19 Febbraio 2007, 00.00
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Energia e Acciaio

Parla Pasini, presidente Federacciai

Nucleare e Ceca: tornare al nucleare e nell’attesa ripensare a una nuova Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio costituita a Bruxelles nel 1952 e sciolta nel 2002.

Nucleare e Ceca. Più chiaramente: tornare al nucleare e nell’attesa ripensare a una nuova Ceca, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio costituita a Bruxelles nel 1952 e sciolta nel 2002.

Ma sia l’una che l’altra competono all’Europa, che in quanto realtà sovranazionale ha la forza, le risorse e l’autorità per attuare una politica energetica all’altezza dei problemi. Requisiti che i singoli Paesi della Ue, ad esclusione della Francia, non possiedono: si veda la recente «sconfitta» di Blair ad opera di Greenpeace sul programma nucleare britannico. Le fonti rinnovabili, infine, pur importanti e necessarie non sono risolutive ai fini di una politica energetica che risponda alle esigenze dell’economia.

Sono, in sintesi, le proposte di Giuseppe Pasini, amministratore delegato della Feralpi di Lonato e presidente di Federacciai, l’associazione nazionale delle imprese siderurgiche, in occasione del decennale del Protocollo di Kyoto. L’ambiente e i problemi connessi, in primo luogo l’energia, sono obiettivi prioritari.

Ma l’ecologia è un problema strettamente connesso al Protocollo di Kyoto e alle conseguenti convenzioni internazionali in materia di CO2 (anidride carbonica) e delle relative quote per ogni Paese aderente, e all’interno di questi per ogni settore industriale e singola impresa. È il modo con cui l’Europa intende gestire la questione CO2 a preoccupare Pasini, secondo il quale l’unica soluzione strategica e definitiva - di lungo termine - non può che essere il nucleare. Nell’attesa sono possibili risposte parziali e interlocutorie che tuttavia, se razionali e ponderate, possono contribuire a ridurre notevolmente il problema dell’inquinamento ambientale. Tra queste la «rifondazione» della Ceca.

L’Unione Europea deve ridurre del 20% le emissioni di gas serra entro il 2020: si tratta di un obiettivo realistico? Se lo è, come ci si può arrivare? «Il traguardo stabilito da Bruxelles di una riduzione del 20% di CO2 entro il 2020, calcolata sulla base delle emissioni del 1990, può essere valido purchè si indichi come e quando arrivarci; il fatto è, purtroppo, che la Ue non dà indicazioni su come ridurre le emissioni, lasciando agli Stati membri la facoltà di decidere tempi e modi delle procedure. L’Europa in sostanza preferisce scaricare sugli Stati membri la responsabilità di una decisione che le compete».

È solo l’Europa a parlare di riduzioni di CO2? «Non tutti i Paesi industrializzati lo fanno, si veda Cina, India, i Paesi emergenti e tutti quelli in via di sviluppo che, volendo o dovendo bruciare le tappe della crescita, non vanno troppo per il sottile quando si tratta di tutelare l’ambiente».

Ma l’Europa è un Paese di alta e antica civiltà, proprio per questo deve dare l’esempio. «Anche questo è giusto, ma per dare il buon esempio non basta la buona volontà, occorre avere gli strumenti adatti nonchè i mezzi e le risorse adeguate allo scopo; che senso ha parlare di Europa se l’Europa non c’è, se è la stessa Unione Europea che non vuole contare?».

L’energia rinnovabile non può essere una risposta plausibile? «Plausibile sì, chi non la vorrebbe, ma certo non sufficiente per soddisfare la fame di energia dei grandi Paesi industrializzati. Con tutto il rispetto per i sostenitori delle fonti rinnovabili, va detto che si tratta di una soluzione assai limitata, parziale e relativa, adatta solo a certe produzioni leggere e determinati consumi civili di tipo domestico. La grande industria energivora dei Paesi avanzati, e più ancora quella del Paesi in via di sviluppo che per questo hanno bisogno di acciaio e di industria pesante, necessitano di ben altro per risolvere il deficit energetico».

Pasini insiste sulla «incapacità e indisponibilità europea ad assumere le proprie responsabilità». Ossia di prendere una decisione «all’altezza dei problemi che deve affrontare e risolvere». Il presidente di Federacciai ricorda la Ceca quasi con rimpianto.

«Ti dava gli strumenti per affrontare e risolvere i problemi alla radice. Non voglio fare il nostalgico degli smantellamenti assistiti, che altri settori industriali hanno rinfacciato alla siderurgia come esempio antistorico di protezionismo assistenzialistico, ma è un fatto che la Ceca è stata un esempio tuttora insuperato di politica industriale intelligente e lungimirante».

Ma anche una nuova Ceca, nelle odierne condizioni di competizione senza frontiere tra sistemi industriali non più nazionali ma continentali, non sarebbe risolutiva....
«Sono d’accordo, la soluzione infatti è una sola, il nucleare, unica alternativa realisticamente possibile e praticabile». Un tema ancora tabù, quantomeno in Italia. «Non in Francia, che con le sue 50 centrali nucleari vende energia a mezza Europa».

Quale alternativa, allora, nell’attesa di un remoto, o quantomeno poco probabile, ritorno al nucle- are? «Ripeto: la Ceca. Nella prospettiva di un difficile ritorno al nucleare, che sarebbe comunque un obiettivo di medio-lungo termine, occorre ripristinare o ripensare la Ceca.

Non si dimentichi che se la siderurgia europea è rimasta forte e competitiva lo deve alla Ceca, fatta a suo tempo su misura per tedeschi, francesi e belgi. Oggi questi Paesi non sono più leader della siderurgia del Continente poichè l’Europa si è allargata e il mercato si è globalizzato. E poi perchè, me lo lasci dire, non ci sono più gli uomini di allora. Non chiediamo assistenza nè una Ceca assistenziale, chiediamo politiche energetiche, e quindi politiche industriali, all’altezza dei tempi e a livello della gravità dei problemi».

A. Cheula
Da Giornale di Brescia


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