18 Agosto 2020, 06.52
Blog - Circolo Scrittori Instabili

Le vie del Signore

di Marcello Rizza

Dolce è sentire, Signore, come il mio cuore sia gonfio di amore e bellezza sebbene nuove ruote scorrano lungo la via, nuove gambe spingano verso la meta, siamo vicini a Roma...


... Signore, ora so. Non capii il Tuo disegno, la prova, il crudele col miele come un piatto agrodolce della mia terra d’origine.

Due anni prima, partiti in quattro da Canterbury, moderni novizi in un percorso dal sapore antico, dopo quattro settimane eravamo già alle porte della Città Eterna, avremmo ricevuto l’indulgenza plenaria. Miglior preparazione prima dei voti sacerdotali non avremmo potuto studiarla.
Il Rettore, poco propenso alle mattane giovanili, indugiò a intercedere per noi col Vescovo, volevamo percorrere la Via Francigena come i pellegrini nel Medio Evo. Quando l’alto prelato ci convocò alla Curia annessa alla Cattedrale di San Lorenzo, la primavera alle porte, i profumi delle spezie di Sottoripa e le navi mugghianti in porto, ci accolse semplicemente, vestito con un impeccabile clergyman, con una soluzione già pronta incredibilmente moderna per dei Francescani. A piedi avremmo impiegato cinque mesi, troppo, la preparazione agli esami di teologia era importante. Avremmo potuto partire in bicicletta! In bicicletta! E sarebbero bastate quattro settimane.

Le gambe viaggiavano e le ruote giravano,
tra forature, grandinate e guasti eravamo comunque entro i tempi previsti, ancora due giorni e saremmo arrivati a San Pietro. Ero pervaso da entusiasmo, infervorato d’amore per Te, guardavo il cielo e le chiare stelle, la madre terra con prati, frutti e fiori. Cantavo quella canzone, le parole francescane le facevo mie nell’attraversare le campagne profumate di primavera, dipinte di more e lavanda.

E poi caddi. Mi risvegliai all’ospedale di Viterbo due mesi dopo l’incidente. I medici mi parlarono di una seria commozione cerebrale risolta e di una lesione alla colonna vertebrale, non avrei mai più camminato. Passarono altri mesi, l’inverno stava fuori dalla finestra d’ospedale e dentro il mio cuore. Non cantavo le Tue lodi, Tu lo sai che ho dubitato sulla fede, sul Tuo disegno, su di Te. Ti ho odiato, ho accettato che sei imperscrutabile, ma la Logica Divina è dura da osservare a fronte a certe prove. Mi ritrovai capovolto, un agnello sacrificale sgozzato e appeso per le zampe.

Arrivò lui, inaspettato. Lo avevo incontrato in seminario da adolescente, veniva dalle missioni, si presentò timido: Giustino Kouyaté. I suoi occhi color cerbiatto erano bellissimi e quando mi chiese se potesse toccarmi il volto, solo allora capii che era ipovedente. Non mi disse che ero bello: ”Sei buono, ti vedo ora”.
Quel pomeriggio stavo suonando con la chitarra “Dolce è sentire” di Baglioni, eravamo all’aperto, il sole era caldo. Mi stava vicino e mi ascoltava cantare assorto, a far sua la musica e le parole. E poi si alzò, si tolse la tunica da seminarista, restò in mutande mostrando un corpo scurissimo, magrissimo di passati stenti, e cominciò a ballare elegante al suono della mia chitarra, un ballo tribale che aveva qualcosa di sensuale. Continuai a cantare e lui ad africanizzare Baglioni, l’Altissimo, la Bellezza. Con Te, con la Natura, con l’entusiasmo adolescente vivemmo quel momento magico e ci abbracciammo, rimanemmo così per parecchi minuti. Prima della sua partenza passammo assieme tanto tempo, ci promettemmo amicizia eterna confidando nel Tuo disegno, Signore. Tornò in Africa a studiare, sarebbe rientrato in Italia per studiare teologia, ma sarebbero passati anni, ci perdemmo di vista.

Quando lo rividi in ospedale non lo riconobbi immediatamente
, poi disse: ”Posso toccarti il volto? Chissà come sei cambiato!”.

E li proruppi: “Giustino! Giustino… tu!”.

Feci il gesto di scendere dal letto per andare ad abbracciarlo, ormai non lo facevo quasi più, l’entusiasmo scemò in un secondo. Colse immediatamente, si avvicinò al letto, mi toccò il volto: ”Non sei cambiato, sei buono”, e mi strinse forte a sé.

Il suo corpo era ancora asciutto, gli occhi erano sempre quelli, belli, i capelli corti con una stranissima treccina dietro la nuca, un ciuffo mai tagliato che doveva avere un significato d’Africa. Vestiva una camicia bianca, dei jeans, sandali senza calze. Parlava perfettamente l’italiano, ne aveva fatta di strada. Mi raccontò dei suoi dubbi, della sua omosessualità, che ora lavorava in ufficio per conto di una ONG con sede a Roma, non guadagnava molto ma gli bastava per vivere dignitosamente. Io spiegai a lui che in procinto di prendere i voti rimasi paralizzato e che non mi sentivo più vocato al sacerdozio. Raccontai che una cosa in fondo superflua come quella di essere a un passo da Piazza San Pietro senza aver potuto compiere l’impresa mi ferisse, non riuscendo a comprendere la prova a cui mi stavi sottoponendo. Perché in questo modo? Perché togliendomi l’uso delle gambe?

Nei successivi mesi venne a trovarmi ogni sabato e domenica, ogni volta mi toccava, mi accarezzava il volto e ripeteva: ”Sei buono”, parlavamo del più e del meno. Lo aspettavo, aspettavo il sabato e la domenica.

E poi un giorno mi disse: ”Tra poco uscirai dall’ospedale, che ne dici di fare assieme la Francigena?”.

Lo guardai stupito: “Giò, sono un paralitico, non potrò mai più andare in bicicletta”.

Sorrise: ”Ho già pensato a tutto. Partiremo da Viterbo, ho gambe africane che sapranno spingere una carrozzina”, e ancora sorrise.

Ero esterrefatto: “Giò… “.

E allora proseguì: “Andrea, guarda che mi occorri, dovrai descrivermi la campagna e i luoghi che incontreremo e nel mentre canteremo Dolce è sentire. Vedi di impararla a memoria”.

Poco convinto, col tono di chi non ci crede dissi: “Sì, certo, e magari ci portiamo dietro la chitarra”.

“Andrea, non scherzo, arriveremo assieme a San Pietro”, e dopo un attimo aggiunse, “Dio lo vuole”.

Dio lo vuole? Mi ritrovai ancora capovolto, stavolta non come un agnello sacrificale, stavolta come il pipistrello che dorme a testa in giù perché è la sua natura. Ora ho capito Signore, Tu ami e promuovi qualsiasi amore. Tu volevi che raggiungessi San Pietro con Giustino, che non hai mai smesso di amare, e non hai smesso di amarmi.

Le gambe spingono potenti, le ruote della carrozzina aggrediscono la strada bianca, cantando e scorgendo da lontano la cupola impariamo ad amarci sempre più intimi, per ora siamo ancora amici, ma è dolce sentire come nel nostro cuore ora umilmente stia nascendo amore.

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.




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