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lunedì, 22 luglio 2013 Aggiornato alle 07:22Valsabbia

Pertiche on the road

di Pino Greco
«La solitudine crea il silenzio e il silenzio agevola il pensiero. Ma il pensiero è sterile se pensa soltanto alla propria solitudine». Dove pensereste di trovare un aforisma di tale intensità evocativa?...
 
...Immagino tra il repertorio di quella nomenklatura pensosa che, in nome della filosofia, distilla opinioni sui media di tutto il mondo.
Ebbene, a me è capitato di leggerlo su un ritaglio di compensato inchiodato alla porta calcinata di un piccolo casolare.
Per la strada che da Ono Degno s’infila nel bosco e punta la Corna Blacca. Senza firma né data. Niente.
 
Flebile  traccia dell’uomo raziocinante nella desolazione di un paese custodito da un centinaio di superstiti della diaspora della montagna.
Una gratificazione impagabile  per chi si muove, a piedi o in bici, alla ricerca di tonicità per i muscoli e stimoli per la mente.
 
Arrivare ad Ono è una tipica ascesa da inizio stagione. Per fare la gamba.
Tornanti ampi e pendenze senza strappi. E quel progressivo ampliarsi di scenari che fanno di Pertica Bassa una delle convalli più fascinose.
Ci si arriva risalendo un budello di strada che contende spazi risicati al bosco e al Degnone.
A Forno si comincia a salire. La strada a destra sale ad Ono. A sinistra si va per Avenone e l’altra Pertica. Ma sempre con il baricentro visivo della Corna Blacca.
Maestosa, solenne, fasciata di luci cangianti.
 
Lo sfondo ideale che chiude la fuga prospettica di balzi e declivi speculari. 
Una sutura delle mollezze di prati e boschi con la dura essenzialità della roccia.
La Corna è  un topos della Valle. Un epico teatro di imprese partigiane. Una palestra appagante per escursionisti.
Uno sfondo ideale per pittori di varia caratura.
La corna del Togni, penetrata nell’anima fra ceselli di luce. Quella del  Branca, rivestita di stereotipi accattivanti.
Il rosa dell’alba, il rosso del tramonto, la neve sulle cime.  

Forno era sorto alla confluenza di due corsi d’acqua.
Il posto giusto per sfruttare l’energia di entrambi. Ne seguì una concentrazione della  lavorazione delle  ferrarezze. 
Più di un secolo fa si parlava di 800 quintali di chiodi. Hai detto niente! Nel novecento, poi, sembrò naturale concentrarvi servizi e istituzioni. A supporto di  un piccolo comune, nato dall’aggregazione di altri tre. Minuscoli.
 
Prima di lasciare Forno, sulla sinistra si adocchiava uno scorcio anomalo.
Uno scarto architettonico fuori dai canoni abituali. Un  gruppo di case  popolari messe su grazie a chissà quale fortuito finanziamento.
Che però non avevano scaldato i cuori dei residenti. Tant’è che a distanza di qualche anno gli appartamenti erano rimasti desolatamente sfitti.
 
Il passaparola, al contrario, allertò l’interesse dei primi, sparuti  avamposti extracomunitari nella valle e il gioco dei punteggi e delle graduatorie fece il resto. 
Copriti cielo! Non c’era ancora Lega allora, ma i prodromi c’erano tutti. Insomma un gran casino. Di mugugni e manifesti. Indignati e, invariabilmente, inconcludenti.

Al primo tornante, una tentazione.
Negli anni settanta, quando la valle era ancora un libro da sfogliare in cerca di emozioni, ho ceduto spesso. Tiravi dritto e in dieci minuti  ti trovavi stupefatto davanti alla cascata dell’acqua bianca. Una trentina di metri di salto di acqua iperossigenata. Lattiginosa e spumeggiante.
Un piccolo prodigio che scaturiva direttamente dalla corna. Quasi un dono del gigante alla piccola comunità di umani ai suoi piedi.
 
Ono ti sorprende.
Con quelle case imponenti e austere. Istoriate di affreschi, graffiti e trompe l’oeil.  Impreziosite da balconi e portali.
C’è stato un tempo che i signorotti abitavano in quota. Vicino  al  loro core business. 
I boschi, i poiàt, i pascoli, i forni, i magli. Il mio amico Alfredo ne ha ricostruito genealogie, successioni, peripezie. 
Alcuni saliti dalla bassa, incalzati da editti e ostilità. Tutti, prima o poi, riapprodati in città.  A certificare sontuosamente uno status. Lasciando  in quota retaggi eloquenti  della raggiunta prosperità. 

Il giro di Ono Degno non dura tanto.
Dopo una sorsata alla fontana e qualche scoperta di particolari sfuggiti qui e là, sei pronto per scendere. Più giù, verso Levrange. La patria dei Boscaì, gli artisti che hanno fatto del legno l’espressione più alta della devozione. Nelle innumerevoli chiese baluardo dell’ortodossia tridentina contro le penetrazioni dello scisma luterano.
 
Levrange è un nome che conosco da sempre. Praticamente dal Natale del 1959.
Ero andato in posta a spedire un pacco per conto di una mia zia maestra. Destinato a una sua carissima amica conosciuta ai tempi delle colonie. Quando facevano le assistenti  in quel di Gabicce Mare. Avevo offerto anch’io un giaccone americano. Un po’ vistoso, ma bell’imbottito.
 
Allora funzionava così. Dopo terremoti e alluvioni scattava la catena della solidarietà.
Mi ricordo perfino una rubrica fissa dopo il giornale radio della sera. Una sorta di gara fra le varie italie che avevano alle spalle la guerra e la miseria e nel cuore una istintiva generosità. E via coi pacchi.
Come i messaggini di oggi al quattrocinque cinquezero..ecc. 
Era successo anche per il Polesine, qualche anno prima, ma stavolta si trattava di un paese solo. Levrange. L’avevo cercato sulle cartine. Mah, vattelapesca!
 
E invece, al primo giro in bici per Pertica Bassa, eccolo lì. Scendendo da Ono. Una quarantina d’anni fa.
C’erano ancora le ferite esposte. I tetti collassati, i muri sbriciolati, le fondamenta a vista e non ancora riciclate a orti e pollai.
Un paese di trecento abitanti e cento mucche sgomberato e lasciato al suo destino. E poi, negli anni, ricostruito ostinatamente sul costone accanto. Quello solido.
 
Levrange, una tragedia senza vittime. Un lutto dell’anima e del legame identitario. 
Tutti sopravvissuti fra smarrimento, nostalgia e rassegnazione.
Ma anche con la consolazione che, alla fine, l’uomo riesce a contenere dentro di sé i luoghi che l’avevano contenuto. 
Tanto che il recupero dei muri è rimasto allo stato virtuale e ciascuno ha potuto rivisitare, senza interferenze, le stanze della memoria e degli affetti.

PINO GRECO