28 Luglio 2014, 10.50
Valsabbia
Lettere

Quanto è bello il nostro Lago

di Dru

Per mio figlio Marco. Corroborante, si, corroborante, questo era il senso del gesto che spingeva a mettere là il dito e con il palmo a sondare l'estremo della sua finitudine


L'esperienza lo aveva reso deciso, il fisico tradiva ogni imprevisto, eppure la serie di gesti non sarebbe mai stata ripetuta.
Sapeva che la ricerca di un appiglio nell'imprevisto è angoscia.
Lo spazio come limite, il tempo come misura, su quelle amenità, luoghi remoti agli altri, ma così intimi e sempre più famigliari a sé stesso: il suo fisico sedeva con lui come unico vero amico, per conformarsi e plasmarsi alle cose tutte intorno.
Questa non sarebbe stata affatto come le altre, non è mai come le altre, perché è sempre nuova.
Il buio lo circondava sul giaciglio imprestato a rifugio. Il vuoto, sotto, apre all'orrido spazio.
Un sollievo il buio, gli  permetteva di imbrogliare la realtà.
Poteva spingersi con l'immaginazione a credere di essere nel suo letto e le forme non gli erano più da limite, così come l'immaginazione si figura.

Marco sentiva freddo.
Ancora tenace in quel posto afoso, si dichiarava un tempo in cui il freddo è stato generoso, mentre l'aria calda si insinuava tra  le sue dita ghiacciate ed indolenzite.
Ma il sonno lo rapì subito, al ritmo di una stella cadente, prima che ogni luce là, in lontananza, nella quietudine della civiltà  osasse solo cambiare quest'immensa e meravigliosa solitudine.
Il giorno è un'altra cosa e si presenta in due modi: subito prima freddo e nell'ombra, ma in un sol secondo, come per ogni confine che si voglia superare, caldo e confortante.

I raggi del sole riscaldano ogni membra indolenzita
che attendono la carica per  costituirsi.
Ogni sbaglio qua è l'ultimo, a questo serve la maniacale attenzione e la sacrale gestualità nella montagna.
Il grido di un essere lo sorprende, il rumore di un franoso lo allerta, è il momento di proseguire nella salita della vita.
Il giorno prima Marco aveva già percorso un buon tragitto, con la sua pesante sacca da solitario che lo accompagnava.
Era per lui la sua prima volta da solitario.

Si, era la prima sua solitaria
, era solito seguire le linee verticali in compagnia, ma era venuto il tempo di provare qualcosa a sé stesso, era venuto il tempo della maturità, si diceva.
Chissà perché la maturità deve per forza combaciare con la solitudine, si chiedeva, chissà perché il farcela conduce per forza al farcela da soli.

La solitudine come forza.
La potenza come separazione da ogni relazione.
Devo farcela da solo, si ripeteva e ripeteva ogni sua progressione.
Ogni sua progressione lasciava quell'amaro in bocca, lo sapeva, quante volte il progresso lo aveva condotto all'amaro in bocca.
"Tutto qui?" Si domandava tutte le volte e tutte le volte quello compariva aprendo una voragine sotto, uno squarcio che lo faceva aggrappare forte alla vita e alla ricerca di un nuovo progresso, ma infondo  l'ottenuto gli appariva essenzialmente diverso dal voluto.
Marco non era uno sciocco, sapeva già che quello che cercava, lontano dalle luci della ribalta, erano ricerche vuote, ma qualcosa lo spingeva comunque.

Sciocche che potessero essere, questa forza e questa volontà interiore non le poteva respingere, perché anche respingerle significava sempre il respingerle con forza e con volontà.
Anche se il risultato, l'arrivo agognato che lo attendeva, non sarebbe importato alcunché, perché ad alcunché sarebbe giunto e perché non c'é un arrivo, lo scopo doveva esserci.
Questo lo sapeva, ma allora perché in quel momento si trovava dove nessuno osa essere?
Bastava essere, questo frattanto lo confortava.
Ma bastava davvero?

Marco sentiva il suo corpo circense e teso
, ma sentiva anche l'assenza della sua corporeità. Non se lo spiegava fino in fondo, ma la sua prestanza quand'anche presente era sempre e comunque assente.
Qualcuno gli aveva insegnato che è appunto questo l'equilibrio, ma se questo è l'equilibrio allora l'equilibrio è sempre un essere sospesi sull'abisso.
Che magra consolazione che è l'equilibrio, si domandava ad ogni passo della sua progressione.
Sono in equilibrio perenne eppure mi sento sempre come nel vuoto, forse è per questo motivo che cerco l'impossibile?
Forse che è proprio questo l'impossibile equilibrio?

Queste domande gli comparivano certo
quando la progressione si faceva più sicura e il passo ancorato a qualcosa di veramente solido.
Altre glie ne venivano quando il mondo gli si faceva innanzi più minaccioso.
Ad esempio, perché dovrebbe succedermi qualcosa che non voglio a me che sono così preparato?
L'allenamento alla vita sarà pur servito ad evitarmi spiacevoli scivolamenti.

Non può capitare nulla di contrario la mia volontà
, perché è la mia volontà a guidare ogni mio passo sicuro e nient'affatto incerto.
Tutto gli pareva dunque sotto controllo e nel suo dominio quando il tutto poteva al suo controllo e al suo dominio davvero separarsi.
Il cielo era terso e la vita era diversi metri che lo aveva lasciato solo, senza la sua consolante presenza, senza la sua sempre rigenerante compagnia.

Un solo filo d'erba
, un pianto di un bambino dove stava erano solo immagini e rumori della memoria, perché dove stava non c'era che la presenza del rumore generato da cose inanimate.
Si è vero, lo aveva cercato l'imprevisto, ma ancora non lo aveva trovato, circondato com era dal bello.
I luoghi lontani della memoria servivano quel luogo solo e sordo anche se all'apparenza sembrava essere senza di essi.

La vecchia poiana si riposava al capitello di quei luoghi, scrutando le forme mote dell'acqua.
Il vento soffiante del nord la increspava, confusa in questo nel suo spumeggiante fragore, si mescolava con  le dorate spire dai ghiotti abitatori.
La vecchia padrona, librava le sue grandi ali in spire concentriche e eccentriche, dando prova del suo rango.

Riconosceva di essere la regina di quei luoghi e le sue prede avevano solo l'abisso del Lago come luogo sicuro. L'acutezza la sua arma, gli artigli, ben tesi a prevedere un contatto con la preda, la sua forza.
La signora del Lago, con un ultimo urlo liberatorio, trattenne il respiro per scendere in caduta libera contro il suo destino...
Marco, da quel luogo supremo, guardava in direzione di quell'immensità.

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