07 Maggio 2007, 00.00
Anfo
Valsabbini di oggi

Seccamani, lo «scopritore» dei capolavori

Romeo Seccamani è, forse, una delle poche mosche bianche che hanno realizzato i sogni dell’infanzia. O quasi. Il suo sogno fin da piccolo era di fare il pittore, ma è più conosciuto come restauratore.

Romeo Seccamani è, forse, una delle poche mosche bianche che hanno realizzato i sogni dell’infanzia. O quasi.
Aveva in mente di fare il pittore quando frequentava le scuole elementari ad Anfo; ma, finito l’obbligo scolastico, freme e non sa darsi pace perché non può continuare gli studi, dal momento che nella sua valle non c’è la scuola media. Deve allontanarsi da Anfo e sceglie Milano, dove vive in un pensionato per lavoratori studenti; durante il giorno lavora come imbianchino e la sera frequenta i corsi annessi all’Accademia di Belle Arti di Brera e della scuola d’arte Castello, presso il Castello Sforzesco. A quindici anni il padre muore di silicosi; in Romeo si fa più forte il senso della distanza e della solitudine.

Chi, da giovane, non ha provato a vivere da solo, separato dalla casa e dagli affetti più cari, non può immaginare cosa sia la lontananza.
«Soffrivo molto la malinconia, ma resistevo da montanaro duro e caparbio; volevo diventare un pittore».
Un professore, dopo due o tre anni di scuola, gli disse: «Seccamani, per te che riesci bene nel colore c’è un’occasione formidabile: un noto restauratore si è rivolto a me in cerca di un aiutante. Io indicherei te». Il restauratore in questione era Ottemi Della Rotta, uno dei più noti del momento.

Romeo rimase con lui il tempo necessario per apprendere i rudimenti fondamentali del lavoro e anche di più; in seguito collaborò con la Pinin Brambilla, la restauratrice del Cenacolo di Leonardo da Vinci. Maestri di valore per un allievo promettente. Ma il chiodo della pittura rimaneva duramente infisso nella mente; aveva scelto il restauro solo per guadagnarsi un tozzo di pane.
Rientrato ad Anfo, durante una pausa del lavoro nella metropoli, nel 1965 scoprì gli affreschi nella chiesa di Sant’Antonio abate, al bivio per Bagolino. Affreschi del Quattrocento.

Il rinvenimento degli affreschi fu un colpo di fortuna?

«No, no. Fu un colpo di immaginazione e di sagacia. Affascinato dal lavoro che svolgevo, ho immaginato che, per la tipologia architettonica e muraria, quella chiesetta celasse qualcosa di interessante. Di nascosto del prete, ho iniziato a indagare punti non invasivi ed ho trovato... Dietro la soasa allargai un campione ed incontrai un bel viso: colsi la qualità della pittura. Ho segnalato alla Sovrintendenza il ritrovamento e, poiché in quel periodo ero anche sindaco, mi detti da fare perché si effettuassero i restauri. E difatti fu dato l’incarico a Simoni, il quale mi volle con sé a restaurare la chiesetta per due stagioni. Fu un lavoro duro, perché a causa delle condense stagionali la calce si era cristallizzata ed era diventata vitrea; lavorammo con le fresette per limar via lo stato vitreo. Alla fine abbiamo avuto una grande soddisfazione. Gli affreschi sono in parte del 1300 e del 1400. Di grande qualità, anche se sono piuttosto lacerati».

Il progetto di fra’ Giocondo

Pare che, al chiodo della pittura, lei abbia accostato quello del restauro, anche perchè c’è affinità tra le due esperienze. Ritorniamo ai temi degli affreschi.

«Le due pareti del presbiterio rappresentano la storia di Sant’Antonio abate come in nessun altro luogo è descritta. L’autore si è rifatto, probabilmente su suggerimento di un prelato committente, alla biografia del santo scritta da un suo conterraneo, Sant’Atanasio d’Alessandria d’Egitto. Io, per individuare tutti i riquadri, mi sono letto l’originale della biografia ed ho scoperto che delle simbologie del fuoco e del maiale non c’è menzione; sono state appiccicate a Sant’Antonio nel tardo medioevo dai monaci spagnoli. Ci sono solo le tentazioni riportate da Sant’Atanasio, anche se si fa fatica ad individuarle tutte, dal momento che alcuni riquadri sono parecchio sciupati».

Sono stati attribuiti a qualche autore specifico?

«A vedere il ritrovamento vennero un po’ tutti i competenti del settore: Franco Russoli, Panazza, Vezzoli ed altri. Alcuni parlavano di cose mantegnesche o del Foppa. Panazza, invece, era più orientato verso Liberale da Verona. Recentemente, in occasione della mostra del Foppa, sono stati attribuiti a Paolo da Cailina. Io non concordo, perché hanno una qualità diversa da quella di Paolo da Cailina, sia il Giovane che il Vecchio. Infatti c’è una data precisa, il 1490, e solo quella sancisce che non appartengono né all’uno né all’altro. Chi scrive di questi argomenti dovrebbe stare anche un po’ più attento».

Lei s’è fatto un parere?

«Io personalmente la penso così. Ad Anfo, nella seconda metà del Quattrocento, c’era uno straordinario movimento, anche culturale. Dal 1470 al 1490 è stata costruita la Rocca d’Anfo. Quando il generale Abba nel 1797 passa dalla Rocca, trova nella cappella dedicata a San Sebastiano la data del 1490, la stessa che c’è nella chiesetta di Sant’Antonio. È verosimile che i pittori della cappella di San Sebastiano siano stati ingaggiati dal prelato committente per affrescare la chiesa di Sant’Antonio. E già che ci siamo, racconto un altro fatto che riguarda la Rocca. Io penso che sia stata costruita su progetto di fra’ Giocondo, grande architetto, xilografo, ingegnere».

L’eredità dello Studio Simoni

Anche lei è eclettico. È pittore, restauratore... e storico?

«In quel periodo fra’ Giocondo lavorava per la Serenissima. Nella ricerca che feci su Sant’Antonio incappai nelle pagine del Vasari che, parlando di personaggi veronesi, cita una testimonianza dell’umanista Giulio Cesare Scaligero, il quale afferma che nella sua tenera età, nella casa avita di Lodrone, ha avuto come precettore fra’ Giocondo. Gli storici si sono chiesti se per caso Giulio Cesare Scaligero non fosse un vanaglorioso. Cosa stava a fare un fra’ Giocondo in un paesino sperduto di montagna? Per me, invece, tutto coincide. In quel periodo, tra l’altro, ha fatto le mura di Vicenza. Ed era anche un formidabile architetto militare. Io sono convinto che era lì per la Rocca d’Anfo».
Terminato il restauro di Sant’Antonio, Seccamani ritorna a Milano con la Brambilla. Simoni, però, che ha avuto modo di apprezzarne le capacità e l’estro, nella primavera del Sessantotto gli chiede di tornare a lavorare con lui. L’abbinata Simoni-Seccamani durerà per un decennio; fino a quando il più giovane, nel 1978, non deciderà di mettersi in proprio. Non ci furono abbandoni, né scontri: Seccamani ereditò, in pratica, lo studio di Battista Simoni e continuò il suo lavoro. Anche perché il sogno di Romeo s’era infranto contro le dure necessità della vita: a Brescia, di sola pittura non si vive. E pensare che aveva anche preso in affitto una mansarda in via Trieste, dove rinchiudersi a dipingere...
Gli affreschi di Sant’Antonio gli avevano attizzato il rovello degli scoprimenti. Le occasioni non mancano: nel 1980 don Pierino di Inzino gli affida l’incarico di restaurare la cappella dei Misteri del Rosario nella Pieve. Vi scopre, un po’ per intuito e un po’ per esperienza, la pittura e un brano di architettura tra le più vecchie della Valtrompia: un’abside del Millecento con resti di pitture romaniche. È stata ripristinata nell’abside la figura centrale di un santo vescovo bresciano dell’alto medioevo e motivi decorativi dell’epoca, di grande gusto.
«In me, ripete costantemente Seccamani, con l’entusiasmo per queste scoperte aumentava la frenesia per nuove ricerche nella speranza di altri rinvenimenti».

Finché venne l’occasione propizia...

«Nell’85 fui chiamato a lavorare in Broletto, ad effettuare dei restauri sopra la sala rossa, che era poi la sala del vicepresidente della Provincia, all’epoca Ugo Pedrali. Dagli studi e dalle ricerche fatte sapevo che, nel Broletto di Brescia, Gentile da Fabriano aveva lasciato uno dei suoi migliori affreschi, paragonabile alla Cappella degli Scrovegni o al Cenacolo di Leonardo. Non mi andava che in tutte le storie dell’arte ci fosse scritto che a Brescia c’era il capolavoro di Gentile da Fabriano, l’opera più costosa di tutto il Quattrocento, e nessuno la sapeva trovare. Un giorno stavo lavorando nell’intercapedine; l’abbiamo messa in luce, anch’essa era tutta dipinta; in quell’occasione io volevo almeno trovare il sito in cui si trovava la cappella affrescata da Gentile da Fabriano. Alla chetichella mi inoltrai nel sottotetto ed individuai alcuni elementi architettonici dell’epoca di Gentile. Mi sono recato in Queriniana a consultare il Catastico di Giovanni da Lezze che riportava la pianta del Broletto. In quella pianta c’è una cappella, ma tutti pensavano che fosse una cappella del Seicento e che non avesse niente da spartire con quella di Gentile da Fabriano. Tornato sul luogo, ho smosso un po’ di mattoni e fui colpito dalla qualità dei lapislazzuli e l’estremità di un’ogiva. Mi sono detto: "Questo è lui!". Che mi diedero la certezza furono la qualità dell’azzurro (il lapislazzulo era la pietra preziosa che macinavano per ottenere il colore azzurro) e certi rossi-bruni tipicamente suoi. Ho tolto altri mattoni ed è uscita la Città Murata con quelle finestrelle inconfondibili. Ero pieno di entusiasmo nel vedere affiorare quell’opera».

Un compenso di 14 mila ducati

Quando venne a Brescia Gentile da Fabriano?

«Lavorò a Brescia dal 1414 al 1419 su incarico di Pandolfo Malatesta; e ricevette il compenso, da nessuno mai avuto nel Quattrocento, di 14 mila ducati. Era talmente magnificata la nostra cappella affrescata che Borso d’Este, duca degli Estensi, inviò a Brescia Cosmè Tura a copiare la cappella di Gentile da Fabriano e la rifece in un palazzo ducale. Anch’essa, purtroppo, è andata distrutta».

In quale considerazione è tenuta l’opera qui a Brescia?

«Innanzitutto bisogna dire che sono dei lacerti; però, secondo me andrebbero maggiormente valorizzati mettendoli a disposizione degli studiosi, a gente del mestiere. Dopo la scoperta, io accompagnai Christiansen, il massimo esperto di Gentile da Fabriano, a visitare i reperti. Rimase stupefatto. In quello stesso periodo avevano scoperto Pisanello a Mantova. Ebbene: Christiansen sosteneva che la scoperta bresciana era molto più importante di quella mantovana, anche perché affreschi di Gentile da Fabriano non ce n’erano, salvo la famosissima Madonna del Duomo di Orvieto che, tuttavia, è anch’essa un frammento. Qui si tratta di affreschi policromi, mentre quelle del Pisanello a Mantova erano solo sinopie. Scrisse poi un’opera su Gentile da Fabriano e mi fece omaggio di una copia. Credo di essere l’unico ad averla a Brescia».
Seccamani ha avuto tra le mani, per restaurarli, i capolavori di tutti i pittori bresciani, dal Foppa al Romanino, al Moretto. Grandi soddisfazioni personali ed artistiche!
Non tutti i giorni la passione di Romeo trova conferma in rinvenimenti eccezionali, anche se la sola attività di restauratore di opere che gli vengono affidate riserva a lui ed ai suoi clienti non poche sorprese. Come sta avvenendo nel palazzo Lechi, dove il restauro delle Quattro Stagioni del Romanino, ridipinte più volte per porre rimedio al deterioramento della volta, sta facendo emergere tutta la forza cromatica e compositiva dell’artista bresciano.
Non è la realizzazione precisa e completa del sogno della sua infanzia; però si avvicina molto.

di Gian Battista Muzzi da Bresciaoggi


«L’arte è immaginazione»

«E’ come la musica: deve toccare le corde dell’uomo» Afferma Romeo Seccamani che il lavoro di restauro gli ha permesso di approfondire e capire che cosa è l’arte.
«L’arte è il fondamento dell’intraprendenza umana. Io penso che l’arte sia nata prima di tutto ed anche prima della ricerca. L’arte è forma e colore, e quelle che chiamiamo forme astratte altro non sono altro che segni primordiali ai quali, successivamente, abbiamo attribuito altre funzioni. Ai segni spesso diamo anche un significato convenzionale ma, in sé, sono astratti».

«Senza la pittura non ci sarebbe neppure la scrittura. Senza l’arte neppure lo sviluppo tecnologico esisterebbe; infatti lo scienziato, se non ha l’immaginazione, non riesce neanche a inventare, a creare. L’arte ha fatto sviluppare l’immaginazione, che è al fondamento di tutto. Quando l’uomo si accorge di lasciare una traccia sul suolo, un segno, si accorge che può comunicare. Da quel momento si sviluppa l’arte, ma anche tutta la cultura dell’uomo».

«Io dipingo informale - continua Seccamani -, ma anche nella pittura tradizionale figurativa, il fattore che distingue un pittore dall’altro non è l’abilità nel fare forme convenzionali, bensì è il fatto astratto. Ispirarsi ad un paesaggio, per esempio, è già convenzionale, ci si rifà ad una forma convenzionale. La pittura che ripete non è pittura. La pittura vera, invece, va al di là di questo convenzionalismo, astrae e crea forme ai colori. Il ruolo fondamentale della pittura è quello di sviluppare l’immaginazione e ritrovare sempre forme diverse per suscitare nelle sensibilità dei fruitori motivi di sviluppo e di meditazione».

Se questo è il ruolo della pittura e dell’arte, allora l’arte è rivoluzionaria, in certo qual modo. «La pittura è come la musica; colore e suono devono scuotere, devono toccare le corde dell’uomo. E quando l’uomo comincia a chiedersi chi sia e perché nasce e tenta di dare delle risposte, allora lavora con l’immaginazione: nasce la religione. Arte e religione sono i capisaldi che fanno crescere con l’uomo la storia e la cultura».

«La scienza nasce e si sviluppa partendo dall’intuizione e dall’immaginazione. Con la mia pittura voglio questo. Quando dipingo non costruisco preventivamente un soggetto; mi metto in attesa e lascio uscire spontaneamente quello che lì, in quel momento, mi scaturisce, e cioè il mio fondamento, la mia coscienza. Io sono partito, fin da quando ero a Milano, mettendo l’uomo e il suo travaglio al centro della mia immaginazione. Dalla figura sono passato a questi segni che sono reminiscenze di figure o sono figure esistenziali, segni dell’esserci. Al di là del convenzionale, cerco di costruire il colore, le forme pure come se fosse l’universo che si evolve oppure la luce che crea le forme. Cerco di dare alla mia pittura non tanto qualcosa di drammatico, ma di inquietante; cerco di meditare sull’esistenza e questa stessa meditazione inquieta. Attraverso la scansione e la sonorità del colore, sono la base della pittura».

g.b.m.


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