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sabato, 2 giugno 2007 Aggiornato alle 00:00Alpinismo

Conquiste e dramma sul Lhotse

di Ubaldo Vallini
Con il Lhotse Fanno due, quasi tre, gli ottomila di Manni: lo scorso anno è arrivato a 70 metri dalla cima del Shisha Pangma e nel 2005, a capo di una cordata di valsabbini, era riuscito nell’impresa di conquistare il Cho-Oyu.
“E’ stata un’esperienza intensa e drammatica. Sono convinto che mi abbia fatto crescere soprattutto come uomo oltre che come alpinista”.
Fatica a trovare le parole Roberto Manni. Lo scorso 21 maggio, dopo quasi due mesi di lontananza da casa, il fortissimo rocciatore valsabbino è riuscito a fare sua anche la temuta vetta del Lhotse.
Così fanno due, quasi tre, gli ottomila di Manni: lo scorso anno è arrivato a 70 metri dalla cima del Shisha Pangma (8.027) e nel 2005 a capo di una cordata di valsabbini era riuscito nell’impresa di conquistare il Cho-Oyu (8.201).

A ostenere le sue imprese una “cordata” di sponsor che sono soprattutto amici: Fondital che evidentemente non pensa solo al ciclismo, Immobiliare Vinci, Pressofusioni Comero, Sada elaborazione dati, Falme, 3b Solution, gli sponsor tecnici Fila, Gialdini e Mico.
L’alpinista 44enne, che insieme alla moglie cura la gestione dell’hotel “Ai Mughi” di Pinzolo oltre che esercitare la professione di maestro di sci e la guida alpina, era partito alla volta di Katmandu lo scorso 2 aprile insieme al famoso alpinista Fausto De Stefani che gli 8mila se li è fatti già tutti.

A Lukla i due si sono uniti a Sergio Martini che intendeva raggiungere la cima dell’Everest ed insieme si sono sgroppati i cinque giorni di marcia necessari lungo la Valle del Kumbo per raggiungere il campo base a quota 5.300. Lì sono iniziate le lunghe fasi di acclimatamento, assolutamente necessarie per poter salire a quote superiori: avanti e indietro fra i campi uno, due e tre buoni per salire sul Lhotse come sull’Everest, alle quote 6.000, 6.400 e 7.000 nella “Valle del Silenzio”.
Durante uno di questi andirivieni il primo episodio drammatico: Dawa, l’unico sherpa che Manni e De Stefani avevano a disposizione, è stato colpito da una “seraccata” mentre stava salendo su una ferrata ed è morto. “Ci sono voluti alcuni giorni per recuperarne il corpo, con l’auto di un gruppo misto di americani e di inglesi che erano sul posto, attrezzatissimi, per girare un film ed eseguire esami di laboratorio – ci ha detto Roberto -. Altri giorni trascorsi alla base di partenza sono stati necessari per ritrovare la necessaria motivazione e ritentare”.

Ripartono, riprendono ad andare avanti e indietro. Il 18 maggio è tutto pronto: meteo e forma degli alpinisti. Dal campo base salgono direttamente al “2”. Sabato 19 raggiungono campo 3, domenica 20 campo 4 a 7.700 metri di quota. I due partono insieme nella notte, ma Fausto si ferma dopo mezz’ora: “Mi ha detto che non stava bene, che avrebbe riprovato il giorno dopo e di andare avanti. L’ho fatto e il giorno 21 senza grossi problemi, il primo a farlo senza respiratore quest’anno, sono arrivato in vetta” racconta Manni.

Poi ammutolisce e scrolla il capo, gli occhi si fanno lucidi e le parole non escono: “Mentre salivo l’ultimo strappo ho incontrato Pemba, alpinista nepalese 35enne che ce l’aveva fatta anche lei, con le bombole d’ossigeno, stava rientrando. L’avevamo vista spesso nelle tappe di avvicinamento e pensate, sapeva parlare in italiano. Da sotto Fausto l’ha vista precipitare, senza poter fare nulla. Troppo da sopportare in una volta sola: quando sono sceso al campo 4 insieme abbiamo girato i tacchi e siamo venuti giù”.

 

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