L’ottuagenario regista francese unisce la sua tradizionale verve politica a nuove forme di cinema
Qual è la differenza tra sperimentare e pretendere di farlo?
Talvolta è così netta da essere un solco che confina la sperimentazione in un’ipotetica area ben protetta, lasciando impietosamente fuori dal suo raggio quelle opere che tentano di portare innovazione ma in realtà non riescono ad apportare alcun contributo o novità; in altri casi invece la linea di confine è meno marcata, lascia alcuni spiragli, non è così netta da demarcare un confine tra cosa è dentro e cosa è fuori.
Proprio come nell’ultimo lavoro di Godard.
L’ottantaquattrenne enfant terrible del cinema francese non rinuncia a prender parte a quel “dibattito” che sta coinvolgendo il cinema degli ultimi dieci anni: un confronto/scontro fatto a suon di film e caratterizzato da sperimentazioni, uso esasperato del piano-sequenza, realizzazione di opere totalmente anti-narrative e nuovi linguaggi emergenti.
Occorre essere onesti: quella di Godard è un’opera che si presta a vari elogi per quanto riguarda la forma, le provocazioni e, soprattutto, la veneranda (e venerabile) età di un regista a cui è dura poter muovere delle critiche.
Ma quando si realizzano film che vogliono essere “sovversivi” e che vogliono contribuire, in un certo modo, alla grande rivoluzione cinematografica in corso (ancorché il cinema è sempre in “corso d’opera”), allora l’intento che sta alla base della pellicola è tutto ciò per cui vale la pena confrontarsi.
Fare un riassunto dei settanta minuti di «Adieu au langage» è impossibile e – francamente – inutile.
In quell’ora e dieci minuti c’è tutto: due storie parallele eppure “incrociate” (quella di una coppia e quella di un cane), il corso delle stagioni, un paesaggio a forti tinte naturali e uno urbano, dialoghi spezzati, ripresi, lasciati in sospeso e una televisione che trasmette vecchi film – segno dell’eterno confronto tra Godard e il passato – l’economia, la letteratura, Monet, la defecazione.
Ora occorre essere ancora più onesti: negli ultimi anni abbiamo avuto modo di rendere grazie a registi come Reygadas, Ming-Liang Tsai, Béla Tarr e Lav Diaz, giusto per limitarsi a pochissimi nomi tra i più conosciuti e fondamentali; registi che hanno davvero sovvertito, cambiato, rinnovato il linguaggio cinematografico, ognuno da diverse parti del mondo (Sudamerica, Oriente, Europa in via di sviluppo), ognuno sulla scorta delle “urgenze” che animano la temperie culturale delle zone di provenienza.
L’intento di Godard (e in questo caso lo prova il titolo stesso, più che le attribuzioni che spesso fa la critica a sproposito) è quello di inserirsi in questo dibattito virtuale, con l’uso del digitale, del 3D – che per alcuni aspetti assume un significato extratestuale importante, come ad esempio voler dare “rilievo” a un certo intimismo – di inquadrature “errate”, angolazioni non convenzionali, rovesciamenti della ripresa, una fotografia sgranata, colori ora pastellati, ora accesi, ora psichedelici; ne esce un risultato esteticamente esaltante che dà adito a un’esperienza sensoriale degna della fama del regista.
Ma – e c’è un ma – il contenuto semantico, semiotico e politico si rifà a tutto ciò a cui Godard ci ha felicemente abituati negli ultimi cinquant’anni; il regista francese, di cui occorre prestarsi a valutare il lato artistico e a guardarsi bene dall’analizzare quello umano, è sempre stato animato da quel piglio dimostrativo, da una voglia di volersi inserire nel dibattito per sovvertire tutto ciò di cui si era sicuri fino a quel momento.
Anche nel caso di «Adieu au langage» Godard assume il suo atteggiamento tipico da «ve la faccio vedere io, la sperimentazione…» e realizza un lavoro in cui non c’è nulla di realmente nuovo, ma che utilizza il nuovo, la novità, in maniera quantomeno originale.
Così, a fronte di un’esperienza filmica e visiva di assoluto valore, specularmente possiamo trovare un atteggiamento vecchio, un intento (appunto) che di nuovo non ha nulla.
L’«Addio» di Godard è l’addio a un linguaggio, ma quale? Il vecchio linguaggio cinematografico? Il nuovo? O è un addio al cinema in generale?
Parrebbe essere un testamento, e potrebbe esserlo davvero, ma quello di Godard è soprattutto un film politico.
Un film dei suoi, un film che si fa portatore di istanze rapportate al presente ma animate da quel sacro fuoco della politica che anima il regista da quando era un critico dei «Quaderni».
Nuove forme per vecchi contenuti, dunque.
Godard non si spoglia dell’intento politico, nel senso pasoliniano del termine: per intenderci, quell’intento sovversivo e provocatorio che stava alla base di «Fino all’ultimo respiro», «La donna è donna», «Le Mépris», fino all’originale «Due o tre cose che so di lei», racconto della realtà parigina (vera protagonista della pellicola) tramite il pedinamento di una donna.
Godard non si libera nemmeno della sua fama di polemizzatore col passato; se si confronta (coraggiosamente!) con le nuove tecniche filmiche, di fatto, però, non realizza nulla di nuovo per quanto riguarda la caratterizzazione dei suoi personaggi e l’intento con cui si approccia al cinema.
A tal proposito potrebbero venire in mente «Satantango», «Post tenebras lux», «Il gusto dell’anguria», dei sopracitati vari registi delle nuove generazioni.
Dalla loro parte, invero, c’è la freschezza, la giovane età e l’urgenza di partire da zero. Godard si inserisce in questo confronto, realizzando un capolavoro visivo, scrivendo il suo testamento intellettuale e artistico.
Poco importa se il film non si spoglia delle antiche intenzioni o se è davvero innovativo come certa critica sostiene, anche perché, del resto, l’intento politico non può mai invecchiare a fronte di una società sempre più dinamica e mutevole; ciò che è vero, però, è che il vecchio maestro si è dimostrato all’altezza della novità, della sperimentazione, regalandoci un piccolo capolavoro che porta in seno ciò che ci si attende da Godard, ovvero quel perfetto intreccio, quella delicata alchimia, quel dolcissimo connubio tra ragione, filosofia e poesia.
Nicola ‘nimi’ Cargnoni
p.s.: chi agisce al contrario di Godard è Wenders che utilizza vecchie forme per nuovi contenuti.
Il suo «Sale della terra» è una delle perle del 2014 a cui dedicherò un pezzo a breve.