25 Dicembre 2023, 08.00
Prevalle
Racconto di Natale

La Santella del Latte e della Peste

di Paolo Catterina

La santella di Celle che si scorge lungo la Gavardina a Prevalle nasconde una storia che un’approfondita ricerca storica di Paolo Catterina ci riporta alla luce


Chi percorre la nota ciclopedonale “Gavardina” entrando in territorio di Prevalle provenendo da Nuvolento si imbatte in una Santella che risulta sghemba rispetto alla strada e anche rispetto al Ponte sul Naviglio che le è prospiciente. E’ una propaggine della contrada di Celle che scavalca il corso del Naviglio, sempre rapido e limpido in quel tratto.

Celle. Un nome che riporta non già, come si potrebbe pensare, alle “Celle” monastiche dei benedettini serlesi che comunque furono i primi abitatori del luogo, ma allo stesso termine latino “cella” che in epoca medievale indicava i “depositi alimentari, i magazzini dei prodotti agricoli”. Quelli costruiti proprio dai monaci scesi fin qui da Serle lasciandone indelebili segni nei loggiati e nelle cantine di molte abitazioni del borgo.

La Santella mostra il suo volto più prezioso tramite un affresco che sapora di vetusto ancorché ben restaurata. Restaurata lo era stata sin dagli anni ’80 e con inconsueta competenza. Tuttavia nei primi anni 2000 l’antico oratorio aveva subito due gravi sfregi: una prima volta qualche brigante di buon gusto e scarsa moralità aveva asportato l’antica acquasantiera esterna, scolpita bellamente in pietra di medolo. Il sacro e innocente senciaröl che si mostrava gentilmente a chi arrivava alla Santella aveva lasciato posto ad uno sgradevole scasso nella parete. Era stato scalzato con “punta e mazzetta” nottetempo suscitando scandalo e amarezza nei devoti abitanti di Celle che prontamente ne avevano procurato un altro.

Una seconda volta un camion in manovra aveva letteralmente demolito la santella lasciandone solo i piedi delle pareti perimetrali e un cumulo di calcinacci. L’assicurazione e il concorso di Comune e Parrocchia avevano provveduto a farla risorgere con ossequiosa osservanza dello stato originario attraverso un restauro di qualità.

E’ un luogo che ancora oggi invita i numerosi ciclo-pedoni a soffermarsi per sbirciare l’interno e magari godere un istante di ombra sotto il piccolo tetto, seduti sui muriccioli laterali che invitano alla sacra cappelletta. Lo sguardo può indugiare sulla figura della Madonna in atto di allattare con il seno scoperto circondata dai Santi Vescovi Zenone e Carlo e poi ancora da un San Rocco con il cagnolino a lambire le gambe martoriate dalle piaghe.

Un’iconografia di grande interesse senza dubbio e, a prima vista, semplice da sciogliere. Il tema è quello della "Madonna del latte" e conobbe grande fortuna nella pittura a partire dalla metà del XIV secolo: lo attestano numerose immagini devote affrescate che propongono la figura della Vergine assisa maestosamente in trono nell’atto di porgere il seno al Bambino che si stringe a Lei con moto di intimo affetto.

Meno conosciuta ma più vicina all’immagine della Santella di Celle è la cosiddetta “Galactotrofusa” che indica “Colei che allatta o nutre” e da cui derivano diffusissime raffigurazioni delle “Maria Lactans”, Madonna del Latte, Madonna Allattante o Madonna dell’umiltà, temi che ispirano una fede fatta di dolce affetto materno.

E’ questo il tratto di devozione che la gente di Celle ha tramandato con piglio orgoglioso nella tradizionale pratica di accompagnare presso la Santella le puerpere e le madri in procinto di allattare. Per chiedere e per propiziare la protezione mariana in quei momenti di grazia straordinaria. O ancora, a chiedere aiuto per le giovani donne che non riuscivano ad avere figli.

Il contorno dei Santi si ispira alla Parrocchia Matrice. In primo luogo con San Zenone, patrono di Goglione di Sotto, e poi San Carlo, grande innovatore e rinnovatore passato per tutte le chiese del Bresciano e della Lombardia. Qui a Celle fu scelto come patrono ed il titolo della chiesetta è tuttora a suo nome… non senza patemi, si vedrà…

Da ultimo il pietoso San Rocco, protettore dei lebbrosi e invocato contro le pestilenze. Con le mille epidemie che i territori hanno vissuto non è mai male richiamare il Santo accompagnato dal fedele cagnolino in un luogo sacro che si offra alla preghiera e presti protezione. Eppure è stata proprio la presenza di San Rocco a suggerirmi che dietro questo coro di Santi potesse celarsi una qualche storia degna di essere indagata.

Nasce da qui una lunga ricerca tra documenti e fonti ignorate che ha messo insieme anche un altro curioso “mistero” custodito nella piccola chiesa di San Carlo di Celle.

Chi ha buon occhio e osserva la pala dell’Altare Maggiore può notare che ai piedi della Vergine Maria, poggiato su un ripiano direttamente sulla traiettoria degli sguardi del Bambin Gesù e di Sant’Antonio appare un incredibile piccolo monte con una chiesetta sulla sommità.
Sembra il plastico confezionato da un moderno progettista per compiacere il committente.
Invece si trova incredibilmente al centro di una tela dei primi anni del ‘600.
Cosa rappresenta il piccolo monte con la chiesetta in questa celebrazione di San Carlo adorante la Beata Vergine col Bambino sotto lo sguardo di un Sant’Antonio in estasi?
E’ un nuovo mistero o un indizio… così, con pazienza, ho iniziato l’indagine partendo dai primordi.

La Chiesa incastonata tra le case di Celle, inclito orgoglio degli abitanti, era in origine dedicata a San Pietro e, al pari di tutto il borgo, fu eretta dai Monaci Benedettini di Serle provenienti dal monastero di San Pietro in Monte Ursino sul cocuzzolo di Serle. Ovvio, i benedettini con le loro grange o “Celle” e i loro fertili terreni di qua e di là dal Naviglio, avevano voluto onorare il loro Santo patrono quando si venne a costruire un luogo di culto per gli aumentati abitanti.

Venne poi il Convisitatore di San Carlo Borromeo, nel 1585, e passò da Goglione portando una ventata di rinnovamento nella fede e nella pratica religiosa.

Sbacchettando preti cialtroni, ripulendo chiese e sacrestie da segni profani, intimando di riportare ordine e pulizia nei luoghi sacri così come nelle genti, per il malmesso oratorio di San Pietro nella lontana (dal centro del paese) “contrada delle Selle”, ordinò senza ammettere discussioni, che fosse rinnovato e “rimesso a bello”.

Non fu questione di discutere né di obiettare. Il problema è che in quel finir del secolo, il XVI, a Celle vi erano tre grandi nuclei familiari. Anticamente erano censiti come “fochi” e col tempo, che pure cambiava le cose con ritmo implacabilmente lento, aveva plasmato la contrada in tre grandi blocchi di abitazioni che si erano arroccate e rimescolate in cortili, fienili e loggiati.

Tre erano le famiglie che abitavano e che formavano Celle: gli Horandi, i Lafranchi e i Cargnoni. Tutte tre discendevano dai lavoranti dei monaci serlesi giunti qui in tempi immemori ma gli ultimi, i Cargnoni, detenevano allora un certo predominio avendo assommato nel tempo l’assegnazione dei fondi migliori, quelli più redditizi e quelli coltivati a vite e frutti.

I Cargnoni vivevano nel “blocco” che dalle Gerole giungeva fino giù al Ponte del Naviglio, separati dalla strada in discesa dagli altri due blocchi che arrivavano fino alla Chiesa, quello degli Horandi, e la oltrepassavano fino quasi al Torrione, quello dei Lafranchi.

In mezzo c’era la Chiesetta che era oggetto sì di santa devozione, ma anche di beghe e di discussioni acerrime. I Cargnoni si sentivano vassalli continuatori degli antichi frati e sostenevano di essere direttamente infeudati con antiche carte… andate perse.

Gli Horandi e i Lafranchi erano invece convinti che non vi dovesse essere alcun privilegio; e così discutendo nella Confraternita dei Capifamiglia si arrivava a gesti animosi e a sconsiderati boicottaggi che avevano portato la chiesetta ad uno stato miserevole.

La sferzata del Convisitatore di San Carlo monsignor Giovanni Pionni, venuto a Goglione con autorità incontrastabile, aveva convinto le due famiglie succubi che era giunto il momento di cambiare tutto.

Con entusiasmo di rivalsa, più che di rinnovata fede, avevano restaurato la chiesa e, rimessala al bello, avevano deciso, con l’assenso del parroco di Goglione, di titolarla a San Carlo Borromeo.

I Cargnoni? Quelli se l’erano presa a male e faticavano a frequentarla. Rosi da quel vecchio senso di dominio sulla contrada non perdevano occasione di lamentare il “tradimento” delle origini. Non era gente malleabile e, anzi, in breve avevano troncato ogni possibile solidarietà con i membri delle altre due famiglie non lesinando ripicche e atti di sabotaggio.

Come quella volta che i due figli più giovani del capostipite Peder Cargnoni, Gratiadeo e Zovan Pavolo, avevano asportato le vesti e i paramenti prima della Messa domenicale lasciando il povero parroco a celebrare con due chierichetti scalzi e con una stola rimediata al momento.

Ne era seguita una zuffa la sera, giù al ponte. Ma poi le cose si erano trascinate… stancamente per lungo tempo e senza cambiare di una virgola.
Neanche quando i Lafranchi, diventati una famiglia possidente con terreni e rendite più che cospicue, avevano commissionato a Bernardino Podavini, pittore da Muscoline, la pala della chiesa. Volevano dare lustro alla chiesa e alla contrada rimarcando la loro buona fortuna e floridezza.

Spinti dall’impeto di voler tendere una mano ai Cargnoni sempre adirati per il cambio di titolazione della Chiesa, commissionarono al pittore di Muscoline l’inserimento di un chiaro segno dell’origine benedettina della chiesa. Non dettarono i dettagli ma richiesero che il tributo ai frati di San Pietro in Monte Ursino di Serle fosse visibile e riconoscibile da tutti. Così fu e il Podavini si prodigò per aggiungere il piccolo monte ai piedi della Vergine, a fianco del protagonista San Carlo Borromeo.

Bene, data spiegazione al primo interrogativo, la storia non poteva esaurirsi così. L’odio irreconciliabile dei Cargnoni non si placò nemmeno con il segno di pace lanciato dalla famiglia dei Lafranchi. Tutto l’astio e i piccoli bisticci proseguirono ancora a lungo.

Sì, proseguirono le liti alla Confraternita, i piccoli e grandi sabotaggi che non si fermavano nemmeno davanti all’impaurire le donne che dopo il tramonto si recavano alla Messa settimanale dal cappellano di San Carlo… mantenuto dai Lafranchi.

Più di una volta un paio di uomini coperti da lunghi mantelli e da un cappellaccio atterrirono l’anziana Domenega Horandi che con la coetanea Lucrecia Lafranca stavano andando in Chiesa rimbalzandole a casa col mancafiato e lo sbatù per lo spavento.

Era un clima pesante che sopraffaceva la vita della contrada… ma si sopravviveva, il secolo del Barocco non risplendeva certo di riccioli e fronzoli di serenità a Celle.

A far la vita bella e a viver la giovinezza sfrenata ci pensava un aitante rampollo dei Lafranchi, Alfonso, giovane forte e di una personalità prorompente… fin troppa.

Sapeva cavalcare in maniera sopraffina e menava spavento a tutti lungo le campagne e nelle contrade spingendo i suoi ronzini a galoppo sfrenato. Era senza paura sapendo usare le armi come pochi e da questo il coraggio non poteva che trarre alimento.

Bello e alto, muscoloso, d’una capigliatura spavalda, il giovane si era fatto compare di coetanei assai più potenti e possidenti. Frequentava i giovani delle nobili famiglie Lechi e Caprioli di Brescia con i quali conduceva avventure amorose sì ma non arretrando anche a quelle delittuose. Era tempo di soprusi e di arroganti predomini, i Lechi coprivano banditi e malavitosi di provincia. Alfonso Lafranchi non disdegnava di frequentare gli uni e gli altri.

A Celle, dove rientrava di notte o a giorno fatto, era guardato con rispetto e timore.
Qualche giovane suo coetaneo gli chiedeva, appena lo incrociava senza che sgroppasse sul suo destriero, come fosse la vita a Brescia e soprattutto chiedeva che raccontasse di come faceva ad entrare al convento di clausura di Santa Catterina… per incontrar da vicino le monache… Le voci correvano a Celle e, sebbene fossero veritiere, a Brescia e in Vescovato arrivarono molti anni dopo con ampio scandalo, lacrime e stridor di denti.

Intanto il giovane si faceva chiamare don Alfonso ed esigeva rispetto a suon di baraonde con fior di banditi di nobile lignaggio. Si vantava persino di essere presente ad ogni “criminal menaggio”.
Incurante, certo, delle piccolezze di contrada e dell’astio della famiglia Cargnoni che aveva lui e i suoi famigliari in odio.

Passati i trent’anni, tuttavia, placò gli animosi spiriti trovando moglie proprio a Goglione, certo scegliendola nella più bella e buona creatura della vicina contrada di Quadega: Zinevra Bonomina. Si diede a curare con successo gli interessi di famiglia non disdegnando mai di ricorrere alle sue importanti conoscenze tra i nobili bresciani.

Procurò alla famiglia Lafranchi l’”incanto” dei beni comunali del Buco del Frate, un pezzo di monte ricco di vigne, di legna e di castagne. Nel capitolato aveva suggerito lui che ogni anno l’appaltatore dovesse portar “due sacchi di maroni di quelli grossi” ai deputati comunali e questo lo aveva messo in buona posizione… fino a fargli avere il ricco fondo incassato tra il Budellone e il Monte Paitone.

Tutto sembrava girare per il verso giusto per la famiglia Lafranchi che non trascurava solidarietà e aiuto ai poveri contadini di Celle dove aveva il suo quartier generale.

Un brutto giorno, tuttavia, la sorte girò le spalle ad Alfonso e in particolare alla giovane moglie, gravida del primo figlio. Una notte diede alla luce “un puttino… che morse tosto che fu tolto dal grembo, sì che l’obstetrica potè a pena dargli l’acqua Santa”.

La morte di quel figlio scosse l’uomo nel più profondo, nonostante le morti alla nascita fossero cosa frequente per non dire abituale. L’attesa di quell’erede lo aveva reso un uomo più forte nella speranza, ma dopo quella tragica notte si era ritrovato fiaccato nell’animo e nella voglia di vivere.

A rendere penosa la cosa era un’atmosfera generale di cui pareva essersi intriso il mondo intero, non solo la famiglia di Alfonso e non solo la contrada di Celle.

Aleggiavano tristi auspici che le cronache del tempo riportano con dovizia… basta leggere le pagine dei noti Diari del Bianchi, cronachista bresciano che immortalò in un lungo memoriale anni e anni di quotidianità a Brescia e dintorni.

Tra il 1628 e il 1629 i lupi avevano attaccato e sbranato diversi fanciulli sulla Maddalena e sui Ronchi; avevano assalito una donna alla Fantasina alle porte di Brescia. Nell’ottobre del 1628 si era sparsa la terrificante voce che in un convento di Erbusco alcuni Frati Zoccolanti erano morti di mal contagioso, ma una commissione giunta da Brescia aveva escluso la cosa.

Nel gennaio successivo Coccaglio era giunto alla ribalta delle voci più tenebrose segnalando che anime in pena di morti dissepolti lanciassero sassi roventi e provocassero strepiti paurosi. Una Commissione Teologica convocata d’urgenza dal Vescovato aveva poi rifiutato di ammettere agli ordini di un monastero una giovane di famiglia bene di Coccaglio perché proveniente da una casa “dove si sentivano li rumori e fantasmi, et altro” sottoponendola a processo.

Auspici forieri di tristi presagi.
Che puntualmente arrivarono. Già nel febbraio del 1630, provenendo da Bergamo, a Palazzolo si contarono i primi morti di peste… una commissione medica fatta arrivare da Brescia, tuttavia, non la riconobbe tale. E le vittime aumentarono, implacabilmente, come il decorso del morbo.

Le notizie che si propagavano dalla città al territorio erano tali da indurre ogni comune all’adozione delle più severe disposizioni. Il 19 giugno 1630 a Salò il Consiglio Generale deliberò l’elezione di cinque uomini “che facciano strada ai passeggeri fuori dalle porte custodite. Nessun soldato, corriere o forestiero deve introdursi nel centro abitato”. Lo stesso giorno diversi casi di peste vengono denunciati a Goglione che diventa luogo da cui non si entra né si esce. Le pene non si fa in tempo a metterle nei bandi, si eseguono senza indugi.

Se a Brescia il podestà è barricato in Broletto, Celle e la sua gente sono immoti. Si esce poco nei campi, si raccoglie quel che si può dagli orti… e si contano i morti. Alfonso Lafranchi vede morire la madre e un fratello, non esita ad assisterli e, non subendo contagio, si presta a diventare il “nettezino” della contrada. Trasporta i morti ed è il solo che si prenda qualche cura degli infetti. Appronta anche un piccolo “Lazaretto” in un casino nella campagna, poco lontano dal Naviglio. I contagiati che sono in grado di alzarsi dal letto li porta là, per evitare che stiano nelle case e poi si prodiga a portare loro quel poco di conforto materiale.

Si dà a questa missione senza sosta. Ha solo un garzone, Comino Baldini, da Notega, al quale aveva promesso un giorno di portarlo a vedere il convento delle monache di Brescia e che da allora non lo aveva più lasciato nemmeno un istante servendolo con coraggiosa fedeltà.

Le giornate corrono frenetiche per lui mentre nelle case si guarda con il terrore scavato negli occhi ad ogni sintomo, il “zuchott”, il “mal mazzucco”, ogni enfiagione sospetta...

Non esita a portare sul carretto dei trapassati anche un figlio di Peder Cargnoni, Pavol, e un piccolo di nove anni, Censino, vedendo insieme lacrime e il non sopito astio nei suoi confronti da parte di quella famiglia “nemica”.

Famiglia nella quale la giovane sposa Isabetta era gravida e stava ormai per dare alla luce il primogenito al marito Peligrino Cargnoni. L’ostetrica Orsola Boturina non correva volentieri per case in quei giorni ma si bardò con una coperta e dovette andare, il parto di Isabetta andava avanti da ore e le donne di casa avevano percepito qualcosa che non andava per il verso giusto. Alla fine di un parto assai travagliato il piccolo nacque. Certo, l’ostetrica, come faceva quasi con regolarità e senza scomporsi “aveva data l’acqua Santa”, aveva battezzato lei il piccolo in evidente pericolo di vita.

Appariva sofferente e gracile, triste riflesso degli adulti che lo circondavano. I primi giorni furono travagliati come e più del parto, la giovane madre non aveva latte e il piccolo aveva voce fioca anche nello strillare.

L’ostetrica aveva sentenziato, con la sua voce raggrinzita ma autorevole, che l’unica medicina e l’unica possibilità per far sopravivere il piccolo era di procurargli almeno per qualche settimana “làt de càvra”, un antico e semplice rimedio che lei aveva visto dare risultati efficaci e sicuri.

Lei, Orsola Boturina, non aveva neppure nascosto, per altro, che di bambini ne vedeva più trapassare che sopravvivere ai primi tre giorni.

Alle donne, e agli uomini di casa Cargnoni quella era suonata come una sentenza.
In paese non vi erano capre e nessuno poteva uscire da Goglione.
Chiunque di costì fosse stato fermato in un altro luogo sarebbe stato denunciato e affidato al “Zudes del Maleficio” per una pena immediata. La costernazione regnava. Quando ad Alfonso, senza sosta chiamato a portare morti e moribondi, la notizia del povero “puttino” dei Cargnoni venne ad orecchio, rimase senza parole. Le lacrime versate per il suo figliolo perso gli salirono prepotentemente partendo dal groppo nella gola.

Non parlò con nessuno per tutta la giornata. Poi, giunta quasi mezzanotte, venne a scuotere il garzone Comino. Gli fece bardare i due cavalli e partirono. Il ragazzo, che non mancava di coraggio e di cieca fiducia nel padrone, aveva un labbro tremante per la paura. Non sapeva né dove né perché si fossero messi in viaggio in piena notte.

Anche i sentieri che lambivano le rive di platani finivano a qualche crocicchio, prima o poi e qui soldati o guardie armate potevano essere pronti a fermarli.

Perché mai quell’azzardo?
Il ragazzo non capì nemmeno dove fossero finiti. Avevano oltrepassato Molinetto e Ciliverghe badando di evitare i luoghi abitati e poi avevano preso una lunga strada vicinale, sterrata e dritta come un fuso che portava ad una cascina, la Cascina Rezzata.

Qui Alfonso lo aveva fatto attendere discosto dall’ampia corte e dai loggiati per ritornare poi con un secchio di legno ricoperto da un coperchio, sempre di legno. Gli aveva affidato il secchio raccomandando di non scuoterlo e di serbarlo ad ogni costo. Lui, Alfonso, lo avrebbe preceduto cavalcando avanti mezza lega per ogni evenienza.

Il mattino seguente fuori dal portone dei Cargnoni, nella casa lungo la discesa al Ponte del Naviglio, era poggiato quel secchio di latte di capra. Fu ritrovato al chiaror del primo sole dagli uomini che partivano per i campi.

Sembrava un miracolo. La casa dei Cargnoni fu invasa da un’agitazione e da una speranza mai provate prima. Isabetta, con il suo piccolo, piangeva a dirotto mentre le donne preparavano quel latte salvifico.

Le sortite di Alfonso e Comino proseguirono tre giorni dopo, e dopo altri tre ancora.
I Cargnoni attendevano il secchio mattutino senza nemmeno più chiedersi da dove provenisse.
Comino iniziava ad apprezzare le avventure notturne, si sentiva un uomo coraggioso, aveva abbandonato ogni paura e, se non era per il secchio da non far traballare troppo, avrebbe spinto il suo cavallo al galoppo sotto la luna estiva.

La quarta notta, invece, in fondo alla riva di gelsi che riparava la contrada Macina dalla campagna si materializzarono otto soldati con gli spadoni e l’alabarda.

Comino vide il suo padrone Alfonso frenare il cavallo e scendere per lasciarsi condurre via, lanciò uno sguardo indietro a cercare il garzone per gridargli, pur senza parlare, di scappare via e tornare a Celle.

Alfonso Lafranchi fu portato a Castenedolo e imprigionato in un Palazzotto che ancora oggi si erge nel centro del paese, Palazzo Belpietro.

Comino, sebbene atterrito, aveva seguito gli uomini da lontano prima di prendere la via del ritorno.

Il pomeriggio stesso Alfonso fu sottoposto a processo e condannato all’impiccagione. Di questa vicenda rimangono impressi gli atti nelle carte d’archivio a segnalarne la drammatica ufficialità.

In nome del Nostro Sig.re Giesù Cristo l’anno dalla sua Natività 1630 il dì Domenica 22 settembre alle ore 23 in Castegnedolo. Nella casa di Faustino Belpiero, ove si ritrova Alfonso Lanfranco del luoco di Goion Territorio Bresciano, legato in ceppi alle mani e piedi, custodito da Ministri della Corte dell’Illustrissimo et Eccellentissimo Marco Giustiniano Proveditore dell’armi dell’Oltre Mincio, condannato dalla sua giustizia alla morte.

E’ l’incipit del testamento che il povero Alfonso ha lasciato nel giorno precedente la sua esecuzione.

“Desiderando prima di disponere delle cose sue attinenti all’anima, et anco di quelle temporali del suo havere: Non trovandosi in detta terra alcuno Nodaro Bresciano è venuto il Reverendo Don Andrea Leali di detto luoco… à che con licenza di S.E. Illustrissima ho volentieri condisceso: et conferitomi alla sudetta casa, fatto condur nel mezzo della Corte il sudetto Alfonso, et sentato sopra di un scagno. Con il presente suo testamento detto senza scritti, ha ordinato, et disposto...”.

Seguono poi le ultime volontà, che sono benevole verso la moglie, i fratelli ma anche verso i suoi conterranei e soprattutto verso i “poveri et miserabili de Goion et dintorni”. Nel mentre, Comino aveva raggiunto Celle precipitandosi in piena notte dai Cargnoni per porgere, piangente, il secchio di latte, accolto come un salvatore.

Raccontò tutto ai Cargnoni, uomini duri e severi, che a momenti cascarono in lacrime all’udire il bene fatto da quell’uomo ritenuto di una fazione avversaria.
La giornata trascorse frenetica e nervosa ma il consiglio della famiglia Cargnoni aveva già deciso. Avrebbero fatto di tutto per liberare l’uomo.
Quando l’anziano capofamiglia Peder Cargnoni parlava per ordinare di muoversi, tutti gli uomini, maschi e adulti della famiglia scattavano. Erano sette, in tutto, ma avevano solo tre cavalli, i restanti furono presi in prestito.

Fu deciso di attendere la notte, come faceva Alfonso. Comino li avrebbe accompagnati seguendo lo stesso percorso che avevano intrapreso le notti precedenti.
Lasciarono i cavalli fuori dal Castenedolo con un uomo a guardia. In sei più il ragazzo si avvicinarono al Palazzo dove le autorità avevano lasciato di guardia solo sue soldati che però dormivano della grossa. I Cargnoni li sorpresero nel sonno e, gettatigli un sacco in testa ad entrambi, si fecero portare da Alfonso nella caneva del palazzo.

Le spiegazioni furono poche, in fretta legarono i soldati e presero la via del ritorno. I Cargnoni tornarono alla loro casa dove ormai il bambino di Isabetta, grazie alle “secchiate” di latte di capra, appariva più in carne e destava meno preoccupazioni.

Alfonso, invece, temendo che venissero a cercarlo, si rifugiò alla casa del Buco del Frate, tenuta dalla sua famiglia. Nessuno mai più venne a cercarlo. Anche a Castenedolo i morti di male contagioso si contavano a fine giornata con triste cadenza e un prigioniero fuggiasco non valeva sforzi inutili.

Solo agli inizi di ottobre, dopo che a settembre la virulenza era scemata, il male cessò. Brescia contava una popolazione che era la metà di quella precedente la pestilenza. In molti comuni la percentuale era anche maggiore.

Non sappiamo a Goglione quanti furono di preciso, tanto meno a Celle.
Sappiamo solo che la famiglia Cargnoni nella primavera del 1631 volle far erigere una Santella di fronte al ponte del Naviglio.

Chiamarono un “pintore” della Valle Sabbia, esperto di affreschi e gli affidarono l’incarico. L’animosità verso gli Horandi e soprattutto i Lafranchi era svanita. I Cargnoni volevano, anzi dare un segno di pacificazione e il vecchio capostipite Peder si recò di persona da Alfonso Lafranchi.

L’anziano chiese senza indugi ad Alfonso che proponesse una sua devozione personale da apporre sull’affresco della Santella.
Loro, i Cargnoni, avrebbero ben volentieri fatto rappresentare, accanto alla Vergine del Latte, il San Carlo che ora vedevano anch’essi come buon patrono ma se i Lafranchi volevano aggiungere altro avrebbero accolto di buon grado ogni proposta.
Alfonso strinse forte la mano al vecchio Cargnoni chiedendo che si ricordasse San Rocco, il benevolo protettore degli appestati.

Così fu.

Le lunghe ricerche sui documenti mi hanno reso grande soddisfazione e gratificazione, la Santella e la Chiesa di Celle sembravano non avere più segreti né misteri. Qualche settimana fa, poi, ho voluto visitare quel casino che per mesi fu un vero “Lazaretto”, l’ubicazione mi è nota da tempo. Là il nettezino e i suoi aiutanti portavano i pochi che potevano e dovevano essere assistiti.

E’ stato un sacro luogo di carità e di umanità dove la vita e la morte si sono mescolate preservando il grande valore della dignità… e nutrendo quello della speranza. Oggi quel casino non ha nemmeno una strada che lo raggiunge, è in mezzo ai campi, letteralmente al centro di un podere. Si percepisce subito che non si tratta di un semplice deposito di attrezzi. Ha una superficie più ampia e sembra mantenere i segni di un edificio che doveva avere almeno due piani.

I muri perimetrali sono ancora robusti con quadrelli e pietre ben messi e anche una solida grata alla finestra più in basso.

Il tetto invece ha lasciato il suo posto ad un grande gelso, cresciuto all’interno e sbocciato verso l’alto. In estate sorprende il prorompere delle fronde che fuoriescono da quel piccolo edificio, una rivincita della natura sull’abbandono o forse… forse, il prorompere di un’anima che in quel luogo deve aver salvato vite e accompagnato morti.

Forse un piccolo seme, rimasto e sopravvissuto, che da allora vive incessante… Sono entrato per la prima volta in quel casinetto con intima emozione ma a sorprendermi è stata la scritta, incisa con un punteruolo sullo stipite interno.

IO PEDER CARGNO FO FE EL MAL MAZUCCO
SANETTE ME ET LA MIA FAMILIA. ADI 19 8BRE 1630
Io, Pietro Cargnoni sono testimone che è la la peste che ha
guarito me e la mia famiglia. 19 Ottobre 1630.

Buon Natale.

Paolo Catterina


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