Oggi vi spiego, parola per parola, cosa dice il titolo del mio racconto di filosofia: essere altro da sé significa essere nulla
Ciao Dru e intanto auguri. Vedo che il Natale non ti ha spento quel sacro fuoco benedetto per la filosofia che tutti gli uomini dovrebbero avere, anche in dosi molto minori delle tue.Tutto bene, ma come la impagli con la legna che diventa cenere?
Se fosse come dici bisognerebbe ancora aiutarlo quel povero Re, non credi ?
Auguri. Quel sacro fuoco benedetto brucia tutti, soprattutto quanti non lo alimentano, perché non capiscono a cosa serva poi tutta quella legna che non brucia e intanto si consumano. :-)
La parola guerra non indica solo un essente (qualcosa), indica tutto un'esperienza, un dolore, un senso di insicurezza e di violenza che tu non citi. Perché non lo fai? Perché è evidente che stai parlando di un sistema logico che potrebbe scegliere come oggetto anche una mela che sta nel portafrutta per valere ugualmente. Perché dunque si sceglie la guerra? Perché fa effetto, perché appunto evoca quella negatività di cui parlavo prima. Mi risulta, la scelta, un po' pretestuosa quindi, perché pur parlando di logica vuol fare colpo, ossia appello ai sentimenti, per ottenere quell'interesse che certo non otterrebbe parlando di mele, a parte qualche amante della Val di Non. Detto questo, ci si chiede perché l'ontologia, di cui tu scali le vette come fossero colline moreniche, dovrebbe andare oltre quel limite oltre il quale c'è l'uomo mortale. Il Pdnc fonda il nostro pensare, ma può forse impedire all'uomo di
decidere? Mi spiego: il principio di non contraddizione cambia forse la natura dell'uomo mortale di vivere nella fede di poter decidere? L'errore che vedo profondo nel tuo ragionare è quello di raccontare sempre la storia della fine degli immutabili, di Dio, di tutto ciò che è regola, metodo, impostazione della tradizione occidentale, ma cadi nel meccanismo di cercare e trovare un sostituto, spacciandolo per fondato, per incontrovertibile, mentre non è altro che un altro Dio, un altro episteme. Ma ragiona: come può l'uomo sfuggire al volere? Come puoi pensare che affermando la fine della morale, tu non stia mettendo l'immoralità come nuovo episteme? Cadendo nel medesimo errore che denunci.
Ecco dunque che un conto è dire che l'essere non può non essere, un altro invece è dire che la guerra è giusta perché ha la stessa radice filosofico-ontologica comune della pace. Dire che è giusta vuol dire entrare nel campo della morale, da cui si è dichiarato antecedentemente di voler rimanerne fuori per via ontologica. Insomma non si può mischiare le carte con lo scopo goliardico di fare effetto, non è corretto.
La risposta, spero esauriente, la troverai nel mio prossimo scritto. Intanto posso risponderti che se so di essere nell'acqua allora nuoto, se lo dubito, che sono immerso nell'acqua, allora cerco di nuotare e vedo se mi va "bene" e se invece penso di essere (so di essere)) nel fuoco, anche quando fossi nell'acqua, allora mi dispero e annego... questo lo scrivo perché il "sapere" condiziona ogni nostra azione. Giustizia è ciò che si mostra con autorità, allora se la guerra è ciò che consente la sopravvivenza di ogni cosa allora la guerra è giusta, anzi la guerra è armonia, come diceva Eraclito.
per riconoscere l'errore bisogna essere nella verità. Tu dici che erro quando racconto sempre la stessa storia, cioè degli immutabili che tramontano, sarebbe curioso da quale verità parte questo mio errare su questa solita storia, come se ne esistesse appunto un'altra che la nega con verità. a parte questo ridurre questo, che è necessità, ad un meccanismo è sempre quel divenire altro che è l'esser altro da sé dell'essente, in questo caso appunto il fondato che vuole essere il fondamento. Bisogna a questo punto che tu ti sforzi di capire cosa si intenda per fondamento che non può esser lo stesso dell'errore in quanto fondato, ma ciò che nessun Dio o uomo può smuovere.
la filosofia trasforma il mondo, perché il mondo si riflette nel linguaggio e il linguaggio nel pensiero. Capisco che le colline moreniche a qualcuno possano sembrare anche cime invalicabili, ci sta, come quel qualcuno che crede di essere nel fuoco quando è nell'acqua, ma le colline moreniche restano le colline moreniche e non divengono altro.
"ma ragiona: come può l'uomo sfuggire al volere? come puoi pensare che affermando la fine della morale tu non stia mettendo l'immoralità come nuovo episteme? cadendo nello stesso errore che denunci."appunto, non potendo sfuggire al volere l'uomo ragiona nei termini in cui hai ragionato tu qui, trasformando la morale in qualche cosa d'altro, trasformazione che deriva, come specificazione, dalla trasformazione universale dell'essere in non-essere. Infatti dici, "affermando la fine della morale", confondendo il "tramonto" con la "fine nichilistica", che tu non puoi attribuirmi quando a parlare è la verità e non il nichilismo. La fine che pensi tu non è la vera fine e cioè non è il tramonto, il tramonto delle cose non è la fine nichilistica, il tramonto non determina alcun annullamento, alcun passaggio dell'essere nell'altro da sé.
confondendo tu "la morale" con la "tua morale" non fai altro che astrarre dal concetto de "la morale" quello che ti conviene della morale, rifiutandone il resto, ma quello che ti conviene della morale e il resto è "la morale". allora Eraclito insegnava ad ascoltare logos e non egli, perché tutto è uno.Il mio pensiero, che è poca cosa, non è il pensiero, che è tutto, e sempre Eraclito insegnava che “Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logos comune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro propria e particolare saggezza".
mi accusi di nascondere il dolore, le pene, l'insicurezza, la violenza come esperienza della guerra, ma è proprio qui che bisogna stare molto attenti e capire il senso concreto di guerra, abbandonandone quello astratto, perché non è perché il dolore non lo senti tu che allora le cose cambiano per la guerra. Sempre eraclito dice, per ciò che è il senso concreto di guerra: “Da questo logos, con il quale soprattutto continuamente sono in rapporto e che governa tutte le cose, essi discordano e le cose in cui ogni giorno si imbattono essi le considerano estranee”. e ancora “L’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia e tutto accade secondo contesa" il logos per Eraclito e il pensiero occidentale è la Guerra fra le opposte "cose" che esistono in quanto sono in guerra, cioè in logos.
“Bisogna pero sapere che la guerra è comune (logos), che la giustizia è contesa e che tutto accade secondo contesa e necessità.
sto scrivendo della "cosa" in quanto pensata dal pensiero occidentale, sono quindi nella dimensione nichilistica. In quella dimensione, se "voglio" sopravvivere in essa, se "voglio" dare valore a quella dimensione, se "voglio" che la dimensione esista, per comportarmi "bene", cioè se "voglio" riflettere la cosa del pensiero occidentale, questo è il "bene" pensato dall'occidente, se non mi oppongo e, in quanto oltre, mi oppongo, allora devo definirla per quello-che-è e non per quello che vorrei-che-fosse, dove "quello-che-é" è "il" pensiero, mentre quello che vorrei-che-fosse è "il mio" pensiero.
allora logos ti dice: fai la guerra a coloro che vorrebbero che il mondo fosse in guerra, se vuoi ottenere quello che desideri, se vuoi che il mondo si trasformi in mondo in pace e non vuoi essere, da quelli che vogliono che il mondo si trasformi in mondo in guerra, sopraffatto. Tu replichi, no, vorrei che il mondo fosse in pace senza fare alcuna guerra a quelli, senza dolore e spargimento di sangue, senza insicurezza e senza violenza (questo è l'astratto di guerra, questa è l'estraneità alle cose di cui parla Eraclito, questa è la saggezza privata, questo è Hybris o idia fronesis).
Non riconosci che è quel vorrei che ha già messo in campo cavalli e cavalieri e che la guerra è quel "vorrei" che la fonda, perché la tua volontà non è la mia volontà, il mondo che tu vuoi non è il mondo che voglio io, io voglio possedere un mondo che, in quanto è il "mio" mondo, si oppone e contrasta il tuo di mondo e che non è il mondo. Non hai ancora inteso che è questo vorrei che suscita nel pensiero delle cose la violenza, l'indecisione e l'insicurezza prima ancora di ogni possibile pace su ogni cosa?
non mi ripetere il pensiero di Eraclito, che usava la parola guerra per indicare altro. Imploro un reset. Cerca di afferrare, per una volta, il sottile meccanismo di cui ti ho fatto dono, e che è chiaro come il sole. Ogni volta che fai un'affermazione ti muovi nella volontà e nell'errore, nel nichilismo. Peggio se lo fai pensando di non farlo. Può un uomo incrociare le braccia? Può non decidere? Il "non decidere" è pur sempre una decisione, ricadendo nell'errore che intende ovviare non decidendo, appunto. Ebbene, questo semplicissimo meccanismo crea un conflitto enorme tra quella volontà che cerca un fondamento epistemico e quell'altra volontà che riconoscendo l'errore crede di non esserne soggetto per il fatto di "sapere" la verità del destino.
Qui dovrebbe scattare il tuo riconoscimento, ossia la comprensione che il nichilismo, quello che artatamente nascondi dietro i panegirici dell'immoralità, non regge di fronte al principio di non contraddizione, perché non fai altro che riproporre un altro episteme, un non-episteme assurto a nuova regola, nuovo Dio. Ma la domanda importante, che ancora non ti sei fatto, è: se tutto è necessario, mentre l'uomo pensa che tutto sia contingente, perché si vuole fondare a tutti i costi il contingente su un principio come il necessario? Ecco l'errore che segnalo: se il meccanismo umano della fede è l'errore, qualsiasi fondamento che si cerca di porre a giustificazione dell'errore fallirà nel suo compito di trasformare l'errore in verità. Se la moralità è l'errore perché scelta e volontà dell'uomo, anche l'immoralità è errore come scelta e volontà dell'uomo. Questa la lezione di Eraclito.
sei tu che indichi la parola guerra per indicare altro dalla guerra, la guerra del senso comune, non Eraclito. A suo modo, alla maniera del pensiero occidentale, Eraclito pensava il termine guerra nel senso più ampio possibile, dentro il nichilismo, altrimenti non sarebbe quell'Eraclito che tutti temono e di cui tutti si fanno base, da Aristotele fino ai giorni nostri. Sei ancora sognante caro Leretico? questo tuo dormiveglia mi piace, prima dormivi sonni profondi, è già un buon inizio. Se il destino fosse un cercare allora non sarebbe, sarebbe contraddittoriamente. Quando scrivo, quando penso e quando enuncio il destino sono nell'errore del destino, questo riconosco del destino, perché il parlare, il pensare e l'enunciare il destino non è il destino. ma questo non significa che allora il destino è irriconoscibile, irriconoscibile è per chi pensa che l'errore sia verità.
È inutile quindi contorcersi indeterminatamente nel tentativo di fondare il morale/immorale sul necessario perché sono sue piani diversi. Vedere da fuori come stanno le cose non si può tradurre in un "fare" perché significherebbe un volere e quindi una contraddizione. E ci domandiamo: ma il sapere cosa cambia visto che il credere di incidere con un "fare" e vano? Qui sta il punto a cui non rispondi mai, o se rispondi, indichi ancora soluzioni nichilistiche. Infatti la risposta non può coinvolgere in nessun modo il fare o la volontà, altrimenti cadremmo, come tu fai sempre, nella contraddizione che ti ho segnalato. Il sapere allora può essere solo coscienza del necessario, non altro. Coscienza del tramonto delle figure e degli errori creati dalla volontà, a cui non ci si può sottrarre. Una dimensione molto diversa da quella strumentale e pedante del morale e dell'immorale, molto più filosofica.
"Ma la domanda importante, che ancora non ti sei fatto, è: se tutto è necessario, mentre l'uomo pensa che tutto sia contingente, perché si vuole fondare a tutti i costi il contingente su un principio come il necessario?" perché l'uomo vuole fondare il fondante trasformando appunto il fondante con il fondato e così pensa contraddittoriamente, pensa che il fondante abbia bisogno di essere dimostrato e quindi compie l'errore di "volere" che il contingente sia fondato, pensa che anche il tutto debba nascere da qualcosa e siccome non può nascere da sé, poiché il generante non è il generato, allora nasca da ciò che gli si oppone, dal nulla. Perché il pensiero astratto pensa che il tutto non sia il tutto, rimandando la sua generazione all'infinito.
Rifletti, cosa è il contingente, per il pensiero astratto, se non qualcosa che sorge dal nulla? e cosa è il nulla se non il creatore di questo che chiami contingente? se qualcosa non si generasse potrebbe essere incontraddittoriamente, ma per essere incontraddittoriamente deve predicarsi del destino, non basta che si tenga fermo sull'evidenza del divenire nichilistico. Però devi riflettere profondamente, caro Leretico. Tu dici che questo è nuova Episteme, forse perché non hai ben definito cosa significhi Episteme, se vuoi posso rimediare, ma sarei lungo...
dici infatti " è inutile fondare il morale e l'immorale sul necessario". Forse bisogna che ti spieghi, perché il morale e l'immorale può essere fondato solo e unicamente sul necessario, ma il necessario va compreso, non è quell'impossibile che non sia, definito nel principio di non contraddizione, perché è appunto impossibile che non sia quando non è, no, il necessario è l'impossibile che non sia (punto). Solo così puoi definire ogni cosa, altrimenti è contraddittorio il farlo, altrimenti ogni cosa è già altro da sé. Poi, in seguito, mi metti in bocca parole che non ho detto e concludi su una base diversa da quella che io ho posto, una base che forse immagini tu di quello che indico, ma questo è proprio dell'errore della forma dell'essere, il linguaggio che ti era proprio e che con filosofia stai trasformando, non accorgendoti per altro che alla base di questa trasformazione ci sto ancora
io per ciò che concerne il destino (lo stare).
che scegliere (siamo noi) non è la scelta (quello che diventiamo). Noi crediamo di poter scegliere, crediamo di essere noi, lo crediamo perché viviamo, non potremmo altrimenti vivere come esseri mortali, come "noi", non potremmo essere esseri viventi, l'essere vivente significa scegliere di non morire, scegliere di non morire è la volontà di vita, scegliere significa decidere, prima contemplativamente, con la scelta e poi praticamente, con la decisione. Solo in quanto il pensiero astrae il nulla e lo fa diventare qualcosa e astrae il qualcosa e così facendo lo fa diventare nulla, solo in questi termini noi erriamo e vogliamo ciò che è da sempre nostro, volere ciò che è da sempre significa sbagliare, perché l'ottenuto è essenzialmente diverso dal voluto.
si vuole sempre contraddittoriamente, perché il volere è violenza, no il contingente è necessariamente contingente e non può essere altro da sé.
Credere che non uccidere sia morale e uccidere sia immorale è credere che l'essente sia altro da sé, è volere che la moralità sia qualcosa che non é perché se per sopravvivere debbo uccidere allora uccidere è altamente morale. Se l'ISIS per essere ISIS crede che uccidere 150 bambini le consente di sopravvivere altamente immorale, per l'ISIS, è non ucciderli. Questo è un banalissimo esempio, ma appunto perché sciocca dovrebbe farti comprendere quanto sei fuori strada se non consideri le categorie ontologiche nel pensiero. Morale per te non significa morale.
dici. No, la coscienza del tramonto delle figure e degli errori è già un sottrarsi, poiché, in quanto contraddizione C, il suo superamento, il superamento di questa contraddizione, non è già la sua negazione, ma la sua realizzazione. E' la coscienza che, in quanto tale, è fondamento di ogni nostro agire: sapere che si è in errore è diverso dal non saperlo e ogni azione che si veste di questo sapere (questa è la morale), assume un significato essenzialmente diverso (questa è la trasformazione del mondo nel sapere o filosofia).
tra l'errore suscitato dalla persuasione nichilistica che l'essere sia niente e la verità della necessità dell'essere, sia un che di problematico che si risolve nel tramonto della persuasione nichilistica, anche questo appare, appare il problema, non appare la soluzione.. la soluzione non può apparire in quanto verità, ma solo in quanto errore e per questo la struttura originaria e l'originaria contraddizione.
...la struttura originaria è l'originaria contraddizione.
La volontà che le cose siano niente è l'alienazione essenziale.. Il pensiero che scorge l'essenza dell'alienazione si mantiene quindi in una dimensione diversa da quella in cui cresce la storia dell'Occidente ed è intento ad esprimere la struttura delle due dimensioni e il senso della loro differenza. Esso non prescrive alcun dover essere, ma scorge la via inevitabile che il mondo percorre realmente al di sotto dei "sentieri della notte" lungo i quali la volontà di potenza crede di spingerlo.
Tu capisci bene che in gioco vi sono due strutture e non una, quella del pensiero occidentale o struttura dell'alienazione, volontà di potenza che le cose siano niente, e l'esser sé dell'essente e il non essere il suo altro da sé, la struttura originaria dell'essere. Bene, ora un esempio all'apparenza stupido ma che può farti comprendere dove sbagli nella critica: nella prima struttura vi sono regole definite dalla matematica, nella seconda la matematica è inesistente. Chi crede nella volontà di potenza lo fa sul principio della matematica, chi crede nella struttura originaria no. Io sono uno che non crede nella matematica e incontro due che invece sanno di essa, vi credono, e sono intenti in una somma. Il primo dice che 2 più due fa quattro e il secondo dice che 2 più 2 non fa quattro ma fa cinque. A questo punto dovresti aver capito tutto della negazione della tua critica, ma continuo.
È ovvio che quei due, dal mio punto di vista, la dimensione della struttura originaria, dicono non sensi, sia l'uno che l'altro, perché io disconosco la matematica, ma nella loro dimensione è meno potente colui che, pur non disconoscendo la matematica, dice che 2 più 2 fa cinque. Perché i due saperi esistono Leretico, anche se un è l'errore e l'altro è la verità, e i saperi trasformano il mondo e conseguentemente trasformano, i saperi, le azioni di ognuno e quella del 2 più 2 uguale a quattro, sempre nella dimensione matematica, è più potente di quella che dice che 2 più 2 fa cinque. Spero di essere stato esaustivo, ma con un poco di logica ci arrivi anche tu, ciao.
Se, dunque, i dati che confermano o falsificano una previsione hanno valore scientifico solo in quanto esiste un consenso sociale circa la loro esistenza e struttura, e se l'esistenza di una società e di un consenso sociale è qualcosa di voluto dalla volontà interpretante, ne viene che l'esistenza della conferma della previsione è essa stessa qualcosa di voluto dalla volontà interpretante. La scienza domina la terra perché le sue previsioni sono confermate e la loro conferma possiede il più alto grado di consenso sociale: questo significa che la volontà di potenza, in cui la scienza consiste, non solo è volontà che vuole il dominio, ma è volontà che stabilisce in che cosa debba consistere tale dominio (appunto perché è la volontà interpretante a volere quell'esistenza del consenso sociale relativo al dato), che è condizione indispensabile affinché il dato valga come
conferma delle previsioni scientifiche e cioè perché tali previsioni abbiano successo. Il successo, il dominio della scienza é voluto, non solo nel senso evidente che il dominio è lo scopo che la scienza si propone di realizzare, ma nel senso, estremamente più radicale e sfuggente, che la realizzazione dello scopo non è la produzione di un dato, ma è la stessa volontà di potenza a decidere che il dato che è stato prodotto sia la realizzazione degli scopi che la scienza si propone, ossia è la stessa volontà di potenza a decidere che ciò che oggi esiste sulla terra è il dominio della scienza. Il metro, il criterio in base al quale si stabilisce che la scienza domina il mondo non è qualcosa di esterno alla scienza, al quale la scienza debba adeguarsi come a un assoluto e a un immutabile, ma è la stessa volontà di potenza della scienza a decidere quale dev'essere il metro,
il criterio in base al quale si stabilisce che la scienza domina il mondo. La volontà di potenza è dominio perché è capacità di realizzare i propri scopi. Ciò significa che, in quanto si incarna nella scienza, la volontà di potenza è la capacità di usare il divenire del mondo come mezzo per la realizzazione dei propri scopi, ed è questa capacità perché non dissolve il divenire nel sogno degli immutabili, ma è previsione ipotetica che si organizza secondo la logica della probabilità e non secondo la logica dell'episteme. E non solo la volontà di potenza non dissolve il divenire, ma non si pone nemmeno come una forza antitetica all'accadimento del divenire: la volontà di potenza è l'evento che domina ogni evento, L'accadimento che domina ogni accadimento, il caso che domina ogni caso.
Ma la volontà di potenza non è semplicemente capacità di realizzare i propri scopi: essa è innanzitutto la volontà che decide che l'accadimento del mondo sia la realizzazione dei propri scopi , ossia che decide quale debba essere il criterio in base al quale si stabilisce che ciò che accade é il dominio della scienza. Ma questa decisione che interpreta l'accadimento del mondo come dominio della scienza non è una nuova forma di sogno (ndr. come lo era l'episteme, non è quindi una nuova episteme come vorrebbe Leretico) o una velleità impotente: appunto perché è all'interno di questa decisione che il mondo accade in quella forma che si lascia interpretare, e cioè volere, come dominio della scienza. Questa decisione non ha alcuna garanzia (ndr. Verità) e alcun fondamento, ma è all'interno di questa radicale mancanza di fondamento che le operazioni della scienza sono accompagnate
da quella forma di accadimento del mondo che la volontà di potenza decide appunto di far valere come dominio e successo della scienza. È in questo modo che, con la scienza moderna, la volontà di potenza domina il divenire.
Tanto il punto luminoso quanto la proprietà di essere aspetto visibile di una stella sono dati, sia pure in modo diverso. Ma che il punto luminoso sia l'aspetto di una stella non è un dato, ma è una interpretazione, una volontà interpretante che, appunto, conferisce al punto luminoso il significato addizionale di essere l'aspetto di una stella. Tutti i dati dell'esperienza sono interpretati. Si decide (cioè si vuole) che il punto luminoso sia l'aspetto di una stella. Così come si decide che certi eventi molto complessi siano comportamento sociale di altri individui umani: non si constata, e non si stabilisce analiticamente, ma si decide che certi dati siano la società e quindi si decide che certi dati siano un comportamento intersoggettivo di consenso o di dissenso relativamente a ciò che viene inteso come "dato a me".
Se il sogno sta alla realtà come la forma del sogno (punto fondamentale che ho sottolineato del testo Legge e Caso) sta al sogno allora, essendo il sogno la decisione o il divenire nichilistico e la forma del sogno l'episteme che intendeva ( come struttura del sogno) guidare e tracciare la via del sogno, non puoi (è contraddittorio)dirmi che la realtà non può dire nulla (intervenire nel) del sogno, perché (sulla base che) il sogno è una nuova forma del sogno, perché è alla base del sogno che c'è la realtà e non il contrario(detto così è un dogma ma se mi date 100 post lo squaderno) e oltretutto confondi il sogno con la forma del sogno e impedisci a Freud di scrive l'interpretazione dei sogni. Il sogno non dice nulla della realtà, ma la realtà interpreta i sogni.
Il destino non prescrive alcun dover essere perché è del sogno, della follia , il farlo e se anche il destino lo facesse sognerebbe. Ma questo non significa che allora il destino non può nulla, anzi la verità è essenzialmente diversa da queste ultime parole, questo significa proprio che il destino può tutto.
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