Cento anni fa il crollo della diga del Gleno
di Franco Tarsi
Un disastro dimenticato e i suoi perché, con testimonianze e filmati. A Paitone, sabato 2 dicembre, una conferenza con la partecipazione del climatologo Massimiliano Fazzini
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1 Dicembre 1923. La Val di Scalve, all’estremo limite orientale delle Alpi Orobie bergamasche, sta per divenire il teatro di uno dei peggiori disastri provocati dall’uomo. La località si chiama Pian del Gleno e si stende a quota 1524 metri.
Il Gleno è il monte dal quale scendono, verso sud, la valle e il torrente omonimi. E’ un bellissimo e imponente ambiente montano, arricchito dal lago artificiale racchiuso da una diga appena costruita, la diga del Gleno, appunto.
Ma la bellezza del paesaggio sta per trasformarsi in un incubo per le migliaia di persone che abitano la valle sottostante.
A Paitone, nella Sala polivalente della cultura, il Comune organizza sabato 2 dicembre 2023 alle ore 20.30 una serata per ricordare e spiegare, a cent’anni dall’evento, con la partecipazione del climatologo prof. Massimiliano Fazzini (Unicam - Sigea), una tragedia a lungo dimenticata.
Sono le 6.30. Il guardiano della diga, Francesco Morzenti, trentacinque anni, di Teveno, una frazione dell’attuale comune di Vilminore di Scalve, riceve dalla sottostante centrale idroelettrica di Molino di Povo una telefonata con la quale gli ordinano di aumentare la portata dell’acqua.
Morzenti apre la saracinesca di scarico, ma avverte un rumore di frana e vede alcuni massi che precipitano dalla montagna. Unico testimone oculare del disastro, Morzenti vede - racconterà poi lui stesso ai carabinieri - che “il terzo pilone della spalla destra della diga si era completamente
squarciato e dalla spalla usciva una enorme massa d’acqua”. Sono le 7.15 dell’1 dicembre 1923.
E’ crollata la parte centrale della diga del Gleno e dall’enorme varco, largo una settantina di metri, si rovesciano nella valle con una violenza inarrestabile circa 6 milioni di metri cubi d’acqua. Pressoché l’intero contenuto del bacino, che le recenti forti piogge di ottobre (il 22 del mese - o il
14 secondo altri - l’invaso si era riempito per la prima volta) avevano portato al limite massimo consentito. La valanga liquida investe in pochi minuti i paesetti che ora fanno parte del comune di Vilminore di Scalve: Bueggio, le centrali di Valbona e Povo (il torrente Povo è il proseguimento del
Gleno), il Santuario di Còlere. Ma non si ferma certo lì. Spazza via il paese di Dezzo, in val di Scalve, e continua la corsa verso Angolo, risparmiata dalla furia dell’acqua, che invece investe il vicino paese di Mazzunno, distruggendo la centrale elettrica e il cimitero. La massa d’acqua, seguendo ora il solco del torrente Dezzo, scende verso Gorzone, fino agli abitati di Darfo e Boario, in Val Camonica, raggiungendo poi il lago d’Iseo in circa 45 minuti di corsa furiosa.
Una tragedia (evitabile) nessun colpevole. Il numero dei morti è tuttora incerto, ma è alto, molto alto. Ufficialmente quelli accertati sono ora 359, ma altre informazioni e altri documenti precedenti, che però non si sa quanto siano attendibili, danno cifre ancor più raccapriccianti: poco dopo il disastro circolavano stime che, contando anche i dispersi, alzavano la cifra a 500 (è il numero dei morti citato nell’atto di accusa),
e una trentina di anni più tardi una guida di montagna la portava addirittura ad 800. E’, questa, la Guida delle Alpi Orobie nella collana dei Monti d’Italia del Touring Club e del Club Alpino italiano, edita nel 1956, che fornisce un altro particolare interessante: l’imponenza e la velocità dell’acqua
fuoriuscita, sintetizzate in 15.000 metri cubi al secondo. Quarant’anni più tardi la tragedia si ripeterà in Val Vajont, a 200 km di distanza.
Ma perché è crollata la diga del Gleno e perché la tragedia è stata coperta da un secolo di oblio ricorrente, pur se all’epoca aveva suscitato, inevitabilmente, un’enorme emozione? Ricordiamo, a questo proposito, che sul luogo del disastro si erano tempestivamente recati, fra gli altri, il re
Vittorio Emanuele III e Gabriele D’Annunzio. Una tragedia che - come si sostiene per quasi tutte le opere artificiali - poteva essere evitata se si fosse evitata la concomitanza di numerose colpevoli irregolarità e si fosse tenuto conto dei segnali naturali.
Voluta dalla ditta privata Viganò (cotonifici) per l’indipendenza energetica dei propri impianti di lavorazione, l’invaso aveva l’autorizzazione ad una capacità massima di 3,9 milioni di metri cubi, ma la capacità era stata portata a fine lavori a 6 milioni di metri cubi. Troppi. Inoltre la tipologia costruttiva era stata modificata, nel 1922, trasformando l’opera in una struttura mista, a gravità (come era previsto in origine) e ad archi multipli, facendo così della diga del Gleno (260 metri di lunghezza, 52 di altezza, bacino di 40 ettari a quota 1548, capienza di 6 milioni di metri cubi) un’opera unica al mondo.
Nel giugno 1922 il Ministero dei lavori pubblici (informato del mutamento dal Genio Civile) aveva emesso un’ingiunzione di sospensione dei lavori e di contestuale presentazione della variante, ma l’ingiunzione era stata disattesa e i lavori erano proseguiti. Altre irregolarità, ancora più pesanti, l’utilizzo di manodopera a cottimo, a scapito della accuratezza dei lavori, e l’uso di calcina invece del cemento: una denuncia anonima in questo senso era pervenuta nel settembre 1920 alla Prefettura di Bergamo. L’uso della calce era previsto, insieme col cemento, nel progetto originale, ma i risultati dei prelievi di materiale ordinati dalla Magistratura non si conoscono.
Fra i segnali allarmanti, le perdite sotto le arcate centrali in seguito alle forti piogge, il 22 ottobre 1923, anche questi inascoltati. Risultato: una diga iniziata nel 1919 crollava dopo quattro anni, a pochi mesi dal completamento dei lavori, portandosi via centinaia di morti in un disastro apocalittico (una tesi difensiva, però contestata, sostiene, perlomeno come concausa, che il giorno del crollo ci sia stata un’esplosione: 50 kg di dinamite, un attentato, forse minatorio o forse anarchico, finito male?). Colpevoli? Nessuno: Il titolare della ditta Viganò, Virgilio Viganò, perché deceduto prima del processo di appello, il progettista, ingegner Giovan Battista Santangelo, assolto per insufficienza di prove (dopo una condanna per entrambi a 3 anni e 4 mesi, ridotti di due anni, in primo grado).
Disastro (volutamente?) dimenticato. Ma perché disastro dimenticato? Non ho trovato nessuna spiegazione accettabile da nessuna
fonte. E allora possiamo azzardare una ipotesi per conto nostro. Il crollo della diga era avvenuto ad appena un anno dall’assunzione del potere da parte di Benito Mussolini, il 31 ottobre 1922, tre giorni dopo la Marcia su Roma. Intendiamoci, il regime fascista non aveva nessuna responsabilità
in un’opera autorizzata e iniziata parecchio tempo prima (primo progetto di sfruttamento idroelettrico del torrente Povo nel 1907, lavori accessori di realizzazione del bacino del Gleno nel 1917, primo sbancamento nel 1919), ma ricordare un disastro simile, targato Italia, non poteva certo far piacere ad un governo che dell’Italia faceva la sua bandiera sotto tutti gli aspetti.
E allora meglio non parlarne più, sperando che tutti se ne dimenticassero. Per cent’anni.
Noi invece ne parleremo, con l’aiuto di filmati e grazie all’intervento del professor Massimiliano Fazzini, sabato 2 dicembre 2023, alle ore 20.30, a Paitone, nella Sala polivalente della cultura. Non mancate.