha ridotto il numero a dodici.
Alla fine, però, sei stato scelto tu perché l'autunno scorso, per fare un favore ad un amico che doveva coprire un buco nel tabellone, ti sei iscritto al torneo sociale di tennis, pur sapendo di essere una schiappa, e hai fatto la figura del cioccolatino, uscendo al primo turno dopo aver perso contro un ottantasettenne che la sera prima, alzandosi dalla sedia a rotelle dopo due mesi di convalescenza in seguito all'amputazione di una gamba, si era slogato la restante caviglia; aveva il braccio sinistro ingessato...... ed era mancino!â€.
 
“Ma, ma…..â€.
 
“Non può non esserci, in ognuno di noi, un pezzettino degli ‘altri’ e ciò non dipende dall'ancestralità o dal DNA o dall'aria, e neppure dall'anima, che è un'altra cosa. Un giorno capirai. Ma ora vai, perché Marco è stanco di aspettare…â€.
Marco, perbacco, mio compagno d'allenamento! I trentaquattro chilometri li correremo insieme. E' gia partito, maledetto! "Marcooo, Marcoooooooooo…….".
 
Tratto dal volume: “Tapascio Bombatus e altre storie†– Ed. Liberedizioni – 2008


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