31 Marzo 2014, 07.02
Quaderni di Cinema

In grazia di Dio

di Nicola Cargnoni

Una delicata storia di donne e paesaggi, ambientata in un Salento capace di offrire sempre nuove sensazioni nonostante l’abuso degli ultimi anni e grazie anche alla maestria di un regista di casa, Edoardo Winspeare


La Apulia Film Commission mette a segno un altro importante colpo, dando l’ennesima conferma di come si può fare arte e promozione del territorio investendo in un particolare settore, in questo caso il cinema.
Certo, ci sono stati anche prodotti non perfettamente riusciti, ma quelli di qualità non mancano, tanto che in Puglia sono stati girati alcuni dei film più belli degli ultimi anni.

Tra questi si può certo annoverare l’ultimo lavoro di Edoardo Winspeare, il “nobile regista” che vive nel castello di famiglia in un piccolo paese dell’entroterra salentino.
«In grazia di Dio» è una storia che parte dalla crisi e dalle complessità dei rapporti umani per raccontare con delicatezza i risvolti psicologici che possono scaturire dalle difficoltà di un radicale cambiamento di vita.

Protagonista della pellicola di Winspeare è una famiglia matriarcale, come ce ne sono tante nella realtà meridionale.
La concorrenza dei cinesi e la crisi economica costringono Adele e suo fratello Vito a chiudere la fabbrica tessile che era stata fondata dal padre.
Vito decide di andarsene in Svizzera con la moglie, mentre Adele vende l’appartamento e va a vivere in campagna con la madre Salvatrice, la sorella Maria Concetta e la figlia Ina.

Questo è il punto focale, da cui il regista parte per definire i personaggi protagonisti; Winspeare usa le tinte forti, mettendo subito in gioco le dinamiche che regolano il funzionamento del nucleo famigliare.
Adele è una donna apparentemente forte, incapace di tessere relazioni umane. Va d’accordo soltanto con la madre, per il resto è divorziata dal marito (che è galeotto), è perennemente in lite con la figlia e non si risparmia mai dall’offendere la sorella.

La madre Salvatrice, invece, è nomen omen: è il punto di riferimento della famiglia, cercando di mantenere la calma e l’unità e provando a infondere quel senso di serenità che emana dalla sua persona durante tutto l’arco del film; è curioso notare come Salvatrice sia l’unica a non patire il trasferimento in campagna, adattandosi fin da subito al ritorno a una vita di privazioni e sacrifici, nonostante i 65 anni di età.

Adele lavora e fatica, ma non riesce ad accettare la situazione in cui è piombata.
Mentre la figlia Ina (bella, ma ignorante) e la sorella Maria Concetta (brutta, ma istruita) nemmeno ci provano: l’una pensa sempre a bighellonare con amici e fidanzati (il plurale non è scorretto), l’altra è vittima delle proprie velleità di aspirante attrice. Fino a quando nella vita delle donne non avvengono alcuni avvenimenti che provocheranno importanti cambiamenti.

La storia in sé e per sé è piuttosto semplice, ma a renderla preziosa è il modo in cui è raccontata.
Il regista si serve dei paesaggi salentini, i cui colori e la cui luce fanno da contrasto con i silenzi. Questi silenzi sono lo sfondo ideale per la trama di complicati rapporti umani che si snoda durante le due ore di narrazione, dove le protagoniste sono costrette a una difficile convivenza dettata dalla necessità di far fronte a un momento di difficoltà.

La carne al fuoco è molta, dagli scontri generazionali fino alla complessità delle dinamiche che regolano un nucleo famigliare interamente al femminile; ma al centro di questo “gioco” c’è comunque l’intima delicatezza che regola la vita delle donne, in una narrazione dove gli uomini giocano un importantissimo ruolo di “punti di equilibrio” pur restando ai margini del racconto.

Utilizzando un cast di “attori per caso” (Adele è interpretata da Celeste Casciaro, la moglie del regista) che recitano quasi interamente in salentino (non preoccupatevi, ci sono i sottotitoli), Winspeare compie un’importante operazione di promozione del territorio, anche usando l’espediente del “baratto”: infatti Adele, in difficoltà economiche, riesce a provvedere alla spesa scambiando i prodotti della propria terra con quelli dei vari negozi in cui si serve. Inoltre non mancano inquadrature che indugiano sulle insegne di negozi e consorzi vari.

Gli elementi sorprendenti di questo film sono sostanzialmente due.
Da una parte ci sono situazioni alle quali il regista non dà una vera e propria chiusura, lasciandole aperte oltre la durata della pellicola; le sottotrame e gli intrecci personali non si risolvono con la conclusione del film, ma offrono numerosi spunti su cui riflettere, e in realtà gli sviluppi della narrazione non equivalgono a un romanzo di formazione dato che le caratteristiche dei personaggi sembrano non mutare.

Dall’altra c’è un’interessante operazione
che utilizza il “ritorno alla campagna” non come regressione, ma come progresso, come evoluzione.
Senza moralismi, senza preconcetti e senza tracciare dei giudizi finali, Winspeare ci offre un interessante affresco umano, dove piccole storie personali si intrecciano in un’unica grande storia, che è a tratti commedia e a tratti tragedia.

Lo spettatore sorride, pensa, guarda e ascolta, oltre che seguire con partecipazione i destini delle protagoniste.
Il risultato è più che positivo: ***½.



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