23 Marzo 2007, 00.00
Valsabbia - C
Visti da fuori

«Ghe l'ho amò so le stomech»

Si sono mai chiesti i valsabbini come vengono visti da chi arriva da fuori per mettere qui nuove radici?
Leggete un po' il breve racconto di Pino Greco, uomo di scuola e valsabbino d'adozione.
Illuminante.

Si sono mai chiesti i valsabbini come vengono visti da chi arriva da fuori per mettere qui nuove radici? Leggete un po' il breve racconto di Pino Greco, uomo di scuola e valsabbino d'adozione. Illuminante.

Pota

Lui scende a Nozza o a Vestone? Molti elementi quella mattina congiuravano ad acuire il disagio di uno stazzonato professore con valigia. Seicento chilometri di treni nella notte. Cinquanta di corriera nella nebbia. La brusca, abbacinata materializzazione di un fiume che contendeva alla strada un segmento angusto di fondovalle. E poi il sole che svaporava fra boschi mollicci, tralicci balenanti e una chiesa improvvidamente accoccolata sotto dirupi incombenti.
Ci mancava l'autista ad evocare improbabili compagni di viaggio per completare il disorientamento dell'unico passeggero superstite, nella tratta Barghe-Vestone, di quel 30 ottobre 1972. Il posto era San Gottardo. Il professore ero io. Quel "lui" era il preannuncio di una diversità. Il primo impatto con un dialetto camuffato da italiano ripulito.
Era l'ingenuo e pretenzioso inciampo di chi abbandona i parametri rassicuranti della parlata di tutti i giorni, per avventurarsi fra le insidie di una grammatica rabberciata in qualche modo tra i banchi di scuola.

Sono passati gli anni e da tempo ho smesso di andare in corriera. In ogni caso, non mi stupiscono più le approssimazioni di certe contaminazioni linguistiche. Da Bagolino a Tormini il mio decodificatore si sintonizza, con sperimentata duttilità, anche su impercettibili variazioni di banda.
Riconoscere l'affannosa e mitragliante apnea di certe tirate del "savallese" è un gioco da ragazzi, come pure distinguere la cantilena ciondolante di Idro o i curiosi scambi vocalici dei Bagossi. Passo per uno omologato e nessuno mi chiede più : - hai capito quello che si stava dicendo ?
Ma i percorsi della memoria, eccitata per l'occasione, mi riportano all’avventura di una esplorazione. Quella curiosità che, di volta in volta, isolava dei suoni misteriosamente allusivi fino alla scoperta di un significato spesso difforme da quello supposto.

"Ancò", per esempio. Non mi vergogno ad ammettere qualche anno di circospetti esercizi deduttivi prima di afferrare la banale corrispondenza. Quasi le stesse difficoltà provate per la "scagna", il "botér", la "corna", i "nigoi", la "palta".
Nessun problema, invece, per "negot" e "vergot". Questi dioscuri pronominali mi apparvero subito chiari nella loro icastica e un pò teutonica assonanza. Devo ammettere, tra l'altro, che sono state anche le prime espressioni incluse con una certa disinvoltura nel mio parlare ordinario.

Mi ha intrigato alquanto "pôta". L'etimologia era di una solare trasparenza, ma il contesto in cui si calava, lo stile espressivo e il livello culturale dei soggetti dialoganti, conferivano a questo intercalare esclamativo sfumature significative.
Per esempio quella grassa e vagamente esibizionistica dell'adolescente in crescita, oppure quella maliziosamente pudibonda dell'acculturato di sagrestia.
E così, momento dopo momento, parola dopo parola, mi esercitavo nella decrittazione di un linguaggio che trasmetteva non tanto precisi riferimenti lessicali, quanto arcane energie fonetiche e risonanze suggestive.

Come la "ranza". Un vibrare dilatato che compendia lavoro e accordi ritmici. La "ranza che sega el fé", poi, evocava una corposa commistione di profumi pungenti e paesaggi bucolici. La "ranza" e il "restél", infine, si ritrovavano come canoniche antinomie di quelle espressioni che veicolano improbabili frammenti di saggezza popolare. Di quei detti, cioè, che nascono attorno ad un fuoco rimescolando latte e polenta con l'approssimazione di presunti vaticini meteorologici.
Dall'immaginario popolano, ai retaggi della storia dei luoghi. Della valle. In quest'argine controriformistico intriso di cattolicesimo osservante, le bestemmie, proferite con tonante acrimonia, finiscono per prendersela con sbiaditi surrogati come "dighel" e "madoi".
Altra cosa l'alone sacrale che circonda "el laurà". Non il lavoro, un rapporto contrattuale soggetto a risoluzioni e conflittualità, bensì "el laurà". Espressione totalizzante e materica, atavica e schietta. E, soprattutto, niente a che vedere con "laùr". Quella sorta di passepartout linguistico che soccorre generosamente gli intoppi di scioltezza dialettica. Quell'attrezzo multiuso che offre un'indecifrabile, ma percepibilissima, allusione ad ascoltatori egualmente a corto di risorse lessicali. Ma su lavoro e dintorni c'è un’espressione che ha stimolato le mie riflessioni.
"Mittìss per sò cont". In terra di imprenditorialità diffusa ed effervescente, niente riuscirebbe a fotografare meglio un'aspirazione comune, quasi un'ansia di misurarsi con i rischi dell'impresa solitaria per certificare una capacità con i segni tangibili del benessere. Inutile dirlo. Il mettersi "per sò cont" non allignava minimamente nell'immaginario collettivo dei giovani delle mie parti. L'incontro con la cultura d'impresa, evocata da una sbrigativa espressione dialettale, ha inciso in maniera significativa sui miei comportamenti.

Altre volte mi sono semplicemente divertito. Come con il comunissimo bestiario fatto di "bek, conécc, nèdre, perì, pérsech...". Oppure con la sequela di espressioni tratte dal prontuario infortunistico, tipo:
- el s'è sbregàt ,
- el s'è strinàt ,
- el s'è scavesàt ,
fino al fatale e quasi intenzionale
- el s'è copàt .
Senza trascurare i micidiali onomatopeismi di certi verbi tipo "scainàa". Ma ci sono delle occasioni in cui l'acquisizione di una conoscenza è avvenuta per un concentrarsi intrigante di sollecitazioni. Nei pranzi, nelle cene. Quando l'essenza viva del dialetto si trasfonde, quasi osmoticamente, nei sensi prima ancora che nella mente di chi partecipa in rilassata sintonia.

I bresciani, si sa, amano i piaceri forti. A tavola si va giù di brutto, senza sensi di colpa. Ma a dispetto dei volumi finali, imponenti, si procede per "ciapél", "tochél" ed anche inverecondi "calicì".
Il lessico si irrobustisce quando irrompe la caccia, con il sovraccarico di passioni, di suggestioni e di millanterie. Si rincorrono scoppiettanti "tràa" e "canàa". Due soli predicati a sostenere il peso sintattico di tutti i più variegati oggetti del desiderio venatorio. "Frànguel e légor, cavriol e gardene, gai e bektòrt, frasarole e logherì, àrsie e sbisècc".
Ma il momento topico, quando la comunicazione si scarnifica fino ad una essenzialità immediata e saettante, è quello della morra. O meglio della "mura". Già, perché la morra è greve, sciroccosa, mediterranea. Sa di vini tosti, di intese guardinghe, di onori pericolosamente lambiti e, un tempo non lontano, anche di coltelli a serramanico. La morra ha la scansione del passo sulla zolla che cede polverosa. Può occupare lo spazio di pomeriggi interi, intessuti con la trama canicolare di ginestre, uliveti e cicale infoiate.

La "mura" no, la "mura" è bresciana . Sa di dopolavoro definito e appagato. Di vini asprigni, di respiro corto e di memoria leggera. Sa di antagonismi senza antefatti e senza postumi. Circoscritti. Turbinosi e svaporanti come la schiuma di una barbera sapida e svagata. E poi batte i tempi dell’energia ordinata. - Cis - cis - cis - ces... - Tunc - tunc - tunc - tonc...
Da una parte i toni di un alterco mimato con ilare animosità. Dall'altra l'evocazione di magli prealpini, di fatiche e di progetti di impresa. Il gioco e la vita che si riflettono vicendevolmente, rivelando il comune sottofondo.
Ecco, il gioco. Per tanto tempo è stato un gioco, quasi una seduzione, l'approccio con la parlata di una valle divenuta familiare tanto quanto i calcari riarsi delle mie montagne abruzzesi.

Finché una mattina. Sulla spalletta di un ponte . Con l'insolenza lapidaria e becera di un italiano da ultras : "Terroni bastardi". Proprio così, nero su grigio! Fine di un feeling.
Avrei preferito soccombere alla gioiosa trivialità di "'nculet". Oppure allo sbrigativo e ruspante "via da le bale". Ma quella caduta di genuità, quella rinuncia a modelli linguisti di cui ci si proclamava paladini, ha provocato un sconcerto umiliante.
Quasi si volesse sanzionare, senza appello, una effettiva estraneità a una terra e alla sua cultura. "Ghe l'ho amò so le stomech".

Pino Greco dal sito www.pinogreco.it


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