25 Dicembre 2018, 07.00
Prevalle
Racconto di Natale

La Grande Guerra della Nonna Angelina... e della zia Lisa

di Paolo Catterina

È dedicato a ricordare l’anniversario della Grande Guerra, con una piccola storia familiare assai particolare ma del tutto autentica, il racconto di Natale che ci offre quest’anno Paolo Catterina


“Nóna, nóna… dài cönta chèla de che la ólta a Lainù….” Sembra ieri che il mio fratello maggiore si rivolgeva alla nonna occhieggiando dalla porta della cucina e lei, cambiando cera di scatto, andava su tutte le furie: “Per la madói…  te la dó mé… sènsa créanse… ciàpe la stròpa…”.
La nonna Angelina era bassa di statura, più piccola del re le dicevano, ma robusta e indomita. Il nonno Luigi, invece, era un uomo bonario e paziente, alto, prestante, sapeva bene che le bràghe, in casa Bosio, le indossava lei, la Angelina. Come del resto sapeva che tutti in casa la chiamavano, attenti a non farsi sentire, “el bersagliér”.

Luigi e Angelina erano cugini diritti, entrambi orfani si erano sposati, con tanto di dispensa del vescovo, il 17 maggio del 1907; diciannove anni lui e diciotto lei. Non potevano sopportare oltre di vivere, mal sopportati e peggio trattati, in casa di zii che non aspettavano altro che di liberarsene.

Non venivano da una famiglia povera, tutt’altro, i Bosio erano discreti possidenti a Goglione. Il capostipite, Giacomo, era scappato di casa, dalle parti di Costalunga, tra Brescia e Bovezzo, quando da poco aveva compiuto i 10 anni. Arrivato di corsa a Brescia si era nascosto sotto l’assile di un carro. Era il carro dei Chiodi, una famiglia che da generazioni si divideva tra i campi e l’attività di carrettieri. Giunto a destinazione saltò fuori da sotto il cassone e per anni non volle dire a nessuno da dove arrivasse. Un buon famiglio, robusto e volonteroso, al solo costo di qualche pagnotta faceva sempre comodo in casa di contadini. Restò lì senza più cambiare paese.

Crescendo aveva trovato la sua strada; ragazzo sveglio e intraprendente si era scoperta una dote incredibile. Stimava le “rive” di platani o di gelsi che dovevano essere tagliate per farne legna e le comprava “a bòt” battendo la mano al proprietario dopo che entrambi se le erano sputate. La comprava come se ne potesse ricavare, per esempio, cinquanta quintali di legna ma il più delle volte ne ricavava ben oltre i cento.

Finì, Giacomo Bosio birbante fuggito da casa meno che adolescente, che al termine della sua lunga vita lasciò ai sette figli una casa ciascuno e 70 piò di terra da dividersi.

Aveva avuto tre mogli, Giacomo, le prime due lo avevano lasciato vedovo ma la terza, Rosa, che veniva da Nuvolera diceva che – come racconteranno sorridendo molti pronipoti… - “la ga fàa mìa bèl” senza spiegare bene cosa intendesse con quel “non gli faceva bello…”. Sappiamo solo che nella lingua popolare si diceva delle coniglie che “facevano bello” quando, messe nella gabbia del maschio, in breve figliavano a iosa…

Pare poi che questa terza moglie avesse il vizio di scendere troppo spesso in cantina a spillare dalla botte… fatto sta che una mattina Giacomo Bosio attaccò la cavalla al birroccio e riportò indietro la giovane moglie a casa sua, a Nuvolera, senza tante manfrine.

Luigi e Angelina erano nipoti di Giacomo. Angelina era figlia di Paola, una giovane donna bella e buona che, come talvolta accade, si era innamorata di Serafino, un mascalzone. Un vero malandrino, ubriacone, attaccabrighe e quanto di peggio si poteva trovare in giro. Serafino veniva da Serle e sin da giovane aveva messo insieme una lista ragguardevole di precedenti con la giustizia. La povera Paola, figlia del fortunato Giacomo, morì che la piccola Angelina aveva meno di tre anni.

Serafino Scalvini, forse per sfuggire alla responsabilità di allevare la figlia o forse perché sollecitato dalle autorità di giustizia (allora usava fare così… con i soggetti indesiderati) ebbe in poco tempo l’autorizzazione ad emigrare in Argentina e partì lasciando la piccola alla sorella della mamma, Rosa Bosio.

La Rosina era simile alla mamma di Angelina solo nella bellezza e nella dolcezza. Aveva un carattere fortissimo e indipendente… chissà cosa avrà detto sulla faccia al pessimo padre Serafino. Si tenne la piccola che coccolava e alla quale riversava tutto l’amore materno che non poteva dare ad altri. Era una donna indipendente, la Rosina, forse anche troppo per i suoi tempi.

Aveva aperto un’osteria a Celle, nella contrada di Goglione vicino al Naviglio, ma un’osteria un po’ particolare. Oltre al vino buono, alla trippa e a qualche ballata a suon di musica (cosa già di per sé oltre i limiti della rigida decenza di allora) nell’osteria della Rosina si dispensava… amore. Sì, abbiamo capito, ogni tanto, non tutte le sere, qualcuno dallo stanzone dell’osteria poteva salire la scala di legno in cerca di qualche effimero piacere ad alleviare la dura vita nel paese di campagna.

Oh, la bella e buona Rosina aveva un carattere non sempre mellifluo… Quando le autorità locali le avevano intimato che lei non poteva più avere la licenza di osteria per le troppe irregolarità e per la “situazione indecente” che si era creata, lei aveva preso carta e penna ed aveva risposto per le rime “andate pure da chi volete per farmi chiudere. Anch’io, per parte mia, andrò da chi dico io e la vedremo…”. Una donna tutta d’un pezzo.

Ma con la piccola Angelina era tutto un altro film, era la creatura che avrebbe voluto avere per passare sopra a quell’esistenza non troppo allineata. Raccontava, la nonna Angelina, che adorava addormentarsi nel letto con la zia. Sì, la bella ostéra si portava nel letto la piccola (quando non c’era nessun altro…) e la viziava in ogni modo.

Qualcuno ebbe poi l’ardire di scrivere a Serafino informandolo del ménage in cui era coinvolta la figlia. L’uomo, in Argentina, aveva intrapreso una carriera lavorando in un ranch e allevando cavalli. Alternava periodi di lavoro sfrenato e guadagnava un sacco di soldi a periodi dove in pochi giorni scialacquava tutto in alcool e donne. Serafino riprese il bastimento e tornò a Goglione con un solo scopo: riprendere la figlia e sottrarla alla zia Paola per darla in affido ad altri parenti. I quali parenti la accolsero con un gelido benvenuto “compórtet pulitto s-cèta, perché se nò le sarà piö tante le pesàde en del cül che le fète de polenta” (Comportati bene ragazza perché altrimenti saranno di più i calci nel culo che le fette di polenta).

Quella fu l’unica volta che Serafino ritornò in Italia dall’Argentina, l’unica volta che Angelina vide il padre. Il quale, accompagnandola dai “cordiali” zii, la colse a specchiarsi con un pezzo di vetro raccolto sulla strada e le mollò un calcio che la fece cadere lunga e distesa… “le pütìne le stà mìa bé a speciàs”. Non lo rivide mai più.

In tempi recenti, quando la nonna era avanti negli anni, il mio solito fratello maggiore si divertiva ogni tanto ad irretirla entrando all’improvviso portando una busta… “Nóna, nóna.. ghè riàt ona lèttera da l’Argentina…. l’è firmada Sceriffo Serafino chèl cola pistola nel taschino”… e la nonna si adirava sbracciando con la forza di un boscaiolo “mal madür… te la dó mé….”
Capite bene che il carattere della nonna Angelina si era forgiato di una tempra speciale. Con il cugino Luigi, buono, timido e gentile l’amore e il matrimonio erano stati un dono divino che avrebbero onorato mettendo al mondo 13 figli (altri tre li avrebbe tenuti a balia… che donna la Angelina!).

Verso la fine degli anni ’30, i Bosio aspettavano con ansia l’esenzione dalla “tassa di famiglia” che il regime aveva assicurato alle famiglie numerose. Inspiegabilmente, tuttavia, i mediocri gerarchi del paese tiravano a balle il timido Luigi che si recava di continuo a chiedere l’applicazione del diritto a non pagare quella che era la tassa principale. Con tutte quelle bocche da sfamare i coniugi faticavano a mettere insieme il pranzo con la cena. La nonna si spazientì.

Una mattina mise in fila tutta la famiglia, i piccoli in divisa da Balilla, le figlie agghindate da Avanguardiste e Piccole Fasciste, quelle più grandi vestite da Massaie Rurale, un figlio grande con la camicia nera e l’altro con la divisa coloniale da Volontario della Guerra d’Etiopia. Dispose un ritratto del Duce ai piedi della squadra con a fianco il segretario provinciale del partito, Augusto Turati. Alle spalle il tricolore sabaudo, il braccio destro di tutti i figli ben levato secondo il saluto d’ordinanza. Ecco fatto, una bella fotografia che ancora oggi si conserva in famiglia.

Prese penna e calamaio e scrisse a Benito Mussolini in persona allegando il ritratto famigliare.

La settimana successiva il segretario locale del partito (che era fratello di Luigi) picchiò alla porta di buon’ora chiamando a gran voce. Aprendo la porta Angelina sentì il cognato, rosso in viso, investirla chiedendo spiegazioni: “Che ghét fàt Angilìna? Ghét escrìt a vergü? Che ghét fàt?”

La nonna, impassibile, rispose senza tentennare: “Go fàt neènt… mé. Pròpe chèl che ghìf fat Vò per tancc àgn!”. E l’ossequioso “Voi” fascistissimo che accompagnava la replica: “non ho fatto niente io… esattamente quello che avete fatto Voi per tanti anni” lasciò il cognato-gerarca interdetto e rabbioso.

Ma da quel giorno i Bosio non pagarono più la tassa di famiglia. E la nonna Angelina stimò Benito Mussolini come un benefattore, senza se e senza ma.

In famiglia, poi, circolava un altro episodio in cui era apparsa chiara l’indole della nonna. Nei primi mesi del ’42 la famiglia aveva i tre figli maggiorenni sotto le armi, in guerra. A casa nonno Luigi aveva altre 9 bocche da sfamare e tra queste vi erano due figlie che erano in età da lavoro ma che non riuscivano a trovare nessun posto. Il periodo di guerra pesava oltre modo e la miseria accompagnava l’angoscia per i figli lontani.

Tutte le mattine le due giovinette uscivano a fare il giro delle due fabbriche che impiegavano manovalanza femminile, il cotonificio e il lanificio a Villanuova e Gavardo. Tornavano ogni giorno sempre più sconsolate. Se il nonno Luigi chiamava pazienza e soffriva in silenzio, lei, la Angelina, quando ne ebbe colma la misura, prese il tram e andò a Brescia.

Fece anticamera dal Federale di Brescia, la massima autorità politica provinciale. Per nulla intimorita dall’ambiente militaresco e militarizzato si fece ricevere chiedendo ancora una volta giustizia per la sua famiglia. “Ma come”, disse, “io ho tre figli a combattere per la Patria, gli unici che possono lavorare la terra per sfamare anche gli altri nove, e la Patria non riesce a trovare un posto di lavoro per le mie due figlie?”

Con il suo metro e cinquanta in punta di piedi, Angelina, quando si trattava dei figli, pareva alta due metri, non avrebbe esitato nemmeno a rovesciare la pesante scrivania dell’alto gerarca.
Il quale, invece, prese a cuore la situazione della famiglia e diede disposizione ad un funzionario di cercare due posti presso gli stabilimenti tessili della zona.

Passò del tempo e Angelina fu richiamata nell’ufficio dove il funzionario, sconsolato, spiegava al Federale che i direttori delle fabbriche non avevano disponibilità di posti e che non c’erano alternative.

Quello che successe l’ho sentito raccontare decine di volte: la nonna vide il Federale farsi paonazzo, con le vene gonfie al collo, alzò con rabbia il telefono e si fece passare il direttore del lanificio di Bostone. Si perse i pochi convenevoli iniziali ma ricordava bene parola per parola il dialogo che seguì con l’uomo a battere i pugni sulla scrivania sbraitando con voce stentorea “Per la Madonna! Sono il Federale di Brescia e quando chiedo qualcosa esigo che si risponda con un signorsì. Per ordine del Federale trovi due posti all’istante!”.

Il giorno dopo le figlie, Bruna e Maria, si incamminavano, di buon’ora, la prima verso il Cotonificio di Villanuova e la seconda verso il Lanificio di Bostone a Gavardo. Oltre al lavoro, entrambe avrebbero trovato, in seguito, anche il marito sposandosi in quei due paesi.

 “Nóna, nóna… dài cönta chèla dè la nòt a Lainù…. Dopo aver divagato risento la voce del fratello che richiama il ricordo di quella sera a Lavenone.

Era febbraio del 1917. La Guerra, quella Grande, infuriava ed era ancora lontana dal suo epilogo. Goglione, povero paese di poveri, appena dietro le retrovie veniva descritto in una lettera di un ufficiale bolognese che vi soggiornava con il 6° Reggimento Artiglieria, “un paese funereo”. L’unico via vai era di mezzi militari, per il resto solo donne e bambini con i volti tristi e tirati.

I giovani e gli uomini erano tutti al fronte. La campagna languiva e pochi riuscivano a cavarne i frutti come prima con le sole braccia delle donne e dei vecchi.

Anche il nonno Luigi era partito per il fronte. Non era lontanissimo, lui a ventinove anni aveva a casa la moglie e cinque figli. Si trovava nei pressi di Ponte Caffaro, in un presidio a distanza dalla prima linea. Era partito nel ’15 e non aveva nemmeno fatto in tempo a vedere la sua ultima figlia, nata quando lui era già via.

Angelina con i cinque figli, il maggiore di 7 anni, tirava avanti solo con il coraggio, la speranza e con la fede che non le è mai mancata.
Una mattina un soldato di Nuvolento era passato ad avvisarla che per il tal giorno Luigi sarebbe smontato dal servizio e poteva avere una manciata di ore di libertà.

La nonna non aveva esitato un istante. Accomodati i figli dai parenti era partita, a piedi.

Il luogo dell’appuntamento era Lavenone, comodo per entrambi. Era corsa con quelle quattro cose che poteva portare al suo Luigi, con la concitazione dei sentimenti che la scombussolavano tutta. Avrebbe scavalcato i fossi tirandosi su il vestito, avrebbe scalato “el mont Cùen” per rivedere il marito, per riabbracciarlo e per poter dire ai figli che il padre era ancora in buona salute e sarebbe tornato ad alleviare la loro dura vita.

Angelina e Luigi si incontrarono nel tardo pomeriggio del 17 febbraio 1917 a Lavenone.
La richiesta impertinente di mio fratello mirava a conoscere i dettagli, sentire la cronaca istante per istante.

Angelina e Luigi si abbracciarono e piansero di felicità, io ne sono sicuro. Quel soldato alto, aitante, pianse come un bambino stringendo la piccola e forte Angelina.
Non sappiamo altro. Anzi no.

Il 17 novembre 1917, esattamente nove mesi dopo, nacque Elisa Bosio, sestogenita di Luigi e Angelina. Frutto di quell’incontro in un fienile di Lavenone.

La Grande Guerra, quella guerra cattiva e cruda con generazioni di giovani macellati in tutta Europa, ha dato la luce alla mia zia Lisa. Una donna dolce e buona come il pane, non si è sposata ma ha allevato decine di nipoti come e più di una mamma.

Il fratello impertinente mi ha sempre raccontato che quella notte nel cielo di Lavenone, da un fienile il cielo scintillava scosso da fantastici fuochi d’artificio… e non erano i lugubri lampi dei traccianti prima dei bombardamenti.


In foto:
. Luigi Bosio e Angelina Scalvini il giorno delle nozze 1907
. La zia Lisa
. Luigi Bosio nel 1915 in divisa militare prima di partire per la Guerra


Commenti:
ID78911 - 25/12/2018 21:07:35 - (sissy) - meraviglioso

Racconto che ti prende la mente e ti fa venir voglia di aver vissuto in quegli anni nonostante la povertà e la fatica di tirare insieme il pranzo con la cena. Mi ricorda i racconti di mia madre e mia nonna dove, oltre la tribolazione della vita, ci si trovava la sera nella stalla con le altre famiglie della contrada a raccontare aneddoti e storie magiche. Avrei voluto che questo "racconto" di vita non finisse mai

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