Per gli Incontri con l'autore, oggi alle 18, nella sala dei Provveditori del Palazzo municipale di Salò, Piero Craveri dialoga con Roberto Chiarini su Alcide De Gasperi, a cui ha dedicato una biografia politica.
Per gli Incontri con l'autore, oggi alle 18, nella sala dei Provveditori del Palazzo municipale di Salò, Piero Craveri, docente di Storia contemporanea all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, dialoga con Roberto Chiarini su Alcide De Gasperi, a cui ha dedicato una biografia politica ricchissima di documentazione inedita.
È un caso che si sia dovuto aspettare ben mezzo secolo prima di disporre di una vera biografia a tutto tondo dell’ormai universalmente considerato più importante e, forse, unico statista dell’Italia repubblicana?
Ed è un caso che a dedicargli un ampio, documentato, equilibrato studio sia ora uno storico non inquadrabile né nell’area culturale del cattolicesimo politico né, tanto meno, degli intellettuali organici della fu Democrazia Cristiana?
Il lungo silenzio o, meglio, la prevalente disattenta considerazione riservata ad Alcide De Gasperi fa ancor più specie se si considera la profluvie di studi dedicati in questi 60 anni alla stagione dell’immediato dopoguerra: fra tutti, di gran lunga il periodo della storia repubblicana più frequentato dagli storici.
L’interrogativo iniziale è ovviamente retorico. La vicenda politica del fondatore della Dc, e suo primo presidente del Consiglio, si identifica con la fase fondativa insieme delle istituzioni democratiche e degli equilibri politici della nostra Repubblica e quindi si caricò al tempo di tutto il peso delle drammatiche tensioni e delle feroci polemiche connesse alla definizione di rapporti politici (tra partiti e forze sociali) destinati a segnare l’intera storia successiva.
La sua figura si è identificata di conseguenza, non solo con le demonizzazioni di chi - la sinistra - ne uscì perdente, ma anche, paradossalmente, di chi - la Dc, il suo partito - ne risultò premiato, ma da quella eroica stagione si trovò per così dire costretto a prendere le distanze perché la sua memoria mal si conciliava con la vicenda successiva, in genere, di quel partito e, più in particolare, della maggior parte dei suoi leader.
Si è dovuta aspettare la fine della guerra fredda e, con essa, della mappa politica uscita dalla seconda guerra mondiale perché si creassero le condizioni di una rivalutazione di De Gasperi da parte dei suoi antichi detrattori (a sinistra) e della rivendicazione (al centro e pure a destra) della sua eredità politica da parte dei suoi - prima - poco zelanti estimatori.
Altra cosa, ovviamente, di una considerazione svincolata dalle ragioni di convenienza che - come è noto - presiedono al giudizio politico. Altra cosa di uno studio attrezzato con le risorse e il metodo critico di cui si arma uno studioso vero.
È quanto ora ci offre Piero Craveri, autore di De Gasperi (Bologna, Il Mulino, pp. 656, 29). Il suo studio si può considerare non solo la prima biografia organica dell’illustre statista trentino, non solo una ricerca poggiante su una base documentaria amplissima, ma - quel che più conta - costruito su una prospettiva che fa giustizia delle polemiche di piccolo cabotaggio e dei veri e propri pregiudizi che sinora hanno per lo più viziato la considerazione della figura dell’inauguratore della stagione del centrismo.
Al centro della ricostruzione dell’opera dello statista, che inevitabilmente diventa un affresco dell’intera storia politica dell’Italia in movimento verso la modernità , sono due questioni, tanto cruciali quanto irriducibili alle convenienze spicciole della politica politicante: da un lato il sorgere, per nulla scontato, di una democrazia di massa, dall’altro il passaggio, non meno incerto, da un’economia ancora in gran parte agricola ad una pienamente industriale.
Per cogliere a pieno l’importanza del personaggio è utile forse rivoltare come un guanto l’approccio solito con cui la storiografia, sulla scia di una pubblicistica militante ha guardato al dopoguerra. Invece di adottare le lenti di chi non vuol vedere altro che (impossibili) rivoluzioni tradite o mancate, o restaurazioni capitalistiche, molto meglio guadare realisticamente alle condizioni in cui l’Italia arriva alla sfida epocale della costruzione di una democrazia e di una società industriale.
Il nostro Paese usciva dalla guerra con lo statuto di nazione vinta e umiliata. Una nazione prostrata materialmente da uno sforzo bellico durato cinque lunghi anni e piagata moralmente da una cruenta guerra civile. Una nazione collassata nelle istituzioni e decapitata nella classe dirigente politica. A questo già pesante carico di handicap l’Italia ne aggiungeva un altro, non meno gravoso, ereditato dal più lontano passato. Diversamente dalle altre democrazie occidentali, non poteva contare su un retroterra, sia politico che economico, confortante. Non aveva alle spalle processi di Nation building e di State building né compiuti né consolidati né, tanto meno, ben riusciti.
Non poteva nemmeno disporre di sperimentazioni della democrazia antecedenti al fascismo - le uniche peraltro - che non fossero ipotecate da pesanti limiti classisti e da ingombranti inclinazioni autoritarie. Non poteva nemmeno dirsi emancipata - anzi, se le ritrovava rilanciate, se non addirittura rinvigorite, dalla recente battaglia antifascista - dalle culture antisistema (in doppio senso, perché ostili alle istituzioni e al contempo all’ordine capitalistico) ereditate dall’età liberale.
Ebbene con questa creta ribelle De Gasperi forgiò le fattezze elementari di una nuova Italia avviandola a diventare una società democratica e industriale. La svincolò dai lacci di un pericoloso rivoluzionarismo (spedendo all’opposizione le sinistre al carro dei sovietici), la agganciò all’Occidente, l’aprì al mercato internazionale, la dotò infine di un quadro politico (il centrismo), certamente fragile nei numeri ma abbastanza solido per assicurare il pieno dispiegamento del miracolo economico.
Documenti alla mano, Craveri sfata inveterati luoghi comuni: il De Gasperi questuante a Washington, clericale, digiuno di economia, sprovvisto di abilità tattiche. I politici della Seconda Repubblica farebbero bene ad adottarne le qualità invece che limitarsi a disputarsene l’icona.
Roberto Chiarini
Da Giornale di Brescia