Scatti narcisistici sul web

Secondo i dati forniti da Global Web Index relativi all’Italia, il 73% degli utenti che hanno utilizzato i social network nel 2015 ha caricato fotografie e interagito con i contenuti postati.

In Italia sono circa 4 milioni gli utenti che utilizzano Instagram, dove il 58% dei contenuti condivisi al giorno nel mondo (32 milioni giornalmente nel 2013) sono selfie ovvero autoritratti fotografici.
Si tratta di una relazionalità virtuale incentrata sull’io, nel senso di una sempre più esplicita esibizione di sé stessi, delle proprie attività, dei propri pensieri e delle proprie immagini online, senza il ricorso a filtri. 

Come rilevato dal Censis, configurata in questo modo la pratica diffusa del selfie diviene così l’evidenza incontrovertibile della concezione dei media come specchi in cui riflettersi narcisisticamente, piuttosto che strumenti attraverso i quali scoprire il mondo e relazionarsi con l’altro da sé.

In maniera più netta c’è chi ritiene “che se la propria vita ha bisogno dell’autoscatto per certificarsi di esistere è perché porta con sé un dubbio sulla propria esistenza. È il sintomo clinico della personalità come se; la percezione diffusa della propria inesistenza, l’assenza del sentimento della vita” (M. Recalcati).

In questa prospettiva, il selfie sarebbe la manifestazione di una ubiquità che apparentemente abbraccia tutto e fa essere ovunque ma che in realtà torna sempre al proprio sé, l’unica cosa davvero conosciuta.
In ogni caso sembra che molte relazioni oggi passino da una sorta di costante “vetrinizzazione” del proprio sé e dall’esigenza di cogliere l’altro attraverso lo stesso registro comunicativo.

L’essere sempre connessi (anche a scuola o sul luogo di lavoro) e pronti ad esibire un’immagine, un pensiero o una emoticon diventa un’esigenza insopprimibile perché il non essere presenti nelle arene virtuali comporta il rischio di non essere considerati o di perdersi la novità del momento.

Si tratta di processi spesso segnati da ambivalenze che vanno colti nelle contraddizioni di ambienti digitali che sono al contempo luoghi di omologazione, del consumo, della doppiezza e luoghi della comunicazione e dello scambio orizzontale.
Rimane da capire come tali ambienti virtuali possano diventare anche luoghi di una possibile umanizzazione e della produzione di nuovi significati che ruotano intorno alla ricerca di nuove esperienze di relazionalità, in un contesto generale segnato da frammentazione e instabilità nei rapporti interpersonali.