25 Dicembre 2022, 08.00
Prevalle
Racconto di Natale

Nedàl... l'eredità e l'endüinèl

di Paolo Catterina

Anche per quest'anno Paolo Catterina ci ragala il suo Racconto di Natale e un indovinello finale: «una chicca che ho proposto anche in passato suscitando vere e proprie competizioni…»


È una storia che ricordo da quando la raccontava il mio papà. Non avveniva che raramente, ma più spesso la vigilia di Natale. Ogni volta, ogni vigilia era la stessa, sebbene accompagnata da emozioni e da sensazioni diverse, proprio come l’atmosfera del Natale, puntuale nella cadenza ma con sentimenti che si rincorrono e che rimbalzano.

Quella del papà è una storia di famiglia, o meglio: una scena di vita.

Teneva tutti attenti e col fiato sospeso. E poi, con quei dettagli indugiati e le espressioni che rimbalzavano di continuo tra passato – ‘na òlta sé…– e presente – adès envéce… -, non faticava a raccogliere una platea interessata. Così, già dopo poche insistenze era felice di poter rivivere nel racconto quella scena vissuta.

Tutto cominciava la mattina, al primo spuntar della luce nel grande cascinale della Ràssega, posta in fondo alla discesa che dalle prime case di Borlòch portava in Cantarane.
I bambini - iniziava a raccontare – non erano andati a scuola perché neanche allora si andava a scuola, la Vigilia di Natale.
La mamma Lìsa, sospirando, pensò che avrebbero dovuto rimanere in casa tutto il giorno perché fuori, la neve, rimasta gelata tutta la settimana, si stava sciogliendo sotto una pioggerella che, nessuno, in verità, si aspettava.
 
Il cortile era già tutto un pantano dove nemmeno le povere galline osavano avventurarsi. Così pensò bene di lasciarli a letto ancora per un’oretta e così avrebbe risparmiato loro un pér de scapelòcc che sapeva dispensare senza risparmio.
Ai bambini non pareva vero di potersi godere quell’insolito lusso e ne approfittarono per mettersi a giocare sóta la prepònta de baèla.
Giüsipì de cò e Gioanì de pè si davano calci e si prendevano in giro con le parole dei grandi, sicuri che nessuno li avrebbe sentiti. Le bambine, nella stessa camera, strette strette ‘n de la cucèta si rintuzzavano sotto e spiavano di tanto in tanto battendo i piedi e ridendo per l’allegria di quello strano risveglio natalizio.
 
Ma la mamma, che la ghèra la orècia fìna, urlò dal fondo della scala. L’è la vigilia de Nedàl, berichì, se vègne sö va fò éder  mé…
E i bambini soffocarono le risate contro il materasso scricchiolante e le bambine sorrisero stringendosi in un abbraccio.
Quando si alzarono trovarono, eccezionalmente, la cucina calda e, meraviglia delle meraviglie, il pane abbrustolito accanto alla scodella di latte fumante. La mamma era andata dal Bèrto fornér e si era fatta mettere da parte el pà staladés per fa l’empiöm ma alcuni bufitì trovati quasi interi nella sporta erano stati messi nel forno della stufa a legna e ora, caldi e abbrustoliti, aspettavano di essere bagnati nel latte. Questo per i bambini era il vero segno del Natale!

I maschi, grandicelli, volevano andare a mettere i sèp in mezzo ai melgàs giù verso Prà de Vai  ma la mamma fu inflessibile. Così trovarono il modo di infangarsi fino ai capelli rincorrendosi sotto il portico. Le bambine invece, a turno, senza litigare, cominciarono a gratà el pà cò la gratarola del formài e ogni tanto, quando si grattavano le dita, strillavano succhiandosi subito le scalfiture.
Rideva divertito in quella strana atmosfera anche il piccolo Serafì, l’ultimo nato, che saltava nella anderina.
Ma quel Natale era straordinario per un’altra situazione che si intrecciava a questa scena famigliare. Il papà Luigi e il nonno Batìsta si erano svegliati presto presto e, tròcoi ai piedi, erano andati a Rezzato per un appuntamento di quelli che venivano immortalati nella storia di una famiglia.

Quella vigilia di Natale che rompeva la normalità in ogni senso, nel ricco studio del notaio Aquilini a Rezzato si sarebbe aperto un testamento che aveva a che fare con la zia Carolina, moglie del fratello del nonno Batìsta, il prozio Domenico.
La zia Carolina era una donna bellissima che apparteneva ad una famiglia di possidenti straricchi. Da giovane era famosa in città per essere una delle “Tre bellezze di Torlonga”, una giovane affascinante, elegante, ricca… pensate voi.
Lo zio Mènech (Domenico), invece, che era un giovanotto bello e ardimentoso, tanto affascinante da far colpo su quella ragazza sempre elegante e dal portamento raffinato, era quel che si diceva un discusìt, malvisto dalla ricca famiglia di lei.

Quanti piò possedessero quei ricchi borghesi non lo sapevano neanche loro ma, oltre a quelli, facevano girare tre mulini e una sega da legna, e infine avevano acquisito due grossi cascinali a cavallo di Lonato e Castenedolo. Lo zio Domenico, maritandosi con la giovane ereditiera, fece di quel patrimonio un uso che più cattivo non si sarebbe potuto immaginare. Con quel suo vizio di andare a caccia e di disinteressarsi di ogni altra cosa riuscì quasi a far andare in rovina una famiglia ricca di un patrimonio solido ed enorme.
Capitò così una mattina, per esempio, che andasse a fuoco un mulino dei loro nei pressi della Macina, vicino a Castenedolo, e lui, raggiunto da trafelati contadini giù al suo capanno da appostamento, non appena seppe la notizia li rimandò al lavoro senza troppa preoccupazione. “Se i mulini brusano ne rifarem dei altri” e seguitò a sparare ai tordi che quella mattina erano in una passata portentosa.
Ma di molini non ne costruirono più.
Anzi, lui e la moglie si ridussero ben presto al rango di lavoranti presso altri possidenti e la ricca famiglia di lei li allontanò senza nessuna misericordia.

Ora però anche l’ultimo di quella ricca famiglia della moglie del prozio Domenico era morto…senza lasciare eredi.
Era chiaro che il papà Luigi e il nonno Batìsta si aspettavano che da quel testamento loro fossero, se non i beneficiari principali, almeno tra gli assegnatari di qualcosa di sostanzioso, così che la loro vita sarebbe cambiata.

Erano partiti presto, imbacuccati nei mantelli, con i calzettoni e gli sgàlber. Avevano attraversato Mosina e Quadega ancora col buio e avevano raggiunto la strada Regia a Nuvolento; alla Scaiola, poi, avevano fatto tappa per la colazione con on bèl quartì, quindi erano entrati nel palazzo dove erano rimasti qualche minuto a rimirare la targa che indicava lo studio notarile. Non avevano mai avuto a che fare con notai né con avvocati; nemmeno dal Sindaco si erano mai recati. Nonostante ne avessero viste tante nella loro vita, il cuore batteva forte per il timore di quello studio tutto foderato di legno e di un lusso sconosciuto e nemmeno immaginato.

A casa, dunque, quella vigilia, benché ai bambini apparisse eccitante per l’atmosfera di vacanza e per quella del Natale, nell’aria si sentiva qualcosa di grosso tra tutti i grandi della famiglia. A loro quelle parole appena sussurrate e smorzate al loro apparire: “el testamét”, “la redetà” suonavano oscure e poco attraenti ma capivano che la cosa sapeva di molto, molto importante e, all’apparenza, di buon auspicio.

I fratelli grandi, piuttosto nervosi, entrarono proprio nel momento in cui la mamma rovesciava la polenta nel tagliere. Tagliò col filo una fetta per ognuno dei figli che si erano precipitati intorno al stagnàt  per contendersi le gröste brune e fragranti. Polenta e strachì per tutti, poiché era la vigilia e quindi era di magro.

Nel pomeriggio riprese la pioggerella. Le bambine si misero accanto alla finestra co la scarpèta ‘n mà. I bambini furono incaricati di s’cepà i sòc e di rifornire di legna la panca vicino al fuoco.
Il breve pomeriggio passò veloce. La mamma e i fratelli grandi furono presi da un’ansia palpabile e anche i piccoli non osavano rincorrersi o prendersi a sgombetàde intorno al fuoco.

Quando poi, nel buio del tardo pomeriggio, papà Luigi e il nonno Batìsta spalancarono la porta fu come la schioppettata del lampo seguito dal tuono. La mamma si precipitò, così anche i fratelli e vi fu grande confusione, eccitazione e mormorii ma solo i grandi capirono quello che succedeva.

L’eredità era stata negata… Solo qualche misero soldo, bastevole forse per pochi debiti.
Ogni illusione ed ogni speranza… impietosamente cancellate.
Non era questione di ricorsi, opposizioni o contestazioni. Quella non era una casa avvezza a cause né all’opera di “aocàcc”.

Il nonno pareva piegato in due e le rughe sulla fronte si erano fatte solchi. A papà Luigi sembrava quasi stesse per scendere qualche lacrima ma la vista di quei bambini eccitati e il Natale nell’aria spensero la disperazione in gola. La mamma Lisa soffocò i singhiozzi e fece entrare i due uomini fradici.

La cena fu stranamente silenziosa anche per i bambini che colsero la serietà inspiegabile quanto i fratelli grandi, delusi e scuri in viso.
Ma la magia di quella serata non poteva spegnersi così.

Il nonno buttò un bel sòc sul fuoco e gli uomini si mossero lenti mettendosi vicino e alternandosi ai bambini per evitare che si dessero pessàde e sgombetàde. Il papà si accese la pipa e propose un indovinello: se ta ‘nduinet cosa gò ‘n del caagnì t’an dò òna gràta. I bambini scoppiarono in una risata e la mamma, ormai rasserenata, ancora indaffarata gridò: l’è ècia Màntoa.
Fu poi la volta di Nìno, il più vecchio dei fratelli che aveva da poco finito il militare e si sentiva per questo orgogliosamente più intelligente degli altri. Propose un indovinello che aveva sentito altrove: Dùdes vàche e dùdes tòr, quàte gambe gài? E via tutti a fare i conti. Dunque, 12 per 4 fa 48, più 12 per 4 ancora 48, allora, sono 96. I più svelti di mente furono sicuri ma… nò. Non era la risposta. Ma come? Eh già, dùdes vàche (48 gambe) ma dù de Stòr (due uomini di Storo) fanno 4 gambe, quindi la risposta era 52 gambe. Per tutti adesso era ovvio, i “pòta, ma mé cridìe…” si sprecavano nell’ilarità generale.

Infine il nonno dopo un breve momento di silenzio sentenziò: Endüinì chèsta: Tè tirì tè tiràt, tè nigrì stà tacàt, tè russì bàzega ‘l cül”.
Silenzio divertito di tutti gli adulti e silenzio perplesso dei piccoli… Il nonno ripetè l’indovinello ma, siccome nessuno sapeva rispondere, afferrò con calma studiata la mòia, diede un colpetto al grosso ceppo sul fuoco ardente e ne fece scaturire uno sciame di strése che si persero luminose e danzanti su per la cappa nera.

I bambini cercavano la soluzione dell’indovinello con risposte fantasiose e inadeguate. Tentarono di impietosire il nonno gridando all’unisono: Cedòm, cedòm, nòno, disìm chèl che l’è.
Ma il nonno, senza soddisfare la loro curiosità, trasse dalla tasca la corona del rosario.
“Stasséra nàss el Signùr”. Poi fece una lunga pausa e socchiuse gli occhi, infine proseguì: “Gòm de rengras-cià per tött chèl che gòm”. Tutti abbassarono la testa e si accinsero a seguire la preghiera del nonno.

I bambini, nonostante tutto, non dettero segni di impazienza. Loro sapevano che dopo el rozàre la mamma Lisa si sarebbe seduta accanto a loro e avrebbe cominciato a raccontare una storia e quella volta sarebbe stata la bellissima storia di Maria e di Giuseppe che a Betlemme non riuscivano a trovare un alloggio.

Intanto il babbo, i fratelli e il nonno sarebbero andati alla messa della Mezzanotte.
Al loro ritorno tutti i piccoli erano a letto, la mamma lavorava agli ultimi preparativi (i teadèi) per il pranzo del Natale e il nonno con la sua andatura lenta scese in canèa risalendo con la bottiglia del vino buono, quello marsalato.
Papà Luigi, ormai a tu per tu col nonno, gli chiese quale fosse la risposta a quell’indovinello che nemmeno lui aveva mai sentito ma il nonno scrollò le spalle e stappò la bottiglia.

L’eredità non aveva arriso e non aveva cambiato la loro vita come si erano aspettati ma… cosa importava? Potevano opporsi alla loro condizione? E poi, aver mancato a quel denaro piovuto dal cielo senza guadagno era proprio una disgrazia?
Meglio era parlare dei progetti per le settimane che sarebbero arrivate col nuovo anno.

Forse dal prossimo San Martino avrebbero dovuto lasciare la cascina perché più di una volta avevano udito il padrone lamentarsi della poca resa.  Era meglio sentire se in giro c’era qualcosa per loro. E poi nei primi giorni di gennaio dovevano roncare la rìa dèla Svegràda così come entro pochi giorni avrebbero dovuto per forza enlödamà la pràda del Punciù.

Chissà se sarebbe stata un’annata buona, quella che sarebbe venuta. I pochi soldi dell’eredità non servivano che a tamponare pochi creditori, e avrebbero dovuto fare altri debiti… Sa edarà, èl Signùr el vàrda sèmper zò, disse il nonno.
Il vino liquoroso fece brindare papà e nonno con un sorriso: “anche se la vita è dura, il corpo non deve soffrire”, e giù d’un fiato quel bicchiere che riscaldava le membra e il cuore.

Poi salirono lenti le scale che portavano alle camere da dove si sentiva la mamma che, con la dolce pazienza di ogni mamma, raccontava con voce soave la storia delle meraviglie di quella notte.
Non era la conclusione di giornata che avevano atteso come e più dell’Avvento nell’illusione di un facile guadagno ma si sarebbero addormentati nella speranza serena del Natale.

Il Natale semplice e senza pretese, che anche di fronte alla delusione grandiosa, epocale, passò alla storia per un Natale di serenità e… per quell’indovinello irrisolto, sì da essere tramandato per generazioni.
Nessuno accostò mai quel Natale alla parola delusione, quella notte il Bambino era nato, e quella serenità famigliare non poteva conoscere invidia, forse nemmeno per il ricco Natale di oggi.


In foto: Ezio e Alba Catterina con le cugine 1926-27. Della fotografia raccontava sempre che aveva le gambe incrociate in quel modo poco naturale perché il fotografo indugiava e lui non riusciva più a trattenere la pipì.


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