15 Luglio 2013, 11.12
Valsabbia Lavenone
Valsabbini

Un eremita senza pretese di santità

di Pino Greco

Quella di Pino Greco che pubblichiamo oggi è una storia che ha qualche anno. Ma è ancora molto bella

 
Grande folla a Nozza il primo lunedì del mese. Non si sottrae nessuno. Tutti fra le bancarelle a testimoniare un legame antico. La gente è tanta perché il mercato ha una suggestione radicata.
Negli ultimi tempi si sono ridotte le motivazioni economiche, ma restano inalterati i riti della socialità.
L’incontrarsi, il salutarsi, il percepire i tratti di un’identità comune.
 
Tra la folla ormai omologata agli standard dell’abbigliamento televisivo spiccano, però, delle presenze strane.
Piccoli e ossuti, un’età che sa di vecchio, la camicia candida senza cravatta, lo zaino floscio sulle spalle, lo sguardo intento a cogliere la magia dell’evento. Sono i montanari che scendono a far mercato.
L’aspetto farebbe pensare a una sorta di indigenza, ma le banche della valle prosperano sulla solidità di certi depositi montanari.
La loro, piuttosto, è un’abitudine alla frugalità previdente.  A volte perfino una guardinga strategia di dissimulazione.

Fra i primi ad arrivare, si riavviano quando già le piazzole delle bancarelle sono diventate un guazzabuglio di rifiuti e di cartoni sconciati. La liturgia del mercato loro la osservano con scrupolo.
Al  bôt , infatti, il montanaro si accalca in osteria. In un’atmosfera un po’ iniziatica, fatta di riconoscimenti e di pacche sulle spalle. Una bolgia di posate tintinnanti, di cordialità ruvide, di calici che vanno.
Un intreccio di dialoghi eccitati che si dilatano oltre  il caffè e i grappini.
Un modo per esorcizzare, con un pieno di convivenza, l’inevitabile risalita verso la solitudine.
Il montanaro è solo per forza di cose. Il disagio delle alte quote dirada abitazioni e attività.
Poi ci sono quelli soli per scelta. Uno di questi era Firmo.

Di Firmo mi aveva parlato un amico che girava con la Leica al collo a caccia di volti e di storie.
Non era granché quello che si sapeva: l’infanzia tra il fieno, il laminatoio a quattordici anni, poi la Svizzera, l’invalidità, la pensione, il ritorno. Ma  Firmo era anche l’unico abitante di Bisenzio. E tanto bastava ad accendere un interesse.
Bisenzio è la frazione di una frazione: un grumo di case soggiogate dalla Corna Blacca.
Quando funzionavano le vie del ferro e del carbone aveva un senso stare lassù.
Poi la gente ha cominciato ad andarsene. Bisenzio è diventato un fondale dimenticato fra le quinte.
Si anima per qualche settimana fra luglio e agosto. Vengono dalla città per vivere la natura del “grazioso borgo di montagna“.
Ai primi temporali torna il silenzio. Niente occhi a curiosare dietro una tenda, neppure un cane a rovistare tra i rifiuti.
A me intrigava la vicenda di un tale che passava le sere senza televisione, le notti senza una donna e i giorni, tutti uguali, aspettando che il  sole si spegnesse sulle sue faccende minute.

Si era alla fine degli anni settanta, allora.
C’era ancora spazio per coinvolgimenti istintivi e solidarietà senza calcoli. Il rampantismo non aveva ancora oscurato l’attenzione per i fuggitivi, gli estromessi, i perdenti. Sembrava meritorio, quasi un gesto militante, recuperare un contatto con chi aveva vissuto il destino degli umili. Lavorando e risparmiando.  Semplicemente.
In fondo si trattava di quell’umanità marginale che ha sempre costruito piedistalli per i destini importanti, senza mai presentare il conto.
Per la verità qualche rancorosità Firmo la rimestava. Si intuiva dal fastidio coi cui schivava domande e macchine fotografiche.  Confesso che, la prima volta, la complicità col mio amico fotografo che cercava di rubare uno scatto mi aveva procurato disagi e sensi di colpa. Da allora sono sempre tornato su da solo.
Certo, mi portavo dentro tante domande, ma lo spettacolo di quella specie umana rinunciataria e ospitale, rinselvatichita e mite, induceva al silenzio.

Da un anno all’altro sono passato a Bisenzio sei o sette volte. 
Curioso di sbirciare da vicino quella esistenza minima, speranzoso di costituire un momento di novità stimolante. Forse anche gradita.
Ogni volta ripartivo con la sensazione di aver soffiato su un lago limaccioso.
Un’increspatura leggera e tutto ritorna piatto.
In fondo era giusto così. La garbata noncuranza di Firmo era una difesa contro l’invadenza dell’intellettuale impegnato a catalogare le esistenze anomale. Magari per farne materia di cronache d’effetto e perfino di denunce sociali.
In realtà lui non dava l’impressione di sentirsi solo al mondo.
 
Non lamentava abbandoni o emarginazioni.
Lui aveva semplicemente staccato lasciando che il resto del mondo proseguisse.
Il suo linguaggio poi, era essenziale. L’invito a sedersi, il vino versato, un cenno sapiente d’intesa. Non gli cacciavi una parola.
E allora ti guardavi attorno curiosando fra le tracce di avvenimenti, di intenzioni, di atmosfere.

Fra il vetro e la cornice di una credenza a smalto carta da zucchero si sovrapponevano, casuali e precarie, le fotografie di famiglia.
Nipoti in tunica da prima comunione e nonni baffuti, baracche intirizzite negli inverni di Zermatt e gli amici del bar “Alla lepre“, il profilo ritoccato col pizzetto da alpino e il monumento ai caduti sommerso dalla nevicata record, la Lambretta 125 D e il setter da penna in ferma spasmodica.
Le foto in sé dicevano poco. Emergevano facce, dettagli e gesti di ordinaria emblematicità. Poi la fantasia si incaricava di amplificare storie ed emozioni.
Il bello era che mentre io mi esercitavo a ricostruire improbabili frammenti di esistenza, Firmo continuava ad armeggiare lì attorno senza apparente interesse.
Dentro quella stanza l’universo di Firmo aveva due poli:  il fuoco e il vino.

Scultoreo e solenne, col suo tappo a vite e l’etichetta stinta, sul tavolo di formica sostava in permanenza un bottiglione.
Né vuoto né pieno: a disposizione.
Quando la fiamma del camino si ravvivava i riflessi guizzavano fra le trasparenze del vetro. In quella stanza dove tutto era fossilizzato, a cominciare dal mazzetto di pannocchie dimenticate sullo stipite di una porta, il fuoco ed il vino si congiungevano in uno slancio simultaneo di vitalità.

Provavo un’inconfessata ammirazione per quell’uomo che per vivere faceva ricorso solo ad elementi primari disdegnando il superfluo. Un eremita senza misticismo e senza pretese di santità. Un’alienazione che turbava le coscienze degli indaffarati, ma proponeva un modello inusitato di esistenza. Sicuramente ecologico.
E così, ogni volta, quei minuti passati con Firmo concentravano emozioni non convenzionali e inducevano un bisogno di riflettere che durava nei giorni.

L’ultimo incontro una mattina di giugno.
Aveva tempestato all’alba. La brezza che scendeva dalle Piccole Dolomiti faceva sgocciolare i rami sull’asfalto rugoso.
La strada che sale a Presegno è giusta per chi vuole pedalare e faticare. All’ingresso del paese si tira il fiato su un leggero falsopiano. Fu a quel punto che, come facevo sempre, mi portai sul margine sinistro per misurare, con appagato compiacimento, l’asprezza dei tornanti superati. E vidi.
Senza rumore, quasi indolente, veniva su un Mercedes grigio dalla sagoma inconfondibile. Un tocco di straniata eleganza fra l’incuria arruffata dei prati in abbandono e le punte dei larici. Al suo seguito niente macchine.
- Sta a vedere….- pensai .
Non mi sbagliavo. Sulla piazzetta aspettavano in dodici o tredici. Parenti alla lontana e le solite vecchine che accompagnano tutti i funerali.

L’arrivo di Firmo non suscitò reazioni concitate. Negli sguardi appariva quella mestizia appena turbata che si riserva al chiudersi di una finestra dopo l’estate. C’è la malinconia di una partenza, ma si sa che poi ci saranno altre stagioni.
Lo stropiccìo sui ciottoli del sagrato fu di breve durata.
L’autista del carro funebre appese la sua grisaglia un po’ lisa al moncone di un roseto e si contorse inebriato sotto il getto prepotente della fontana.
 
Decisi di proseguire verso il valico che scende alle Pertiche. A Bisenzio sempre quel silenzio stagnante. Mi chiesi se mai qualcuno si sarebbe ricordato che lì, coi suoi gatti e le galline, aveva abitato Firmo.
A custodire i tetti senza fumo, due campane immobili e una fontana nell’ombra.
 
Pino Greco
 


Commenti:
ID34097 - 15/07/2013 13:10:14 - (Giacomino) - Bellissimo racconto Profesur.

Nei personaggi come Firmo si concentra tutto un mondo in cui la noia non esiste ma un mondo non accessibile ed incomprensibile ai più.

ID34108 - 15/07/2013 16:01:03 - (bob63) -

Bellissimo racconto, personaggi cos ne sono restati pochi, forse dovremmo ringraziare chi non ha voluto o potuto tutelare la montagna lasciandola al destino dell'abbandono.

ID34110 - 15/07/2013 16:10:05 - (sonia.c) - meraviglioso racconto ..meraviglioso Pino!

hai ragione Giacomino..non è solo quel mondo a essere diventato incomprensibile..ma (purtroppo)la saggezza e bontà di quelle persone..

ID34158 - 16/07/2013 21:08:21 - (luca71) - grazie

proprio un lato piacevole della nostra valle.

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