07 Maggio 2012, 09.00
Recensioni

Wrecking Ball

di Nicola Cargnoni

Una palla da demolizione per far crollare le nostre flebili certezze. La recensione dell'ultimo di Bruce Springsteen di Nicola (nimi) Cargnoni.

 
Il paradosso di questo disco è l’averlo ascoltato ripetutamente fin da 15 giorni prima che uscisse.
La situazione paradossale non è la possibilità di scaricare un album in mp3 prima della data di uscita ufficiale (che è ormai usuale), ma il fatto che io abbia sfruttato questa possibilità.
 
Con tutti i dischi precedenti, quelli usciti nell’epoca del download selvaggio, ho sempre preferito attendere e arrivare “vergine” al primo ascolto.
Negli anni di Devils and Dust e del Seeger session questa strategia funzionò. Resistere ai commenti entusiasti sui vari blog e forum mi aiutava a far crescere l’aspettativa su dischi che si sono poi rivelati eccezionali. Aspettativa che si risolveva poi nell’andare la mattina del giorno cruciale a comprare il vinile, arrivare a casa, mettere il disco sul piatto e starmene anche 2, 3 ore a riascoltarlo.
L’attesa valse la pena, in parte, anche con Magic. Un disco che non si rivelò certo all’altezza dei precedenti, ma che lasciava comunque trasparire in pieno il mito della strada e la sensazione di libertà, tipici dell’opera ciana.
Ricordo invece come fosse ieri l’uscita di Working on a dream, nel gennaio del 2009. Quel disco arrivò in un pessimo periodo della mia vita, forse il peggiore. Lo attendevo come si attende la telefonata di un amico nel momento in cui più ne hai bisogno.
La telefonata non arrivò.
O meglio, arrivò ma era muta.
La delusione per quel disco fu abbastanza cocente e fu il frutto di alte aspettative forse (lo ammetto) ingiustificate. Erano dettate più da un bisogno mio che dall’oggettività del momento.
Insomma, avevo riposto la mia fiducia in Bruce e mi sentivo tradito. Ovviamente i concerti di quell’anno servirono a ristabilire l’equilibrio e ad andare a pari.
 
Proprio per questo motivo arrivo al gennaio 2012 con poche aspettative e la (quasi) certezza che Bruce abbia esaurito la vena creativa. I rumors sul disco in via di concepimento, del resto, non mi hanno aiutato: un sacco di collaborazioni (compreso Tom Morello dei Rage against the machine), lo scarso utilizzo della E-Street band, una title-track usata due anni fa, un’altra canzone vecchia di 13, 14 anni. Insomma le premesse erano quelle di un disco concepito per avere la scusa buona di fare una tournèe.
A gennaio esce il singolo We take care of our own, accompagnato da un intervista dove Bruce parla del titolo che avrà il nuovo disco, Wrecking Ball. Letteralmente: palla da demolizioni. Bruce parla subito chiaro “Per ricostruire la mia America, occorre prima demolirla”
Un disco arrabbiato, quindi. Un disco contro l’attuale status quo della società americana (o meglio, occidentale). Un disco che dovrebbe scuotere coscienze.
Il singolo, però, parte con un attacco grasping, accattivante e veemente, per poi appiattirsi musicalmente. Lo ascolto, esprimo il mio disappunto tirando in ballo la Santa Trinità e lo archivio, ormai abbandonando le speranze riguardanti un barlume di aspettativa che poteva esserci.
 
Fine febbraio 2012. Mi contatta in chat il mio caro amico Germano, passandomi il link per scaricare la versione in mp3 (ufficiosa) del disco.
Cedo alla tentazione, senza ritegno e senza esitazione, riservando a Bruce il trattamento che riservo a un qualsiasi artista. Scarico e, senza sentirmi in colpa per esser venuto meno alla religiosa attesa della data ufficiale, senza aspettative, faccio partire il player dalla seconda traccia, saltando la prima, che è il singolo uscito a gennaio.
Passano 40 minuti senza ch’io me ne renda conto: uno dietro l’altro. Nella mia testa entrano suoni che vanno dal folk al gospel, conditi da una freschezza rinnovata, segno della nuova produzione di Ron Aniello, lontana dai suoni “impastati” di O’Brien.
Suoni che ripercorrono il rock antico e lo fanno diventare nuovo: tutto questo nelle 10 tracce ascoltate con enorme emozione. Da troppo tempo non mi brillavano gli occhi al primo ascolto di un disco di mr Springsteen.
L’ultima traccia finisce e in un minuto faccio ripartire (stavolta dall’inizio) l’intero album.
 
Ora anche il singolo, nel contesto dell’intero disco, assume il giusto valore. La We take care of our own che era passata abbastanza in sordina come singolo ritorna ad aprire in maniera prepotente, col suo testo ironico e ambiguo (che ha scatenato anche numerose e interessantissime discussioni filologiche sui forum internet), un disco che è la continuità di quel fil rouge che sembra partire da Magic. Il titolo, come il ritornello, è senza il punto interrogativo che stando a recenti interviste a Bruce dovrebbe essere sottinteso. “Riusciamo a prenderci cura di noi stessi, della nostra gente; ovunque sventoli questa bandiera, ci riusciamo?”, in un ritmo che scorre fino a Easy money, canzone che sprizza letteralmente gioia, e il tema della musica allegra che accompagna testi abbastanza angoscianti sarà un po’ il leit motiv del disco. Proprio come accade in Shackled and drawn, dove il protagonista si sveglia una mattina “ammanettato e trascinato” (proprio come quelli di Occupy Wall Street) in un mondo capovolto; questa canzone esprime il paradosso della società attuale, il mondo capovolto, dove il lavoro è visto come una benedizione (“ho sempre amato la sensazione del sudore sulla mia maglietta”) al contrario dell’andare in città a “fare soldi facili” di Easy Money. Il concetto è lampante nel verso “La libertà, figliolo, è una camicia sporca; il sole sulla mia faccia e la mia pala nella terra tengono il diavolo lontano”.
 
La ballata Jack of all trades è quanto di più eloquente ci possa essere proprio sul tema del lavoro come fortuna e salvezza. Musicalmente è un lento eccezionale, che accompagna la storia di Jack il “tuttofare” che racconta tutti i lavoretti pratici di cui è capace. E in questa praticità narrata da Bruce ci si può tranquillamente trovare l’arte di arrangiarsi, ormai una condizione necessaria in questo momento. “Sono Jack il tuttofare, sono uno che se la cava, piccola, andrà tutto bene”: la concretezza di lavoretti pratici che accompagna l’insicurezza di ogni giorno passato sperando. Una speranza, comunque, che non muore mai e che non è mai messa in discussione nell’arco dell’intero disco.
 
Death to my hometown è una bomba celtic-folk, di quelle che su youtube danno adito a commenti del tipo “proud to be irish”. È eccezionale, uno dei punti “più alti” (ammesso ce ne siano di bassi) dell’intero album. L’ennesima situazione di musica “che fa saltare” ma che urla la rabbia di chi si ritrova in una città devastata dalle “bombe a frammentazione”, fino ad arrivare all’eloquente esortazione “Quindi ascolta un po’ ragazzo, sii pronto per quando arriveranno; perché ritorneranno, è sicuro come il sorgere del sole; quindi trovati una canzone da cantare e cantala sino alla fine, cantala forte e cantala bene, manda quei baroni rubagalline dritto all’inferno
Quel “trovati una canzone da cantare e cantala sino alla fine” mi trasmette una carica emotiva pazzesca, la musica vista come scrigno dove conservare il tesoro della speranza, della salvezza e della battaglia per sopravvivere.
 
A fare da contraltare segue This depression, che non nasconde affatto il concetto di amore come rifugio al momento che stiamo vivendo (“Te lo confesso, in questa depressione ho bisogno del tuo cuore”), con un assolo meraviglioso di Tom Morello.
Il giro di chitarra iniziale dà subito il via alla title-track, Wrecking ball, una canzone MERAVIGLIOSA, che già si aveva avuto modo di sentire in alcuni concerti del 2009. Una canzone autobiografica e anche molto allegorica; Bruce gioca molto con questo titolo, interloquendo idealmente con il giocatore di una squadra di baseball (sport dove la “wrecking ball” è una palla potente ad effetto) e dicendogli “se hai le palle, se pensi sia il tuo momento, fatti avanti e tira fuori la tua palla demolitrice”. Bè, viene facile pensare che quel giocatore in realtà sia Obama, supportato fin dall’inizio da Bruce, ma che fino ad ora non ha dimostrato molto coraggio nella sua politica. Bruce non ha mai nascosto il fatto che fin qua si sia fatto poco. L’asse portante del disco è in questa esortazione, senza fronzoli, senza giri di parole, “se hai le palle”; ed ecco il concetto di “palla demolitrice” già espresso all’inizio, demolire completamente per poter ricostruire da capo. Insomma, Born in the usa 28 anni dopo?
 
Quella che segue, You’ve got it, è una canzone “facile”, nella quale non ci ho trovato molto da dire sia musicalmente che nel testo.
Fa un po’ la parte della “Let’s be friend” di The Rising, mi pare sia un buon metodo per allentare la tensione di un disco abbastanza agguerrito…
Pausa che è più che giustificata se consideriamo il livello del trittico finale: Rocky ground è ormai considerata dai fans, in maniera abbastanza maggioritaria, la regina del disco (non per me, si vedrà poi). Una canzone che forse non ti aspetteresti di trovare su un disco di Bruce: c’è dentro del blues, del gospel, un pezzo parlato in rap.
Musicalmente è una badilata di innovazione, di coraggio e sinceramente anche di emotività. L’incipit, quel “Tirati su pastore, alzati, il tuo gregge ha vagato lontano dalla collina” mi rappresenta in pieno; rappresenta credo un po’ tutti quelli che hanno preso Working on a dream come un affronto alla propria sensibilità.
E Bruce, il nostro “pastore” sembra essersi rialzato, per recuperare il suo gregge e riunirlo nella grande festa di questo disco. Se non fosse per la traccia successiva, credo sarebbe la mia preferita in assoluto di questo album.
 
E quella parte cantata in rap, della quale pretendo di riportare l’intero testo, è allucinante per la sua bellezza poetica: “Usi i tuoi muscoli e la tua mente e preghi meglio che puoi, che il tuo meglio sia sufficiente, al resto penserà il Signore; allevi i tuoi figli e insegni loro a camminare sicuri sulla retta via. Preghi che i tempi duri non vengano più, cerchi di dormire, ti giri e ti rigiri e i piedi rimangono scoperti; dove una volta c’era fede ora ci sono solo dubbi. Preghi per una guida ma solo il silenzio incontra le tue preghiere; il mattino irrompe, ti svegli, ma non c’è nessuno
Una volta ho letto una disanima su una canzone di Bruce, era lunghissima e qualcuno commentò “tutta questa roba per una canzone?”. Un altro gli rispose: “Ci sono canzoni, ma anche opere letterarie in musica e con springsteen si viaggia sempre col secondo tipo”.
Credo sia questo il caso.
Su Land of hope and dreams vorrei essere più breve, ma secondo me è una canzone incredibile. Intanto è incredibile la capacità di Bruce di dare una veste nuova a una canzone che esegue dal vivo da 13 anni (ma che su disco non era mai apparsa). Temevo una minestra riscaldata e mi son ritrovato con l’unica canzone dove la E-Street Band è davvero presente: l’uso dell’hammond, le chitarre, la batteria potente di Max. Un forziere colmo di beltà e gioia, con quel testo così carico di speranza (stavolta non mi prendo la briga di fare citazioni, ve lo dovete cercare e leggere per intero perché è una meraviglia di arte contemporanea). E quell’assolo di sax, postumo, l’ultima traccia del suo grande amico Clarence, scomparso lo scorso giugno.
 
Ascoltare una canzone che si conosce da 13 anni e provare emozioni come se fosse la prima volta: come si può spiegare? Solo in pochi riescono a sortire questo effetto. Land of hope and dreams è una canzone che inconsciamente aspettavo idealmente da anni, nella sua potenza, nella sua bellezza, nella sua poesia. Ma non è finita qui. A condire il tutto c’è We are alive, che continua quel fil rouge di canzoni dal testo coraggioso e la musica che ci costringe a buttarla sull’ottimismo. È un tributo a Johnny Cash (con l’utilizzo del riff di Ring of fire), a Clarence Clemons, a Joe Strummer, a tutti quei grandi della musica che se ne sono andati. È un chiaro messaggio di speranza, un tributo a quelli che non ci sono più ma che non smettono mai di esserci.
 
A questo punto del disco trattenere le lacrime è impossibile. Il messaggio di gioia che arriva da questo tesoro di canzone (“Siamo vivi e, sebbene noi giacciamo qui soli nel buio, le nostre anime sorgeranno, per portare il fuoco e accendere la scintilla, per combattere spalla a spalla e cuore a cuore”) fa da cornice alla consapevolezza che questa canzone conclude un disco stupendo, dove la razionalizzazione (della nostra misera e attuale condizione) non uccide mai la speranza.
Il finale non scontato di We are alive (si poteva pensare a qualche ballata in ricordo di Clarence e invece arriva un capolavoro di allegria folk) è la ciliegia su una torta squisita.
 
A questo punto mi sento quasi pentito di aver ascoltato anzitempo un disco che è una vera e propria chiamata alle armi. Una “land of hope and dreams” (tanto per citare un titolo) attesa da anni dai fans.
Il CD è uscito con due bonus tracks; non le ho commentate proprio come la Sony non le ha pubblicate sul vinile. A parte questo, Swallowed up devo ancora metabolizzarla; American land (un’eccezionale capolavoro irish tendente al punk-rock) è un’altra reprise che mi sento di mettere a parimerito con Land of hope and dreams.
Spero che queste mie emozioni non siano dettate dall’effetto inverso rispetto a quello che mi procurò Working on a dream: ma non credo. Il disco non mi ha colpito solo nella freddezza della mia disillusione, ma cresce di giorno in giorno. Per metterla in battuta, ora il 21 dicembre può tranquillamente arrivare.
Per dirla col cuore, stavolta non aspettavo telefonate da nessun amico; ma è arrivata, ed è stata meravigliosa.
 
Nicola “nimi” Cargnoni


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