Applausi e fischi per Morgan

Morgan che comincia a monologare visibilmente in conflitto, chiaramente sconvolto, e che tuttavia fa restare incollato alle sedie un pubblico provato dall'attesa e da un caldo desertico.

Terzo appuntamento del Festival del Teatro del Vittoriale Tener-a-mente, la rassegna che ospita i più grandi nomi della musica italiana e internazionale e che ha già incantato gli spettatori con Paolo Conte e i Counting Crows nella splendida cornice dell'anfiteatro appollaiato sul lago.

Morgan è un artista drammatico, che suscita sensazioni drammatiche: l'amore fedele e  incondizionato da una parte e un odio, a tratti motivato, dall'altra.
Come nell'articolo sensazionalistico di un giornale scandalistico, Marco Castoldi arriva in ritardo sul palco entrando dall'ingresso degli spettatori, scusandosi con il suo pubblico, rispondendo alle lamentele e firmando autografi.
Comincia lo show: era spiegato nel materiale informativo che non sarebbe stato un concerto. Morgan presenta il suo libro "Io, l'amore, la musica", si racconta, pensa ad alta voce, canta, balla.

Inizia con un elogio a Gabriele D'Annunzio, il padrone di casa, citandolo e spiegandolo, con deferenza all'inizio, e con coraggio più tardi, quando comincia, come un riflesso inerte e spontaneo, a modellarlo su se stesso, a declinarlo, a parafrasarlo, ad integrarlo con parole proprie, con tanto di citazioni a Palazzeschi e Marinetti e precisazioni politiche su un autore che in effetti in Italia è spesso evitato per le sue idee audaci.

Il pubblico si dimentica di aver atteso.
Da qui, in discesa, un racconto personale metafisico, che si interroga sulla propria identità, sui propri preludi, le fughe, le debolezze, le forze.
Suona  brani dei Bluvertigo, il gruppo che lo ha portato al successo, per poi eseguire Beethoven, Bach, Madonna e molti altri autori dall'iperspazio del suo repertorio.

Impossibile non domandarsi se sia improvvisato o se davvero esista una regia dietro a questo spettacolo, vista la naturalezza con cui Morgan parla di sé. Le immagini e i video proiettati sul retro chiariscono che si tratta di un lavoro ponderato, che nasce dalle scene di Luca Volpatti, capaci di astrarre una biografia franca, sottolineata dalla regia di Roberta Castoldi, sorella di Marco.
Si distinguono dei capitoli, legati a dei macro fondamentali che parlano di infanzia, ricordi, ideologie e convinzioni per mandare un messaggio chiaro e forte: l'importanza e l'eternità della musica.

Morgan non ha cantato alla perfezione.
Avrebbe suonato ancor meglio se fosse venuto per suonare e, da buon oratore, ha sostenuto digressioni a tratti ingombranti. Eppure, Marco ci ha convinti del valore della musica, della sua perfezione intrinseca, del suo universale potere pacificatorio e comunicativo, con tanto di dimostrazioni pratiche.
Ed è riuscito a farlo con una sincerità disarmante, mettendosi a nudo per quello che è. Poco importa se ci fosse un canovaccio o meno: Morgan è in grado di vedere un oggetto, associarlo ad un aneddoto, approfondirlo con una digressione storico-poetica e trarne la conclusione che l'arte e la poesia sono le uniche cose per cui vale la pena vivere.

Per questo è stato apprezzato.
Nonostante il ritardo, il disordine e l'affanno, con un pianoforte, insieme al Bassista Megahertz (Daniele Dupois) e a Marco Santoro al fagotto, Morgan ci ha fastidiosamente ricordato che ha scelto l'arte e che dovremmo farlo sempre, con la sua inevitabile e naturale tendenza alla creazione; lui, l'amore, la musica.