03 Ottobre 2023, 10.36
Paitone
Anniversari

Vajont sessant'anni dopo

di Franco Tarsi

A Paitone sabato prossimo 7 ottobre il film “Vajont” di Renzo Martinelli nell'anniversario della tragedia della diga


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9 ottobre 1963, sessant’anni fa, ore 22.39. Dal versante settentrionale del monte Toc, in provincia di Pordenone, si alza un frastuono terrificante, che - è il caso di dire - nessun orecchio umano ha mai sentito. É il frastuono provocato da una frana immane che precipita dalla montagna nel lago artificiale a monte della diga che sbarra il torrente Vajont.

A Longarone, grosso paese in val del Piave, proprio sotto la diga, e a Erto, alto sopra il lago, capiscono subito che cosa sta succedendo. Se lo aspettavano. Ma ormai è troppo tardi. In quattro minuti, troppo pochi per salvare la pelle, la frana, immensa, alta 500 metri e larga 2 chilometri, per un volume totale calcolato in 260 milioni di metri cubi, solleva un’ondata alta fino a 250 metri che fa schizzare fuori dal lago 30/40 milioni di metri cubi d’acqua, un terzo di quella contenuta nell’invaso in quel momento, che danno luogo ad una impressionante mietitura di vite umane.

Qualche giornale, nella confusione e nell’assenza di informazioni precise seguite al disastro, titolerà: “crolla la diga del Vajont”. Ma non è vero. La diga, la più alta del mondo a doppia curvatura, 262 metri fino allo sfioramento, costruita in una forra stretta, altissima, impressionante, ha retto perfettamente alla gigantesca spinta, che pure era venti volte più forte dei livelli di resistenza progettati, e non ha un graffio.

E’ stata la gigantesca valanga d’acqua, uno tsunami mai visto, a spazzare e travolgere, a monte e a valle, precipitando poi verso il Piave (di cui il Vajont è affluente di sinistra) tutto ciò che ha incontrato e a portarsi via 1.910 vite umane: una delle peggiori tragedie naturali al mondo causate dall’uomo. Longarone, semidistrutta, conta 1.450 morti su poco più di 4.000 dell’intero comune (ma appena 1.700 nel solo centro abitato), il comune di Erto e Casso 158 morti su 750, per citare solo i paesi maggiori e più noti. Qualcuno si è preso la briga di calcolare quanto sarebbe costato il crollo della diga: la stima di 40.000 vittime lungo tutto il corso del Piave fino a San Donà e Jesolo fa rabbrividire. Per fortuna è rimasta solo un’ipotesi senza riscontro, un semplice esercizio teorico.

Ma c’è un’altra cifra, questa reale, che stringe il cuore: i morti fino a 15 anni sono stati un quarto del totale, per l’esattezza 487. Forse un giornalista - non so - ha detto che tre o quattro morti sono una tragedia, 100 morti una statistica. In un certo senso è vero e anche logico, perché quando i morti sono tanti, agli occhi dei lettori o degli spettatori tendono a spersonalizzarsi, cioè a perdere l’identità individuale, l’aspetto che suscita l’emotività. Però… Dieci anni fa, il 9 ottobre 2013, ero a Fortogna per le celebrazioni dei cinquant’anni dal disastro. Fortogna è la frazione di Longarone nella quale è stato realizzato il cimitero che raccoglie i caduti del Vajont. Posso assicurare che essere circondato da tutte quelle tombe bianche, nel silenzio pesante imposto dal rispetto per le vittime, leggere i nomi dei ragazzi e dei bambini, accompagnati da numeri anche a una sola cifra che indicavano l’età di chi era stato fermato brutalmente in un viaggio troppo corto, tutto questo non mi faceva venire in mente nessuna statistica legata ai grandi numeri: lì erano sepolte 1.910 tragedie.

Un disastro annunciato
Possiamo aggiungere un’altra considerazione. Ogni volta che succede un fatto tragico leggiamo sui giornali o sentiamo alla televisione una frase che ricorre costantemente: “poteva essere evitato?”; una frase che così ripetuta viene quasi degradata a luogo comune o a quesito “dovuto” usato dalla magistratura inquirente. A volte la casualità o l’imprevedibilità prevalgono effettivamente sulle responsabilità. Questa volta no. Il disastro era annunciato e non è retorica dirlo.

La gente che abitava sopra l’invaso sapeva che sul monte Toc la terra si muoveva - uno smottamento, pur limitato, si era verificato solo tre anni prima, nel 1960, e lungo il fianco della montagna si era aperta da molto tempo una paleo-frattura minacciosa - e che l’interrogativo non era “se” una frana di grandi dimensioni potesse verificarsi, ma “quando”.

Pensate solo alla enormità della superficie interessata dalla frana, causata dalle infiltrazioni d’acqua per le piogge e dalla risalita dal lago per capillarità dell’umidità. Per molti anni dopo il disastro la roccia dalla quale la frana si era staccata è rimasta abbagliante, come se fosse stata lucidata: Il versante settentrionale del monte Toc era coperto da una estesissima e fittissima pineta, ma i pini hanno radici troppo corte e la pineta è scivolata nel lago come un blocco unico, senza lasciarsi dietro neanche un pugno di terra, per di più ad una velocità terrificante: le rilevazioni parlano di 110 chilometri all’ora, mentre gli “esperti” prevedevano (o speravano) una scivolata lenta (al massimo 30/40 chilometri). Questo ha reso tardivo e molto meno efficace delle attese l’avvio prudenziale dell’opera di svuotamento dell’invaso. Con le conseguenze note.

Per celebrare i sessant’anni dalla tragedia del Vajont, perché la memoria di quello che è successo non svanisca, perché queste opere siano accompagnate da responsabilità più stringenti, il Comune di Paitone proietterà sabato 7 ottobre 2023 alle ore 20.30 nella Sala polivalente della cultura, il film “Vajont”, del regista Renzo Martinelli. Vi aspettiamo numerosi. Cent’anni fa il crollo dimenticato della diga del Gleno.

Per non dimenticare, dicevamo. Sì, perché una tragedia analoga invece è pressoché scomparsa dalla memoria. Chi si ricorda il crollo della diga del Gleno? anzi, chi ne ha mai sentito parlare? Il prossimo primo di dicembre ricorreranno cent’anni da un disastro che ricorda quello del Vajont, avvenuto quarant’anni dopo. La valle del Gleno, discendente dall’omonimo monte, nelle Alpi Orobie, era stata sbarrata da una diga che racchiudeva 6 milioni di metri cubi d’acqua (contro i 170 milioni della diga del Vajont in regime teorico di tutto pieno, 115 al momento del disastro). Ma errori nella progettazione, mancato rispetto dei protocolli di realizzazione, risparmi criminali nel materiale da costruzione (calcina invece di cemento) avevano causato, uniti a forti piogge e ad un aumento della pressione sulla diga, il cedimento improvviso della struttura (che parzialmente è ancora lì da vedere). L’ondata di piena precipitata in val di Scalve (Vilminore) fino in val Camonica (Darfo) si è trascinata dietro 360 morti, ma le cifre certe non si conoscono e le vittime sono ormai troppo lontane nel tempo per suscitare l’emotività che invece accompagna ancora il disastro del Vajont. Sessant’anni dopo.

Franco Tarsi
Consigliere alla cultura di Paitone



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