07 Luglio 2008, 00.00
O
Discografia

De Gregori da tre stelle (e mezzo)

di Davide Vedovelli

Piace ma non convince troppo l’ultimo lavoro di Francesco De Gregori “Per brevitŕ chiamato artista”. Ormai in circolazione da alcuni mesi, dopo averlo ascoltato, criticato, apprezzato e metabolizzato, possiamo palarne con il giusto distacco.

Ormai in circolazione da alcuni mesi, dopo averlo ascoltato, criticato, apprezzato e metabolizzato, possiamo palare con il giusto distacco che serve all’oggettività, dell’ultimo album di De Gregori.

Se è vero, come lui stesso sostiene, che è stato il frutto di un lavoro durato solo un mese, racimolando cose già scritte o iniziate tempo prima, possiamo quasi parlare di miracolo creativo. “Per brevità chiamato artista” è un disco immediato ma non facile, orecchiabile ma non banale, non certo un capolavoro. Chi gli abbia messo tutta questa fretta di produrre il disco non ci è dato saperlo, se però pensiamo che Fabrizio De André tra un disco e il successivo lasciò passare sette anni, almeno una cosa la possiamo intuire: i tempi della creatività artistica e dell’artista non possono (potrebbero) essere inquadrati in logiche discografiche e commerciali. Il genio, se tale è, non sa quando avrà l’intuizione, e nemmeno quanto tempo ci metterà a svilupparla nel modo migliore. Tutto sommato rialza la testa Francesco De Gregori dopo il deludente Calypsos, e lo fa con un lavoro che parla di lui, forse un po’ troppo autoreferenziale, ma lo fa con lo stile che gli compete, con senso critico (come nel brano “Celebrazione”) e privilegiando il testo alla musica, gli arrangiamenti più sobri rispetto a quelli rockettari degli ultimi Live.

Una riconciliazione con il pubblico e forse anche con se stesso, con uno stile a lui piĂą consono e indicato.

Un lavoro ben articolato, non semplici canzoni slegate tra loro, ma messe in modo da creare un viaggio metaforico ed evanescente in ciò che è e ciò che è stata la musica di De Gregori.

Spiccano su tutti quattro brani, deludono soprattutto due: Volavola e la Title Traks monotona e con un testo non proprio illuminante.

Glielo si perdona? Non si dovrebbe ma si fa: per rispetto, per affetto e perché qualche cosa di buono sicuramente c’è. Perché il principe è sempre il principe, perché in alcuni brani si sente la grandezza delle parole, perché (una su tutte, “imperfetto”) riesce ad emozionare e si vede la pennellata del maestro, il cerchio quasi perfetto.

L’unica domanda, forse banale, che mi viene in mente è: quanto uno come Francesco De Gregori deve sottostare ai tempi e alle leggi della discografia? Quanto è disposto a sacrificare la qualità per leggi di mercato? Quanto questa prolifica produzione sia effettivamente un bisogno dell’artista di comunicare, di proporre e confrontarsi con il pubblico? Quanto De Gregori c’è oggi in un album di Francesco De Gregori?



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