01 Settembre 2022, 09.00
Vestone
Anniversari

Ottant'anni dalla battaglia di Kotoskij

di Giancarlo Marchesi

Il 1° settembre 1942 la più cruenta battaglia che coinvolse il battaglione alpini "Vestone" sul fronte russo durante la Seconda guerra mondiale


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Sono trascorsi esattamente ottant’anni dalla battaglia Kotoskij, la più drammatica nella storia del “Vestone”; come l’aveva definita Mario Rigoni Stern. Era il primo settembre 1942 quanto i battaglioni “Vestone” e “Valchiese” furono i primi a essere impegnati sul fronte del Don.

Così ha ricordato il sottotenente Cristoforo Moscioni Negri, del battaglione «Vestone», inquadrato nel 6° alpini, l’arrivo al fronte:
«Ci mandarono sul Don a tamponare lo sfondamento compiuto dai russi sulla divisione Sforzesca […] Cominciammo con delle marce di oltre sessanta chilometri attraverso la steppa bruciata dal sole: dalla pista si alzava una polvere rosa, sottile, che si attaccava al sudore e si infilava nei polmoni insieme all’aria infuocata. Poi, a Voroshilovgrad, ci caricarono sugli autocarri portandoci verso la linea. […]
Ci sbarcarono vicino al Don, tutto il battaglione riunito, e ricevemmo l’ordine di metterci in cammino sul far della notte per attaccare all’alba insieme al III reggimento di fanteria tedesco. Il capitano bestemmiava perché non gli piaceva di entrare in combattimento senza conoscere il terreno e con gli uomini stanchi».

Sull’azione degli alpini, ancora Moscioni Negri: «Partimmo all’attacco alle 5.30 avanzando per qualche minuto in un grande silenzio. Poi all’improvviso la steppa divenne un mare di fuoco per lo sbarramento dei mortai e dell’artiglieria russa. L’aria sembrava rovente, faceva male al respiro, e gli uomini si tenevano curvi come battuti da una grande tempesta. […] Dovetti percorrere lunghi chilometri in mezzo alla steppa, primo e solo per trascinare i plotoni attraverso gli sbarramenti mostruosi, mentre gli alpini morivano intorno senza difesa e mi sentivo crescere in bocca un sapore di sangue. Due volte venni ferito e non so quante volte sollevato in aria e sbattuto per terra come un fuscello dalle esplosioni».

I drammatici momenti del primo impatto con le forze sovietiche sono descritte magistralmente da Moscioni Negri: «All’improvviso altri russi, attaccando di sorpresa sul fianco della compagnia nascosti tra l’erba, sommersero il terzo fucilieri e il plotone pesante. Un carro, con sopra il capitano ferito e dietro alcuni sbandati, passò in fuga lungo il mio plotone seminando il panico: gli uomini partirono ognuno per proprio conto seguendo la traccia lasciata dal carro. […] Anch’io fuggii sull’inizio pensando solo a salvarmi, e provai la paura perché una gamba ferita al mattino non voleva più muoversi. Poi vidi più dietro di tutti, più vicino all’onda dei russi avanzanti, il sergente Rigoni che soccorreva un alpino. […] Allora arrossii di vergogna e ripresi il controllo.

La stessa vicenda è narrata da Mario Rigoni Stern che non nasconde il suo risentimento verso i tedeschi: «Il 1° settembre il Vestone e il Valchiese vennero impiegati verso il Don in un’azione né preparata né studiata. I tedeschi stettero negli osservatori a guardare. […] A distanza di tanti anni, dopo aver letto relazioni e ascoltato voci di chi allora comandava, mi viene il sospetto, quasi la certezza, che quel massacro di alpini sia stato voluto dai comandi tedeschi per mettere alla prova noi, truppe di montagna, nella steppa; per vedere se potevano fidarsi di noi anche su quel terreno. […] gli alleati tedeschi non si mossero, non spararono un colpo, non un loro aereo volò».
Nella sua relazione Reverberi, comandante della «Tridentina», avrebbe lodato i suoi alpini del «Val Chiese» e del «Vestone» che «con slancio e ardimento magnifici» avevano travolto le resistenze nemiche e raggiunto in breve tempo gli obiettivi prefissati. Tuttavia, «il mancato intervento nella battaglia delle forze corazzate germaniche, non [aveva consentito] il mantenimento delle posizioni raggiunte». Reverberi aggiungeva che la «brillante azione svolta» dai due battaglioni aveva suscitato l’ammirazione incondizionata dei «camerati» del Csir e degli alleati.

Come avrebbe scritto a Gariboldi il comandante alpino Nasci, il «Val Chiese» e il «Vestone» – quest’ultimo spingendosi fin sotto alle linee nemiche - avevano dovuto attaccare «senza l’abituale e indispensabile appoggio della loro artiglieria». L’azione in pratica, sottolineava Nasci, non aveva ottenuto risultati apprezzabili, mentre si erano avute gravi perdite fra i due battaglioni: 23 ufficiali, una ventina di sottufficiali e 500 alpini. Nasci consigliava un impiego più organico degli alpini deprecando il prematuro «logorio» delle sue truppe. In sostanza, criticava a Gariboldi la decisione di aver impiegato gli alpini in modo frammentato e senza alcuna utilità. Gariboldi gli rispose seccato il 6 settembre che non conosceva alcuna disposizione per cui gli alpini non dovessero essere utilizzati in singole unità e ribatté di avere il diritto, come comandante, di impiegare quello che aveva «sottomano».

In foto: dipinto di Giovanni Tabarelli dedicato alla battaglia, realizzato nel 1992, in occasione del cinquantesimo anniversario




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