La libertà di morire è ciò che di più terrificante possa accadere all'uomo...
Mi chiedo, caro Dru, se il suo articolo non strizzi l'occhio ad un'idea spinoziana della libertà. Ovverosia: la libertà è il dominio della possibilità; la possibilità è il luogo della contraddizione (se è libertà, come lei giustamente nota, è libertà di a e -a: ossia libertà dell'altro da sé); la contraddizione è l'assurdo. Dunque, la libertà è l'assurdo. Posizione pur perdente nel cristianesimo 'ufficiale', ma certo non assente - si pensi a Tertulliano ("credo quia absurdum") o, più recentemente, a Kierkegaard.
parlo della libertà greca, ontologica, che è la libertà di Spinoza, che è la libertà della metafisica, anzi, della libertà su cui ogni metafisica ha prodotto una sua teoria. L'hai acutamente definita. Non è affatto assente nel cristianesimo, è talmente presente che esso nasce sulla stessa configurazione ontologica.
la questione mi affascina molto e vorrei un tuo (vostro, se qualcun'altro è interessato) parere... La libertà in fondo essendo il presupposto di ogni morale, come si concilia con la sua negazione la pur innegabile istanza di giustizia/equità/uguaglianza ecc..? In fondo, anche le istanze progressiste non sono altro che una forma della volontà di potenza, tanto per Nietzsche che per Severino (per il quale, se non vado errato, l'etica è violenza)...e Parmenide (e i presocratici, pure) non hanno maturato una 'filosofia morale'...
il tema che mi poni non mi sconquassa. La. Morale è un pretesto epistemico, anzi è il pretesto per eccellenza, vi è violenza solo se la contraddizione persiste e la contraddizione epistemica persiste, oltrepassarla è di un progresso che la scioglie, vedendola per quello che è, volontà che le cose stiano ad una certa maniera. Quando è la volontà a volere, quel volere non ha contenuto, il suo contenuto è inesistente. Per un certo verso, per il verso che l'episteme ha di volere, l'epistemico non differisce di nulla dalla libertà. Così come la teoria, le leggi, la morale "vogliono" un mondo, dall'altra, la libertà lo "vuole" liberare. Sono dunque due forme diverse della stessa realtà, la volontà. Ora, sul piano dell'intenzione presupposto di ogni omicidio. Se l'intenzione è volontà di annientamento, allora il suo realizzarsi è una contraddizione
L'annientamento non esiste, o esiste solo come presupposto storico. Voler annientare è quindi volere l'impossibile, e l'impossibile è sempre il contenuto di una contraddizione all'interno della volontà di potenza. Ma la volontà vuole comunque e ovunque, altrimenti nom vivrebbe. vivere significa non voler morire, significa riuscire a realizzare la volontà, significa ottenere ciò che la volontà vuole ottenere, ma tra l'ottenere e ciò che la volontà vuole ottenere c'è separazione infinita, questa è la necessità o definizione di volontà. Voglio proprio perché non ottengo, se ottenessi, quale significato di volontà sussisterebbe? La morale è volontà del vincitore che da violenza vuole esser potenza, la violenza del vinto si fa volontà e morale se diventa vincente.
non mi sconquassa perché io, l'esser io, non si realizza se non come contenuto della volontà di potenza.
libertà implica volontà. L'uomo non può uscire dalla volontà: anche la decisione di non volere sarebbe un volere. Ecco allora che l'azione dell'uomo assume sempre un aspetto etico, perché il suo scegliere, implicando un termine rispetto al quale tale scegliere si esplica, si determina in un campo piuttosto che nel suo opposto. I campi in cui cade l'effetto della scelta sono infatti determinati dal valore secondo il quale si modula la scelta. La volonta quindi genera ambiti epistemici e non può far a meno di genrarli. Quanto sopra non significa certo che la volontà, ossia la libertà, possa ottenere quello che intende ottenere. Non significa che la libertà possa essere veramente quello che intende essere. L'uomo vive nella fede che esista la libertà e non potrebbe essere altrimenti.
episteme sifnifica stare sopra e in specifico, per ciò che concerne metafisica, significa stare sopra fisica, cioè ciò che sta sopra ciò che non sta, lo stare del divenire: ogni teoria ha questa presunzione, ogni teoria è episteme...
sono tutte volontà, se non appaiono, e in quanto non appaiono. Come può esserci giustizia sul presupposto di un essere che non è, la giustizia dell'essere è di essere, l'ingiustizia è il suo non essere. Ora, se supponiamo di giustificare come essere giusto ciò che non è giusto, meglio di giustificare giustizia dell'essere il suo non essere, produciamo la seguente aporia: che l'essere non può essere e che solo la volontà vuole che sia, in quanto che l'essere giusto sia non è , questo è il suo non apparire. Sul presupposto della libertà l'essere giusto è in qualche modo ingiusto, nel modo in cui liberamente esso si esprime appunto, e l'intenzione appunto non è che una volontà di ciò che in verità non appare. Così per il resto di ciò che vorremo che appaia...
la contraddizione si risolve nella sua verità, se appare la contraddizione là appare la sua verità, o risultato della contraddizione. La contraddizione come puro non può apparire. Se dico che un tavolo è una sedia, se uccido un uomo, la sedia non appare come un tavolo e l'uomo non appare come ucciso, solo se la sedia non è un tavole e l'uomo non è ucciso. Ma se la sedia è un tavolo, cioè sedia e tavolo sono sinonimi di una stessa cosa, e l'uomo è mortale, cioè la sua natura è di morire, allora non dico una contraddizione, cioè non sono ingiusto, anzi...
perché vogliamo uccidere ogni istante, perché l'istante é il presupposto di ogni morire.
significa che quel volere di quell'uomo, gruppo, società, mondo, così non appare, cioè non appare "così", ma appare per volere, appare e non appare, per come è il volere appunto, e se appare, e dunque appare come scopo della volontà, e non appare,, e dunque appare come scopo della volontà, perché lo scopo della volontà non è la volontà, si che la volontà non può mai raggiungerlo, allora il volere l'essere è dell'essere sua contraddizione (vedere id59358)
Tutto vero, tutto molto vero. E in effetti la Repubblica platonica si presuppone fondata sulla giustizia - una delle maschere, come sopra mirabilmente espresso, della volontà di potenza. Lo stesso dicasi di qualunque costruzione politica di qualsivoglia filosofia infettata dal nichilismo. Eppure... Il filosofo non nichilista che idea ha del consorzio umano? Certo, al potere non potrà andare, giacché il potere è nichilista... Che deve (deve poi?) fare un filosofo non nichilista? Giacchè insegnare che le cose stanno in altro modo, questo è nichilismo... E allora?
Sì tratta di comprendere che questa è la vera violenza, cioè la violenza è il fare.
Mi dico ancora d'accordo ma mi chiedo anche: il dire (sia pure il dire la verit) non anche esso un fare? E se il pensiero rigetta - a ragione - il fare, esso non perfettamente (telestaton) inutile, l'utile (mezzo-fine, ma anche virt e dunque morale) essendo appunto la categoria suprema del fare?
Spero si capisca anche con gli errori...stavolta l'ipad tradisce me!
è una tipica figura nichilista...
Il dire come il mio dire della verità è, della verità, parte, e la parte del tutto, se vuole essere il tutto, è del tutto l'astratto del concetto (la parte) astratto, ma a questo punto per non cadere nello scetticismo mi dico, non è perché dubitiamo della verità che la possiamo ricercare (è della ricerca l'intimo significato proprio del dire) e così mai trovare, ma è perché siamo già da sempre nella verità che allora possiamo mettere tutto, del ciò che non gli è originariamente compreso, in discussione (è del linguaggio l'intimo significato proprio della discussione)
Noi diciamo di qualcosa, cioè ricerchiamo il nesso tra il dire e la cosa detta. Noi mettiamo in discussione ciò che diciamo, proprio perché così è della forma del linguaggio che cerca di identificare i diversi e di diversificare gli identici.
ID59378 - 19/07/2015 22:10:33 (Dru) Noi diciamo di qualcosa, cioè ricerchiamo il nesso tra il dire e la cosa detta. Noi mettiamo in discussione ciò che diciamo, proprio perché così è della forma del linguaggio che cerca (dice) di identificare i diversi e di diversificare gli identici.
l'utilità è sempre per me o per noi, non è simpliciter, tipica categoria nichilista appunto...
sentire cosa ne pensi tu, Gabriel, della morale e cosa significa per te filosofia, secondo la tua esperienza di vita e di studio.
Caro Dru, per quanto mi riguarda non esito a leggere nella morale una delle maschere della volontà di potenza. Ma mi chiedo anche se la conoscenza (e non v'è conoscenza che non sia conoscenza della Verità - ove s'intenda il genitivo tanto come oggettivo quanto come soggettivo) non sia anch'essa volontà di potenza. Detto in altri termini: può un albero malato dare buoni frutti? Mala malus mala mala dat. Del resto trovo interessante il suggerimento di Leretico, per il quale uscire dalla volontà sarebbe una contraddictio in adjecto. Mi chiedo quanto valgano (beninteso, non lo dico per sminuire, ma per quell'attitudine al pensiero totale che fa si che nel 'Parmenide' Platone s'interroghi sull'idea dei peli della barba) - dico, mi chiedo solo quanto valgano le nostre osservazioni sull'intrinseca contraddittorietà del fare (e quindi della morale) quando malati pigliamo un'aspirina, o quando alle otto (chi più chi meno!) timbriamo,
Per quanto riguarda la filosofia, non saprei che risponderti...l'aver cura di ciò che è in chiaro, certamente...ma ciò che è in chiaro è in chiaro per la luce - e questa ha duplice natura ahimè...
dico, mi chiedo solo quanto valgano le nostre osservazioni sull'intrinseca contraddittorietà del fare (e quindi della morale) quando malati pigliamo un'aspirina, o quando alle otto (chi più chi meno!) timbriamo, volenti o nolenti, il cartellino...
la conoscenza che non è verità è contraddizione, ma, come dico qui ripetutamente, come incoscienza. Se io ho presente che la sedia è la porta, questa mia conoscenza non nega la verità, la verità sarebbe negata se ho presente la loro differenza e la nego. È la presenza, o come abitualmente si dice della esperienza, l'apparire di questa sedia che non è questa porta che sostiene l'identità tra conoscenza e verità si che la sua negazione è volontà. Per questo lo stesso è essere e pensare. Noi, per non dubitare, questo significa l'apparire del destino della necessità, non dobbiamo chiedere alla conoscenza se è la verità, ma se la conoscenza non lo sia, cioè dobbiamo chiederci come possa realizzarsi la negazione della determinazione che significa identità della relazione, in questo specifico caso della conoscenza e della verità.
in quella tesi, infatti, si ribalta il quesito sulla fondazione, perché è propriamente del quesito della fondazione, che pone come irriducibile ogni tipo di fondazionismo, l'errore. È la domanda che produce l'aporia, della fondazione non si domanda, domandarla la rimanda ad altro, si che la fondazione non è fondazione, si che la fondazione va fondata. Ma è dell'intelletto astratto questo sdoppiamento, e la conoscenza non può essere concepita che come altro dalla scienza e altro dalla verità, si che non è possibile alcuna identità, ma solo identificazione. L'identificazione tra certezza (conoscenza) e verità (realtà) è così compromessa ad infinitum, la loro identità come relazione dei diversi termini è per sempre compromessa, serve una forza, la forza della ragione, per identificarli, ma questa identificazione è negazione della verità, ciò che non è non
può mai più essere e mai più sarà od era. Se la relazione tra conoscenza e verità non è ab origine, nessuna forza la potrà mai mettere assieme, questa è la lezione magistrale di Emanuele Severino.
al discorso sopra non importa nulla sul lato dell'essere, importa sul lato del dover essere. Noi dobbiamo essere vivi, noi dobbiamo essere bravi, noi dobbiamo essere belli, noi dobbiamo essere l'essere, queste sono tutte forme del nichilismo. Forme belle e forme brutte, il nichilismo che va conosciuto è già una forma della soluzione, dell'oltrepassare la volontà di potenza, si tratta di capire che questa forma, come tutte le forme, va concretandosi all'infinito, ma tra il saperlo e l'ignorarlo, in questo si distingue la vera morale da quella finta, in questo l'uomo non si impone, in questo l'uomo si dispone alla vera conoscenza.
se vuole identificare i diversi e diversificare gli identici, se vuole dire (cerca) di unire gli irrimediabilmente separati, conoscenza e verità. L'irrimediabilità è data dal suo intelletto astratto che pone fuori (isolamento dal suo essere) del fondamento il fondamento e pone fuori (isolamento dal suo essere) del fondato il fondato, astratto del concetto astratto.
se concepisce che è operazione dell'intelletto astratto la separazione dell'essere dal suo essere, si che la verità è l'originaria identità della relazione dell'essere con sé stesso.
lo è grazie a noi. Questa è la grazia sull'uomo. La presenza dell'essere in noi non è una invenzione, già questo concepisce Cartesio. questa è la vera testimonianza della verità.
allora la negazione si oppone al proprio negativo, cioè si tien ferma in quel significare per cui essa è negazione, e differenzia questo significare da ogni altro significare [...]. Negando che l’essere non sia non essere, si deve dunque pensare che l’essere, in cui consiste questa negazione non è non essere» Inoltre, la struttura da noi indicata durante l’analisi del Libro IV, basata sulla distinzione tra il puro locutorio e l’illocutorio, è confermata dall’analisi severiniana, per cui «quella negazione è esplicita, in actu signato, questo pensiero è implicito, in actu exercito: ma è un pensiero realmente pensato, un pensiero che si deve realizzare, se si vuole conferire alla negazione quel significato determinato di negazione che le compete»
dell’élenchos. la prima di queste due figure ha per protagonista il determinato, la seconda, invece, l’opposizione; entrambe, infine, sono composte da due asserti.La prima figura (a) è composta dal seguente organismo apofantico: «la negazione del determinato è un determinato e quindi è negazione di quel determinato che è la negazione stessa»208. Questo organismo, poi, si compone di due asserti:1a) la negazione del determinato è un determinato;2a) la negazione del determinato è negazione di sé.Il primo asserto della prima figura, consiste nel rilievo che «la negazione non sarebbe sé medesima senza il suo essere una positività determinata»; cioè un dire ontico il quale, al pari di ogni altro essere, «è identico ed opposto al suo negativo»209. Con questa mossa, insomma, si rileva che la determinatezza/opposizione è fondamento della negazione della
determinatezza, nel senso che è ciò senza di cui la negazione non si costituirebbe. Non solo, dunque, si rileva che la negazione del PDNC ne implica l’affermazione, ma si rileva anche che l’opposizione è fondamento della sua negazione: si rileva, cioè, che senza affermare l’opposizione, senza affermarla come fondamento della negazione dell’opposizione, la stessa negazione non si costituirebbe.Il secondo asserto..[] lo lascio leggere a voi continuando dalla pag.99 di quella tesi
Ma, senza offesa e con il massimo di rispetto possibile, non vi siete mai chiesti se tutte queste non siano altro che parole vuote.. parole parole parole come cantavano Mina e Alberto Lupo.. non credete che tutto questo discutere vi allontani pericolosamente dalla realtà?
Il processo elenctico, o di confutazione del principio come asserto scettico, sostiene la principialità del principio di non contraddizione e il principio è il pensare, il pensare non può contraddirsi, cioè il pensiero non può contraddirsi significa che il suo contraddirsi è come negazione la sua autonegazione o negazione della negazione, la sua contraddizione, che sopra è la separazione tra conoscenza e verità, può essere solo un processo di negazione che però, servendosi e appoggiandosi inevitabilmente al principio, lo conferma e afferma si che azione può costituirsi solo grazie ad esso, per quel tanto che non si autonega. Questo stesso processo è ciò che distingue l'intelletto astratto dalla ragione, se l'intelletto astratto pensa il pensato come altro dal pensiero che lo pensa, la ragione, come un acquietarsi in sé, ne assume l'identità originaria. Infatti come sarebbe
Altrimenti possibile e pensabile una verità che non è verità del pensiero?
pensare che queste siano parole vuote è compito ancora del pensare che ad infinitum risolve la contraddizione originaria in cui la verità è contesa dalla volontà.
Scusa Dru ma non capisco i termini della tua risposta... puoi 'parafrasarli'e spiegarli per un 'non addetto ai lavori'? Grazie
le parole che ha scritto lei, anche se sono sotto forma di quesito, le pensa vuote o piene di significato? Perché se le pensasse davvero vuote a che pro scriverle? Poteva infatti starsene quieto. Ecco che se ci pensa un attimo, pensa oltre al suo pensare quotidiano, comprende la potenza del primo principio o principio di non contraddizione.
anche quello delle parole, che appunto si svuotano di ogni significato. Questo trattarle come oggi la scienza tratta gli uomini, come polvere di stelle, non è altro che un processo che parte da molto lontano, ancora in Grecia. Lo scetticismo è il fondamento della filosofia, non la sua negazione. Le parole vuote non esistono, siamo noi a volerle svuotare o riempire per imposizione.
non è una parola?
E a questa parola non siamo noi che più o meno riempiamo il suo significato? Allora allontanarsi dalla realtà che significato può avere? Quanto siamo in realtà lontani dalla realtà quando questa è tenuta separata dal pensiero? Quando crediamo di poterla pensare indipendente dal pensiero, altra, noi della realtà pensiamo allora il niente, pensiamo appunto alla realtà "vuota di ogni significato", perché il significato, il suo essere, è il suo esser pensato, separata dal pensiero la realtà è non realtà, o realtà "vuota" appunto.
Caro Dru ma se io dicessi 'l'asino vola' stenterei a credere che io stia asserendo la realtà.. mi pare che il filosofo parta col precostituito intento di lucrare sul fatto che il linguaggio sia di fatto oggettivo per quanto concerne il significante, ma altresì soggettivo (conseguentemente vincolato ad una finalità pratica e personale del referente, non più sottoponibile alla sentenza della verità, posta la sua esistenza); si può certo affermare che l'asino voli, ma non si può certo dire che ciò sia vero o reale
che tu dica che l'asino vola per stentare nella verità, ti esorto a stentare anche quando dicessi che dici la verità. la verità è impossibile da dire, ogni dire non la può contenere tutta, è il dire, invece, parte del suo contenuto. Ora, dire che l'asino vola può essere contenuto della verità se l'asino che vola appare, è presente nella coscienza, e infatti appare e come prodotto della fantasia è parte della verità, anche la fantasia esiste, anche il nulla esiste, ma è in quanto il dire dice che l'asino vola, questa è una parte della verità, è invece contraddizione quando vuole dire che gli asini che non volano volano, dunque è il suo contenuto che non può esistere.
c'era una volta un pesce tropicale di nome Dru che nuotava solitario nel suo acquario. Un giorno furono immessi in quell'acquario alcuni pesci a lui simili e la festa iniziò. Non so come ho fatto a finirci anch'io in quell'acquario e di che nuotare io sia capace, ma tant'è ormai ci sono e quindi ivi nuoto. l gioia è del trovare vicini alcuni dei propri simili. Chissà quando ci accorgeremo di essere chiusi dentro le pareti dell'acquario cosa mai potrà accadere.
L'impossibilità però o impensabile, deve possedere una radicalità ben più "forte" di quella proposizione detta che in realtà contraddice l'attualità, che attualmente è contraddittoria, ma progettualmente non lo è, magari uno scienziato bizzarro prima o poi mette le ali ad un asino e quando siamo oggi convinti di non dire del dire di quella proposizione, si avvera. l'impensabile esige qualche cosa di più radicale, esige appunto l'identità di pensiero e essere, si che ogni contraddizione è immediatamente autocontraddittoria.
dire che quell'asino vola è dire l'impossibile, a meno che qualcuno abbia già visto quanto prodotto dal bioingegnere. mentre dire che gli asini volano , può essere che sia un problema, cioè può essere che non sia né falso né vero, e quindi non mi accingerei a deridere chi lo dica.
caro darwin lei chiede della verità come tutti gli uomini fanno da millenni. Lei parla delle parole vuote e sottintende che ce ne siano di piene. Mi indichi allora quali sono piene e io le dimostrerò che anch'esse sono vuote. Le parole non possono dire la verità se le si presuppone alla verità. Si deve invece presupporre la verità alle parole se si vogliono cogliere le tracce di quella in codeste.
ciao Leretico, ma se siamo in un acquario e siamo pesci è d'uopo che ivi siamo rinchiusi, a che cercare di saperlo? saperlo, come lo scoprirlo, giacché siamo pesci e diciamo di essere in un aquario, è contraddittorio, un poco come Darwin che dice che ci allontaniamo dalla realtà. la realtà di esser pesci in un acquario è appunto di esservi rinchiusi. :-)
plaudo
Il linguaggio è allora incompleto, non è pregno di verità come può esserlo invece la ragione? Le parole non contengono verità o la verità non si può manifestarsi mediante il linguaggio? L'oggettività è il comune proveniente da diverse coscienze e conseguentemente dichiarato come oggettivo? Il comune è il sostrato della verità o è una manifestazione accidentale della sua esistenza? La verità si stringe nell'essere è ed il non essere non è perchè qualsiasi altra cosa una persona possa dire questa potrà essere contraddetta? Temo che stiamo diventando i sofisti del ventunesimo secolo
cosa dobbiamo fare si chiedeva Lenin. E scrive centinaia di pagina per rispondere non riuscendovi. Ma non poteva riuscirci perché ignorava come stavano le cose, ossia quale fosse la verità. Ogni fare è una fede nelle poter cambiare l'oggetto a cui si rivolge l'azione del fare appunto. Ma l'oggetto dopo la nostra azione cambia veramente? e l'oggetto che c'era prima della nostra azione dov'è andato a finire? Domande peregrine e inutili secondo darwin, ma non per me. Se l'oggetto che c'era prima dell'azione del mio fare è andato nel nulla allora rimango basito perché qualsiasi essere non può non essere, né prima né mai. E allora come la mettiamo per non contraddirci? Va be' signor darwin si contraddicono in molti, uno in più non fa differenza. Ma se solo lei ci pensa, ossia lascia campo al pensiero, vedrà che è impossibile per la sua mente pensare un essere che non sia. Alla luce di questo quanto cambia
il sofismo, che poi è lo scetticismo, di cui la scienza moderna principia le sue tesi, è l'illuminismo di Kant. Benvenga il criticismo e il positivismo, benvenga ogni forma di verità , ma che tutte queste forme si distinguano, il loro distinguersi, il distinguersi è proprio (è riconosciuto) della verità. Se non fosse della verità allora il distinguersi non si distinguerebbe, sarebbe e non sarebbe il distinto. Che dice del distinguersi è proprio il principio di identità nella sua forma logica e l'apparire delle differenze in quella fenomenologica.
La risposta alla domanda iniziale? Cosa dobbiamo fare? Rispondo come posso: non possiamo uscire dalla logica del volere, altrimenti non potremmo nemmeno vivere, ma smettiamo di credere che con la volontà si arrivi alla verità. Abbiamo l'umiltà di smettere di indicare la nostra verità, perché tale indicazione è volontà che le cose stiano in un certo modo piuttosto che in un altro. Tale volontà non è migliore di qualsiasi altra volontà. La nostra verità non è la Verità.
il sofista era disprezzato perché con le parole diceva tutto e il contrario di tutto. Socrate certamente fu il primo a malvolerli. Oggi si dà del sofista a chi si vuole accusare di fare del fumo per confondere le idee piuttosto che chiarirle. Non vorrei che poi Darwin volesse nascondere ben più poderosa critica in codesta parolina "sofista" che leggiadramente ha calato dall'alto per fare poi di tutta l'erba un fascio, e bruciare l'erba con tutta la fattoria. Signor Darwin vuole forse scherzare col fuoco?
Signori io vi ringrazio molto della chiacchierata, spero ci ritroveremo su queste pagine, perdonate la mia volontà se vuole il letto ora ma domani mattina sono di prima e l'ora è tarda. Solo una domanda vorrei porvi: ho letto molti vostri articoli dedicati all'attualità, dunque alla storia. Ma la storia non sarebbe quanto diveniente contraddittoria? Alla perchè ne scrivete? Buonanotte, a presto, D.
Nono, caro Leretico, non sono così sottile (a cosa allude poi?); la cosa è molto più semplice: lo spazio vitale dell'acquario è limitato, il polemos, lo strugle of life, l'igiene del mondo è qui: è arrivato il pirana!!!! Notte ancora, D.
Signori, ma che succede? Vi lascio soli un istante e si scatena l'inferno! Che hegelianamente si sia generata la nostra nemesi? Troppa carne al fuoco per commentarla in un post notturno... Ma la difesa d'ufficio della filosofia contro l'attacco della scienza 'concreta' è stata svolta, i miei due (posso?) "colleghi" le hanno fatto onore!
Meravigliosa l'immagine dell'acquario, complimenti.
per vivere
Chapeau.
Darwin, come lei sa gli eretici hanno paura del fuoco, e ogni volta che sentono l'odor di fumo pensano al fuoco: deformazione. L'allusione è diretta al pensiero, fatto da millenni, che il male del sofista stia nella sua negazione di una verità epistemica superiore, di un Dio che permette al saggio di distinguere il bene dal male, il giusto dall'errore. In nome di quel Dio sono morti in tanti bruciati come eretici, e io sento puzza di bruciato dove forse c'è solo paglia secca. Quando poi vedo che della paglia se ne fa mucchio sotto un accrocchio che può sembrare un patibolo mi allarmo. Va da sé che so riconoscere i "fuochi di paglia".
amici, che il sonno vi porti consiglio.
Il ruolo del sofista è quello del filosofo, il ruolo del filosofo è quello del sofista! Ossia: in Atene eretico era il filosofo, a Parigi il sofista... La...potenza dell'errare?
Forse per sopravvivere caro Dru il mito è il mezzo illusorio che ci permette di combattere l'angoscia e, sebbene si fondi su una verita perentoria e fasulla, mi pare che in questo acquario qui ne siamo tutti drogati..
non è tanto il mito che mi preoccupa, ma ciò che puoi credere come il suo negativo. Quando parli di "angoscia" dovresti definirla e una volta definita potresti accorgerti che ogni arma del pensiero più potente, che oggi pretende sorridere del mito, e oggi l'arma più potente è la tecnica supportata dalla scienza, è un mito. In parole povere, sembra, da quanto dici, che stiamo parlando a vanvera qui, mentre l'aspirina ci toglie il mal di denti. Certo l'angoscia che accompagna il dolore è specifica del mal di denti, ma guarire il mal di denti è una forma particolare della forma universale dell'angoscia. L'angoscia è prodotta dalla distruzione, qualsiasi distruzione, e la tecnica, l'aspirina, ci consente di proporre una soluzione, il modo per salvarci dall'imprevedibilità costituita dallo stato continuo di mal di denti, senza saremmo felici e questo stato di infelicità ci piomba nell'angoscia
fa cadere lo stato di felicità in uno stato di infelicità, la felicità è distrutta.. Ma dicevo, la felicità e l'infelicità non è mai simpliciter, ma secundum. Per un cannibale mangiare un uomo è l'apice della felicità, mentre per lei Darwin, credo, sarebbe molto infelice nel vedersi servito un quarto di uomo capelli compresi. Questo mi serve per mostrarle quanto il mito, radicalmente discusso, è altro dall'esser scomparso sulla terra. La scienza crede di risolvere il problemi e le angosce, mentre i problemi e le angosce aumentano vertiginosamente, perché? Perché la scienza è mito che produce speranze su un abisso senza fondo. Certo, come dice lei al tempo del mito concepivano la distruzione come trasformazione o metamorfosi, mentre nel tempo della scienza questo riesistere del distrutto non è concepibile, il distrutto si annienta.
si teme la propria distruzione, perché si crede che il mondo cambi: la distruzione sopraggiunge con i cambiamenti del mondo. Da un lato si teme la distruzione, dall'altro lato l'imprevedibilità dei mutamenti, cioè l'imprevedibilità degli eventi che portano alla distruzione. Nulla è più imprevedibile di ciò che irrompe provenendo dal proprio niente.Nella civiltà occidentale, il carattere estremo dell'angoscia proviene dal carattere estremo della distruzione- e della creazione. Fino che la distruzione non è pensata come annientamento, le cose distrutte possono ritornare. E infatti, prima e al di fuori del pensiero greco, la nascita e la morte dell'uomo hanno un carattere ciclico. Ma ciò che diventa niente è distrutto in modo definitivo, non può più ritornare.
ma è nella stessa tragedia attica, [..] che si pensa che esista un "rimedio" per l'angoscia suscitata dal "divenire" del mondo [..] per la prima volta i Greci pensano la verità come manifestazione incontrovertibile del Senso della totalità dell'essere. Ciò che si mostra nella verità è l'essenza del Tutto, e quindi è anche l'essenza del più lontano futuro; e la contemplazione dell'essenza è la previsione essenziale di ogni possibile cambiamento del mondo, e del più lontano futuro.[..] Il senso della totalità dell'essere (ndr. mondo,realtà) che si manifesta nella verità è espresso dal principio che la suprema e immutabile potenza di Dio domina il divenire del mondo (ndr.epistastai, episteme).Dio è l'essenza dell'essere, è la totalità di ciò che vi è di essenziale nell'essere. L'essenza dell'uomo è sempre salva nell'eternità di Dio.
L'angoscia dell'occidente è estrema perché si riferisce alla distruttività estrema dell'evento annientante, la cui imprevedibilità è estrema perché irrompe provenendo dal niente. La verità è la prima grande forma di rimedio che l'Occidente prepara per la propria angoscia. La verità libera dall'angoscia perché prevede incontrovertibilmente l'essenza di ogni cambiamento e perché il futuro anticipato e previsto è la potenza divina che domina il divenire del mondo. Ma la previsione teologico-epistemica prevede l'essenza degli eventi, e non quel che in essi vi è di accidentale. Rispetto all'immediatezza della vita, il cosiddetto accidentale è l'essenziale e il sostanziale, è ciò che più conta; ma proprio perchè viene pensato come l'accidentale, rispetto all'essenza ultraterrena, esso rimane assolutamente imprevedibile e l'angoscia rimane e non viene guarita.
La potenza è la salvezza dal niente, cioè il dominio delle forze che strappano le cose al niente (e ve le risospingono).[..] Si può voler vivere e dominare solo se si ha fede nell'esistenza del dominabile. Se si fosse convinti che non esiste alcun dominabile, la volontà di dominare e di vivere apparirebbe un assurdo. Il dominabile è disponibile alle forze che vogliono modificare il suo stato: il dominabile è divenire delle cose.Ci può essere volontà di potenza solo se si crede che le cose mutano, nascono, muoiono, incominciano e finiscono, si alterano, si diversificano, si corrompono, scorrono, divengono. la fede nell'esistenza del divenire è la forma originaria della volontà di potenza.
Io direi piuttosto che l'angoscia la nostra droga...e l'acquario il nostro rimedio...
In pratica se il mondo si potesse leggere secondo un mutare deterministico, che è il compito principe della scienza, l'angoscia si ridurrebbe ai due tratti fondamentali dell'esistenza: la vita e la morte. Il dilemma è che la vita proviene dal nulla e la morte porta al nulla. Perciò, sempre che te, caro Dru, voglia rispondermi, posso chiederti se credi nell'esistenza di dio? E se la ragione non riuscisse a supportare la sia esistenza, si può almeno asserire che, se esiste, non si può comprenderlo perchè trascende l'intelletto umano? Grazie
ogni cosa è come Dio nell'esistenza e ogni cosa non è come Dio nella sua essenza. Se Dio è quell'ente (quella cosa) che, diversamente dagli altri enti (altre cose), è esiste eternamente, allora anche ogni altra cosa è e, essendo, è come "colui che sono". L'essere, ogni essere non può non essere, se un essente fosse non essente significherebbe che gli opposti sono l'identico, mentre l'identità degli opposti è il loro esser opposti. Gli opposti come identico è, come dicevo sopra, volontà di potenza, è volere che una cosa divenga altro da se. Quindi, certo che cedo in Dio, Dio sono io. Quando non credo in Dio, quando si guarda all'essenza. Se Dio è il creatore, allora tutto ciò che crea, come noi, è nulla, ma se è Dio a creare dal nulla, Dio gli persiste anticipando ogni sua dimensione e la sua creatura è contraddittoria all'esistenza sopraddetta. No all'essenza del Dio
cristiano non credo, siamo tutti eterni, siamo tutti re che si credono mendicanti.
è il massimamente assurdo è la contraddizione del pensiero occidentale o alienazione dell'essere.
era un po che non si leggevano.complimenti a tutti. senza offesa per nessuno..ma leretico è un grande nell'individuare..nel vedere..nel naso fino ..hi
Anche nella tradizione ebraico-cristiana (come in ogni forma della cultura occidentale) l'essere è volontà o oggetto della volontà: volontà creatrice di Dio che dà l'essere a tutte le creature; volontà dell'uomo. È vero che Dio, in quanto immutabile, vuole se stesso eternamente e dunque non vuole diventare diverso da sé; ma in quanto Dio crea "liberamente" il mondo, Dio è (da sempre) diverso da ciò che sarebbe potuto essere (in quanto è creatore, è (da sempre) diverso da quel non esser creatore che egli sarebbe potuto essere) e dunque si è voluto da sempre diverso da sé, è diventato da sempre altro da sé. Se questo "sé", da cui Dio è già da sempre diverso, non avesse potuto essere e fosse quindi un nulla destinato a rimanere tale, Dio non sarebbe liberamente, ma necessariamente creatore.
La fede nell'esistenza del divenire (inteso come diventare nulla da parte dell'essere e essere da parte del nulla) è la radice dell'Occidente, che dunque è il culmine della fede; si che è fede tutto ciò che si manifesta procedendo da questa radice. Ma è volontà, cioè violenza, non solo il contenuto della fede cristiana (e di ogni fede dell'Occidente), la "fides quae creditur", ma la fede stessa in quanto essa è fede, "fides qua creditur" ( e quindi non solo l'essere fede della fede cristiana, ma di ogni fede). La fede cristiana penetra profondamente nella propria essenza e dunque nell'essenza della fede in quanto tale. Essa dice di essere " l'argomento delle cose che non appaiono" (argumentum non apparentium). La fede è l'"argomento" perché è la "volontà" di considerare esistenti le cose che non appaiono, enunciate dalla Rivelazione. (Cfr. Tommaso d'Aquino, Quaestiones disputate, XIV, De fide, ar.1,
resp.). Questa "volontà" è l'"argomento" in base al quale la fede afferma l'esistenza di ciò che non appare nell'esperienza e nella ragione umana naturale. Tale affermazione è "adesione" (adhaesio)"certissima", "fermissima" e priva di dubbi (loc.cit.). Ma questi caratteri dell'adesione al contenuto della fede sono quelli che competono alla conoscenza di ciò che appare, ossia di ciò che è visibile ed evidente ( gli apparentia, le cose che appaiono, avendo, nell'interpretazione patristico-scolastica, il senso forte di "cose evidenti", cioè visibili agli occhi della "scientia" , cioè dell'episteme). La fede non ritiene di vedere gli invisibili, non ritiene che le cose che non appaiono le appaiano; e tuttavia attribuisce alla conoscenza delle cose che non appaiono i caratteri essenziali ( certezza, fermezza, assenza del dubbio) della conoscenza delle cose che appaiono:
attribuisce a ciò che non appare, all'invisibile, al non evidente e all'oscuro i caratteri di ciò che appare, del visibile, dell'evidente, del chiaro. (Passaggio fondamentale questo..)> Pur non pretendendo di vedere le cose che stanno nell'oscurità, attribuisce loro i tratti della luce, pone come luce le tenebre, pone la luce come altro da sé, identifica la luce e la negazione della luce. Ma l'identificazione dei diversi è l'impossibile.
Comunque si configuri il suo contenuto, anche la fede in quanto (aver) fede (fides qua creditur) è dunque volontà che vuole l'impossibile. Vuole infatti il prodursi della certezza senza dubbi intorno alle cose invisibili. Anche la fede in quanto tale è dunque violenza.
Anche l'episteme è violenza, ma non in quanto tale (scientia qua scitur), ma in quanto essa intende adeguare alla propria incontrovertibilità il divenire del mondo, cioè in quanto intende guidare e determinare il divenire che essa, in quanto scienzia quae scitur, intende porre e coordinare incontrovertibilmente all'immutabile.
quale immagine ha di Dio?
Cari tutti (e caro Dru in particolare, Dru essendo l'autore dell'articolo) ho letto con attenzione la discussione, veramente appassionante. Il passo indietro (che poi è un passo avanti, nel senso che il tema non è alieno al punto cui si è giunti) è questo: il rapporto tra Cristo e Paolo è oggetto de 'l'Anticristo' di Nietzsche, libro per vari motivi sorprendente. Riassumo grezzamente la tesi di fondo: Cristo era un mistico, un folle, la sua esperienza 'pura interiorità' e per questo, tra l'altro, non scrisse mai nulla. La sua era natura assolutamente non-nichilista. Paolo invece, che nichilista era, inventò il Cristianesimo, snaturandone l'origine positiva e trasformandolo nella ben nota 'morale del gregge'... Che ne pensate?
assolutamente d'accordo, in sostanza Nietzsche accusa Paolo di eternizzare un'esperienza di vita che come eterna è nulla, non esiste, mentre come vita è l'esser vita di Cristo. Ma Nietzsche, purtroppo o per fortuna, non si toglie dal nichilismo con quest'operazione, con quest'operazione nega l'episteme di Paolo, che a sua volta, nicianamente, nega l'episteme dei Galati. Per negare davvero il nichilismo, è della vita, come posta sulla morte, che va negata l'esistenza nichilista.
dove per Nietzsche sta il nichilismo di cristo rappresentato dai postoli, che appunto non è Cristo, questo il nichilismo, il nichilismo di Nietzsche sta nel pensare che alla base della vita ci sia la morte, questa la sua violenza dell'essere.
da quando Leretico mi ha sistemato l'Ipad faccio più sviste di prima... Il cristo sopra è Cristo e gli postoli è gli apostoli...
è l'esser nulla. Nietzsche dice bene del nichilismo di Paolo, cioè dice che il suo racconto, il racconto che Paolo fa di Cristo, non è Cristo, esperienza irripetibile e irriducibile ad un racconto, si che questo è il nulla di quello. Mi son fatto capire? Dove sta la violenza del passato per Nietzsche, ma nella pretesa immutabilità del senso veritativo della vita, di ogni vita, è qui che Nietzsche, con profonda ragione, uccide la tradizione, cioè uccide Dio. Ma su quale base? Sempre e comunque sulla base nichilista e cioè che la vita, o l'essere, sia nulla. Irriducibilità dell'essere al nulla, non è esplicitamente vista da nietzsche, che con l'eterno ritorno cerca di risolvere in qualche modo, ma è sempre nichilismo.
L'eresia s'insinua anche nella tastiera...
Caro Dru, la lettura severiniana della storia del nichilismo non è solo affascinante, ma è pure drammaticamente vera. Ciò che mi affascina è però la riluttanza di certi autori (Platone, Nietzsche) a farsi conoscere completamente. Autori che scrivendo condannano lo scritto, che da artisti aborrono l'arte (p. es., su tutti, 'Morte a Venezia')... Si può presumere davvero di averli conosciuti, di averli colti? Vorrei una tua/vostra opinione...
ben più pericolosa, ben più pericolosa...
è una forma della condanna all'episteme, la condanna di Platone alla scrittura è il suo momento profano, la condanna di Dio, certo in Platone questo è implicito, in Nietzsche questo risulta esplicitamente. La scrittura ferma nel tempo l'istante, ma nello stesso tempo, consente al tempo di diversificare quell'istante, di moltiplicare all'infinito quello che è immoltiplicabile per essenza, l'istante. Platone non vuole essere frainteso, la scrittura per eccellenza, fraintende ciò che Platone scrive in essa, meglio la fase orale (istante temporale, vero essere). In Nietzsche tutto questo prende forma in un ragionamento sistematico dell'intera sua filosofia.
«dirò all'attimo: sei così bello! fermati!»
sul fondamento della libertà, Cristo vive e sul fondamento della libertà ogni uomo dovrebbe così vivere. Sul fondamento della divinità o necessità Paolo non vive ma replica, vuole replicare, la vita di Cristo: se Cristo è il positivo. paolo è appunto il suo negativo.
siamo tutti replicanti la vita di Cristo, siamo tutti il suo negativo, perché l'istante è irripetibile o ripetibile solo negativamente, perché Cristo è irripetibile e cercare di ripeterlo significa, uccidere la propria libertà e entificare quell'unicità inentificabile ed irripetibile, poiché la sua entificazione e ripetizione è illusione, e in quanto vera illusione è mortificazione della vita.
Noi possiamo pensare di vivere la vita di Cristo, e in questo siamo nella vera illusione, ma in questo siamo nella vera mortificazione che significa morte della vera vita e vita della vera morte.
beh, in quanto noi, se viviamo la vita di Cristo, non viviamo la nostra:morte della vera vita; in quanto Cristo morto, se viviamo la vita di Cristo, viviamo la sua morte: vita della vera morte.
È questo che per Nietzsche è insopportabilmente vecchio e stantio, questo modo di replicarsi dell'uomo è mortificazione della vera vita.
ma dall'insegnamento del maestro Emanuele Severino, detto anche Doctor Implacabilis. A proposito, in Settembre mi dicono che Severino verrà insignito di qualche cosa sul suo Ritornare a Parmenide, testo scritto ancora 50anni fa, ma eterno, che ne dite di accompagnarmi in questa avventura filosofica e di conoscenza?
Il premio gli sarà consegnato ad Elea, casa di Parmenide... E dove oggi vive qualche terroncello :-)
Mi pare una proposta da prendere in considerazione... Nonostante l'asperità del viaggio e... del Nostro...
incontrarci per saperci, che ne dite? stasera siamo agli scacchi di Idro, e così anche il prossimo mercoledì, tempo permettendo, questo dopo le 20:30...
saremo io e i miei figli..
Caro Dru, cari tutti, sarei molto lieto di fare la vostra conoscenza! Non so però se mi sarà possibile mercoledì prossimo...
Secondo me il problema è ancora riposto nel dove ogni individuo intenda affidarsi: la fede o la ragione; in entrambi i casi si evidenzia la necessità di questo principio: nel primo un Dio (o principio/archè/logos/apeiron o come lo si voglia chiamare) che si fonda sulla fiducia nel mondo diveniente (di conseguenza non vi è la necessità che il dio esista, ma che noi ne siamo manifesti, noi siamo la prova.. chiaro che in questo caso si privilegia la percezione alla ragione, ma chi può affermare che la percezione sia meno nobile della ragione? basti pensare a un mistico..). Nel secondo caso si vincola invece in maniera più drastica il concetto di esistenza a quello di essenza, come appunto chiarifichi bene nel commento precedente, ma in ogni caso mi pare che si cerchi di cercare l'origine dell'essere usando il nulla a sostegno, ossia il mondo diveniente; la spiegazione razionale di dio non può avvalersi della scrittura
A parer mio l'essenza di Dio si comprende razionalmente dall'intuizione, la stessa che probabilmente hanno avuto i primi che l'han pensato o meglio, idealizzato
Alla fine Dio è un egoista che crea l'uomo per essere pensato, cosa sarebbe Dio senza l'uomo? Un'opera d'arte dispersa in fondo al mare..
Un'opera d'arte dispersa in fondo al mare, ma un'opera dispersa in fondo al mare non è meno di un'opera esposta al Louvre. Entrambe sono composte di un soggetto e di un predicato, entrambe sono, ed essendo sono eterne. Siamo noi che crediamo che si possa davvero disperdere l'essere in fondo ad un mare o lontano nelle galassie infinite, ma ogni predicato dell'essere, benché lontano all'infinito, o profondo in fondo al mare, è, esiste.
Ma se tutto è eterno allora che senso ha dire che tutto è eterno - se appunto anche questo dire, come il suo dire contraddittorio, è eterno? Che senso ha poi affermare la verità, se questa è già da sempre eterna?
Se vi fosse libertà e contingenza, allora ivi è contraddizione ( ipotetica dell'eventualità dove apoosi in congiuntivo e protasi in indicativo). Interessante Darwin la sua domanda, mi obbliga ad un supplemento di pensiero. Affermare la verità vuol dire negarla, ma anche negare la verità significa negarla, ogni dire della verità non è la verità, ma ne è parte imprescindibile e innegabile. Allora che senso ha, chiede lei. Allora possiamo noi non dire? Ma certo, anche non dire è volontà e come tale è negazione della verità. Questo è il senso della verità, che ogni negazione, altro da annientarla, la costituisce intrinsecamente.
è vero che se prendo in mano un pugno di sabbia non ho in mano la Spiaggia, la Terra, il Mondo, l'Universo. Ma da ciò non posso allora dedurre il suo non senso. Cioè non posso negare sulla base della mia impossibilità di contenerli che tutto ciò non esiste, altrimenti, è proprio sulla base di tutto ciò che affermo "ho in pugno una Spiaggia, laTerra, il Mondo, l'Universo", è perché mi appare tutto ciò che allora ho in mano un pugno di sabbia, ma il mio pugno di sabbia è anche la loro negazione negazione; in quanto come tolta, essa non è l'intero, ma una sua parte.
che tutto è contingente. Che tutto è eterno è dove tutto già sta da sempre, ma non come sarà o come fu, questa è l'episteme, non come passato o futuro, questa è la verità tradizionale, ma come caduco, transeunto, diveniente, caso, fato, natura: il linguaggio, in questo divenire altro di ogni essente, ha un ruolo determinante, perché le cose del mondo sono diventate le cose di questo mondo, del mondo del linguaggio. È nel linguaggio che ogni cosa trova il terreno più fertile della nostra esperienza (di vita). L'esperienza, i fatti, e il loro succedersi sono intimamente legati al succedersi delle parole e del loro significato sempre diverso e diversificantesi. La persuasione che il mondo sia questo mondo è la persuasione del divenire altro di ogni cosa e, in questo specifico caso, del divenire altro del mondo appunto. Si tratta di comprendere che è all'interno di questa logica alienante che ci
che ci muoviamo, viviamo e così operiamo.
quando sento parlare di certezza e di verità, ovvio che la verità in questa distinzione ha già perso la sua identità con se stessa: se noi possiamo esser certi di una cosa, ma questa certezza con cui vestiamo quella cosa, non è quella cosa di cui siamo certi, allora quella cosa non esiste, è impensabile, contraddittoria, si che la certezza, anch'essa non esiste, è impensabile, contraddittoria. Mi sovvien che certezza e verità son lo stesso. Ma non perché la verità è depotenziata a certezza, ma perché certezza e verità sono il medesimo
che distinguo un cane, insomma son certo che quello è un cane, la verità di quel cane, nel mio discorso, è la certezza in me. Se cambio poi opinione e scopro che quel cane non è cane, ma cavallo, ciò non significa che la prima certezza non lo fosse, significa che dalla prima alla seconda certezza vi è differenza e questa lo è secondo il suo apparire, secondo l'apparire del cavallo che era (in me) cane. Ma che quel cane non fosse apparso come cane lo è per l'apparire del Cavallo. Ciò, della certezza del cane, non implica il suo annientarsi. Solo sul presupposto del nichilismo, cioè dell'annientarsi della prima certezza, allora posso dire che la certezza non è verità. Se capisco, ma qui vi pingo a farlo sul processo della comprensione, che non è annientabile quella prima certezza, sul presupposto del suo scomparire, avrete anche voi di che sorridere.
e come essente è una delle cose del mondo, ogni incertezza è vera come la cosa più certa e più vera, son lo stesso, sono cose del mondo. Anche l'ignoto è noto, è così noto come ignoto. Questa è identità di certezza e verità.
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