13 Dicembre 2007, 00.00
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Interviste

Un incontro con Francesco Guccini

Un lungo viaggio per arrivare, lungo e sensibilmente atemporale. Musica, chiacchiere, scherzi: allegria di altri giorni... Si comincia a parlare e le barriere si sgretolano, il tutto si trasforma nell’incontro di un amico d’altri tempi appena ritrovato.

Un lungo viaggio per arrivare, lungo e sensibilmente atemporale. Musica, chiacchiere, scherzi: allegria di altri giorni…
Il grande vecchio vaga curvo nei propri pensieri sulla porta di casa, quasi in attesa del nostro arrivo, bambini pronti a farsi raccontare un’altra fiaba. Si è ingrigito, nonostante ciò emana un placido carisma, tale da mettere in soggezione.
Ci fa sedere al suo tavolo fra profumi di legno, carta e calma collinare. A quel punto si comincia a parlare e le barriere si sgretolano, il tutto si trasforma nell’incontro di un amico d’altri tempi appena ritrovato. Si parla di simboli; bene, se c’è bisogno di un simbolo per quel breve incontro sono sicuramente i due occhi azzurri e profondi del grande vecchio. Sono proprio quegl’occhi, più della corporatura, a calamitare l’aggettivo grande.
Ripensando ora a quegli istanti, mi rendo conto che forse sono stato ingannato anni fa dalle sue parole… forse il vecchio e il bambino sono una sola persona e, se la saggezza e la calma sono quelle del vecchio, l’entusiasmo è ancora quello del bambino. Ed è proprio quest’ultimo che ha permesso a noi bambini di entrare in risonanza.



Hai certamente dato molto al tuo pubblico. Che cosa hai ricevuto in cambio?

Mah, direi che la cosa più curiosa... è l’affetto. Io non vengo visto come un dio, come un extraterrestre, ma come un vecchio amico; adesso, purtroppo, anche come un vecchio zio, il che mi addolora un po’. Mi fa piacere non essere identificato come qualcosa al di là di una barriera, ma come qualcuno che si può incontrare. Ecco, questa è la cosa migliore.

I messaggi contenuti nelle tue canzoni arrivano a moltissime persone. Come vivi questa responsabilità? Sei mai arrivato ad autocensurarti?
Diciamo, innanzitutto, che messaggi nelle mie canzoni non ce ne sono, né ce ne vogliono essere; ci sono semplicemente le opinioni o le storie di uno che racconta, senza pensare di vestirle con una stoffa più pesante del dovuto. Non voglio lanciare messaggi, non sono Grillo.
Non mi sono mai censurato: non penso e non devo pensare all’effetto che avrà una canzone. Io canto quello che mi viene in mente in quel momento, poi… che vada per il mondo e buonanotte!

Quando trentadue anni fa un fiorista sanremese ti ha chiesto di partecipare ad un nuovo festival, cosa hai pensato?
Letteralmente ho pensato: “Ma che rottura di coglioni andare fin là! Appena mi telefona dico che ho degli impegni e non ci vado.”
Il maledetto mi ha telefonato la mattina, quando andavo a letto molto tardi: mi ero addormentato relativamente da poco e non ho avuto il coraggio di dire no.
Mi sono trovato benissimo i primi anni: un’atmosfera molto bella, diversa. Quindi sono stato contento di andare. Poi Amilcare era una persona deliziosa.

Cosa è cambiato in seguito?

Molto. Eravamo in meno, eravamo sempre insieme. Il primo anno saremo stati in sette o otto, tutti con una gran voglia di suonare, una gran voglia di divertirci, di stare assieme, di bere vino… Vino per altro, quell’anno, pessimo! [ride]

Qual è la collaborazione che ti ha maggiormente arricchito, a livello artistico ed umano?
Sicuramente quella con Flaco (Biondini, suo chitarrista). Ci conosciamo da una vita e abbiamo diverse passioni in comune. In Italia c’è un grande interesse per la musica brasiliana, mentre io preferisco quella argentina… Flaco, come noto, è argentino. Si interessa anche di problemi linguistici e a me piace frugare nella lingua spagnola…
È stata importante anche la collaborazione con Renzo Fantini, produttore discografico e persona degnissima. Spesso si parla male dei discografici, si dice siano iene e a volte è anche vero, Fantini no.

Avevamo previsto che avresti parlato di Flaco e quindi la domanda successiva è: ti senti più Don Chisciotte o Sancho Panza? Chi sono, nel nostro presente, i mulini a vento?
Non mi sento né Don Chisciotte né Sancho Panza: sono figure letterarie che uno prende in prestito per raccontare delle cose; diciamo, tutto sommato, che io sono tutti e due, per questioni culturali, per questioni mie…
I mulini a vento sono per me una destra faziosa, riottosa; non solo: anche una sinistra confusa. C’è molta perplessità in questo momento, ma soprattutto c’è un fascismo che sta riemergendo in maniera pericolosa, violenta. Leggevo oggi sui giornali che due ragazzi di Rifondazione Comunista parlavano in un bar di una manifestazione che si sarebbe tenuta oggi o domani, li hanno aspettati fuori e li hanno sprangati! Sono questi i mulini a vento.

Qual è adesso la tua isola non trovata? È cambiato il tuo mondo ideale rispetto al passato?

Le cose cambiano: cambiano le prospettive, gli ideali di vita, i modi di fare… perché mutano anche i tempi fuori di te, la vita esterna è diversa: una Bologna che per me poteva essere un’isola trovata alla vostra età, una città stupenda, adesso è molto trasformata. Infatti, sono cinque o sei anni che non vi abito più. Cambiano le amicizie, a volte curiosamente rimangono le più antiche, quelle fatte da bambino addirittura. Non avere una lira in tasca o avere due lire in più: la differenza sta anche in questo.
Io adesso sto bene qui: guardate fuori, ho una bella televisione da vedere. Non avevo mai fatto attenzione in tutta la mia vita alle previsioni del tempo come adesso. Se nevica, cosa che pare per il momento non accada, qua si rischia di rimanere bloccati. Onestamente, quando stavo a Bologna non mi preoccupavo assolutamente se l’inverno sarebbe stato più o meno siccitoso o piovoso o nevicoso, se posso usare questa parola.

Quali sono oggi le tue paure?
Dato l’avanzare dell’età ho paura dei malanni, che vanno parallelamente all’aumentare degli anni. Se Dio vuole, per ora sto bene, quindi tiro ancora avanti, non è che abbia paura di cose particolari. A cinquant’anni ti accorgi che il tempo che hai vissuto è superiore a quello che avrai ancora da vivere, anche ammettendo di arrivare a cent’anni, cosa abbastanza difficile. Questo ti dà da pensare. A vent’anni ci si ritiene immortali, non si pensa a queste cose, poi vai avanti e ti accorgi che tanta gente è rimasta indietro, si è fermata. Basta pensare alle persone conosciute come De André, Bertoli, Victor Soliani, tanti amici miei.
Poi, in un paese come Pavana, quando muore uno si va tutti al funerale. Ad esempio, l’altro giorno ho assistito ad una stranissima cerimonia: il defunto, militante di sinistra, voleva il rito civile; ha parlato il Sindaco e poi è arrivato il prete… allora ho capito il compromesso storico locale!

Sei mai stato schiavo di qualche dottrina? Se sì, te ne sei liberato?

Io sono testimone di Geova, quindi… [sguardo attonito della redazione]. Scherzavo! [ride] Direi di no, non sono mai stato schiavo…
Sarebbe stato uno scoop giornalistico!
Ho sempre cercato di evitare, nella vita, di essere non dico schiavo, ma troppo fedele a una qualsiasi dottrina o fede religiosa. I dogmi mi infastidiscono, mi bloccano: perché non poter usare la ragione che abbiamo per dire questo mi va bene e questo no?

“…il cuore di simboli pieno” dici alla fine di “Incontro”. Quali sono i tuoi simboli?
Sono centinaia e poi, voglio dire, più la vita si allunga e più ce ne sono. C’è anche un altro fatto. Dicevo, qualche tempo fa: io sono un grande fumatore, ma se dovessi scegliere tra smettere di leggere o smettere di fumare, smetterei di fumare… adesso sto smettendo, ci sono quasi riuscito.
I libri sono un grandissimo conforto, ma anche una piccola maledizione: uno non sa mai dove metterli. Anni fa avrei pagato chissà cosa per i libri, ora mi arriva un libro al giorno, sono pieno, i libri mi sopraffanno… e pensare che è cominciato tutto da un mobiletto dove i miei nonni, quando ero bambino, raccoglievano tutto quello che i villeggianti si dimenticavano: un giallo, una rivista… Questo mobiletto era stipato e tutto è cominciato lì: leggevo, leggevo e ancora adesso leggo. Allora i simboli è facile reperirli. Certo, la cultura non deve essere solo libresca.

Ci consigli un buon vino, un buon libro e una buona canzone?
Mah, il vino ve lo consiglio tutto [momento di ilarità generale] basta che sia buono. Pavana non produce buon vino; una volta il marito di mia cugina mi dice: “Dai che proviamo a fare il vino!” ...tremendo, agghiacciante! Il vino dipende sempre dal cibo, dalla situazione, quindi non ce n’è uno in particolare. Devo dire che a me piacciono molto i rosé, soprattutto quelli della Provenza e della Corsica.
Per i libri non se ne può consigliare uno. Bisognerebbe imparare a leggere più libri contemporaneamente, perché ci sono vari momenti di lettura. Io se mi innamoro di un autore cerco tutto quello che ha scritto; vi posso dire chi ho recentemente scoperto: McCarthy. Ha fatto una trilogia western, ma non nel senso comune del termine.
Una canzone… non “Dio è morto”! Ho letto un’intervista fatta da un mio collega l’altro giorno, non dirò chi, ovviamente. Li ha nominati tutti! Cani e porci! A me non mi ha nominato e poi salta fuori “Dio è morto” e “Ah, che capolavoro!”. Ma non è vero. È stata scritta opportunamente, al momento giusto, ma “Amerigo” è più bella, “Bisanzio” è più bella…
Ognuno ha dei ricordi legati a canzoni; queste fanno quindi parte della storia letteraria: sono letteratura.

  Davide Vedovelli, inviato de Il Graffio e di vallesabbianews.it


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