Il 26 aprile 1945 giunse via radio la notizia della disfatta tedesca e, conseguentemente, l’invito alla resa rivolto a tutte le forze armate della Repubblica Sociale Italiana, garantendo loro il rispetto delle convenzioni internazionali.
Se i tedeschi, forti di un accordo con gli alleati per una pace separata, poterono in seguito raggiungere quasi indisturbati il confine con il Brennero, i reparti della R.S.I. restarono senza ordini precisi.
Alcuni si sciolsero cercando di raggiungere le proprie abitazioni, altri si avviarono verso il “Ridotto Alpino Repubblicano” conosciuto anche come “Ridotto della Valtellina”, luogo scelto per la difesa finale della R.S.I. ove erano state realizzate opere di fortificazione (bunker, fosse anticarro, reticolati, interruzioni stradali, trincee, ecc.).
Intanto un reparto della 6^ Compagnia della legione d’assalto ‘Tagliamento’ della Guardia Nazionale Repubblicana, di presidio al passo della Presolana, non riuscì a raggiungere il grosso della legione che, nei giorni successivi si ritirò verso il Tonale per passare nell’area tridentina sgombra da formazioni partigiane.
Il plotone, composto da 39 militari, era affidato al
Sotto tenente Roberto Panzanelli, ventiduenne di Orvieto, il quale, vincendo la reticenza di alcuni suoi soldati, decise di accogliere l’invito alla resa, sollecitato in tal senso da Alessandro Franceschetti, proprietario dell’albergo che ospitava la guarnigione.
Accompagnati dallo stesso albergatore e
issando un fazzoletto bianco su un bastone, i legionari scesero lungo la vallata in direzione di Clusone per trattare la resa con il locale C.L.N., non essendo a conoscenza che lungo il percorso vi fossero altri comitati.
Durante il tragitto non si imbatterono in alcun gruppo di partigiani, ma in un drappello di altri otto militi che, dopo alcune titubanze, si unirono a loro.
La sera stessa del 26 aprile giunsero a Rovetta, nelle vicinanze della sede prefissata e vennero presi in consegna dal parroco del luogo, ex cappellano della guerra 1915/1918, più volte decorato al valor militare, don Giuseppe Bravi e dall’ex ufficiale del regio esercito, maggiore di sussistenza Giuseppe Pacifico, in qualità, rispettivamente, di segretario e presidente del locale Comitato Nazionale di Liberazione.
Con l’assicurazione del
rispetto dello “status” di prigionieri di guerra e dopo aver ricevuto le più ampie garanzie di salvezza per i suoi uomini, il Comandante Panzanelli firmò la resa deponendo le armi.
I legionari furono quindi alloggiati nei locali delle scuole elementari e rifocillati a cura del parroco in attesa di consegnarli, come prigionieri di guerra al primo reparto alleato che sarebbe sopraggiunto a breve.
Già al mattino seguente, il venerdì 27 aprile 1945, si sparse la voce circa la presenza dei ramarri (così erano chiamati i militi della ‘Tagliamento’ per via del basco verde e della divisa verde scuro) e delle armi da loro deposte.
A bordo di autocarri si riversarono a Rovetta tutte le formazioni partigiane per spartirsi l’ingente bottino costituito di mitragliatori e un carretto di armi e munizioni.
C’erano proprio tutti in quei frangenti: i militanti delle “Fiamme Verdi”, delle brigate “Garibaldi”, “G. Camozzi”, “13 martiri” di Lovere , “Giustizia e libertà” e molti partigiani dell’ultima ora.
Proprio in quegli attimi di concitazione, fece una fugace apparizione uno strano e misterioso individuo di origini istriane, che aveva come nome di battaglia “capitano Moicano”.
Si seppe poi trattarsi di un ufficiale della “Special Operations Executie”, un servizio di collegamento con l’esercito alleato, paracadutato sul Monte Farno con funzioni di sovrintendente alle attività delle varie formazioni partigiane e con pieni poteri.
Nel timore di scontri a fuoco, in quanto Clusone era ancora presidiato da forze tedesche che inquadravano un battaglione di Russi, i legionari furono momentaneamente trasferiti in un cascinale fuori dal centro abitato prima di essere ricondotti, a pericolo scongiurato, nei locali scolastici.
Qui venivano sottoposti ad angherie, maltrattamenti e depredazioni da parte di sedicenti partigiani che, dopo aver disarmato le sentinelle, presero arbitrariamente in consegna i prigionieri.
Questa la testimonianza del sopravvissuto, Ferdinando Caciolo: “
I partigiani presero a gozzovigliare e si divertivano ad immaginare di quale morte ci avrebbero ucciso, se tramite fucilazione o per impiccagione o ambedue, per il giorno successivo: queste le affermazioni che dal sovrastante locale ci venivano trasmesse a squarciagola.
Ad ore alterne scendevano a maltrattarci, bastonarci e depredarci”.
Fu quella tra il 27 ed il 28 aprile 1945 una lunga notte in cui la maggior parte dei legionari prese coscienza, con cristiana rassegnazione, del tragico destino che stava per compiersi, mentre altri cercavano ostinatamente conforto nelle promesse e assicurazioni fatte loro dai rappresentanti del C.N.L locale.
Il maggiore Giuseppe Pacifico, la mattina del 28 aprile dovette recarsi alla cantoniera della Presolana per rilevare il presidio tedesco che aveva manifestato l’intenzione di arrendersi agli anglo-americani.
Intanto il Sotto-tenente Panzanelli fu brutalmente informato delle intenzioni dei partigiani.
Provò a protestare, a chiedere udienza al Comandante, esibì copia dell’atto di resa, ma questo fu fatto a pezzi davanti ai suoi occhi.
Fu quindi malmenato e fatto oggetto di sputi in faccia.
Chiese infine che fosse solo lui a pagare e che fossero risparmiati i suoi soldati in virtù anche dei patti sottoscritti.
Non ci fu nulla da fare ed il drappello di quarantasei soldati fu condotto verso il muro perimetrale del cimitero di Rovetta dove erano stati approntati due plotoni d’esecuzione.
Il primo, dotato di normali fucili a ripetizione, sul lato nord est, comandato da tale Torri Battista, nome di battaglia “Fulmine” e l’altro, munito di potente mitragliatrice, agli ordini di certo Gusmeri Bortolo detto “Caserio”.
Il quarantasettesimo milite, il citato Fernando Caciolo, con azione temeraria riuscì a fuggire da una finestrella del bagno e a rifugiarsi nella canonica.
La guardia, probabilmente non se la sentì di sparare contro un ragazzo che voleva sfuggire ad un destino crudele.
L’esecuzione fu sommaria e spicciativa.
A gruppi di cinque per volta, i militi della Camilluccia, di età compresa fra i 14 e i 22 anni, furono barbaramente trucidati.
Per intercessione del prete ne furono risparmiati tre data la loro giovanissima età.
Fu una abbietta, spietata ed efferata rappresaglia nella quale venne dato sfogo ai più turpi istinti sanguinari.
I ragazzi che aspettavano con le lacrime agli occhi il proprio turno di morte, sentivano attraverso le scariche dei fucili a ripetizione contro i compagni che li precedevano, tutto l’orrore e l’angoscia per una stessa fine imminente.
I cadaveri, dopo essere stati spogliati di tutti gli effetti personali e persino degli scarponi poi distribuiti alla popolazione, trascinati per i piedi o scaraventati al di là del muro per risparmiare il disturbo del loro trasporto attraverso la porta d’ingresso, furono inumati alla rinfusa in tre fosse comuni da improvvisati necrofori, senza cassa, senza uno straccio di coperta che li avvolgesse e sotto pochi strati di terra e sassi in spregio ai più elementari principi di polizia mortuaria.
Risparmio al lettore altri agghiaccianti particolari emersi all’atto dell’esumazione dei resti avvenuti, con colpevole ritardo, a due anni e mezzo dall’eccidio.
Mi chiedo soltanto se i responsabili di cui si conosce nome, cognome, luogo e data di nascita e professione non abbiano avuto a loro volta dei figli e che educazione abbiano impartito loro.
Il sottotenente Panzanelli che fu il primo a cadere sotto il piombo degli aguzzini, negli attimi che precedettero l’esecuzione, redasse l’elenco dei morituri e lo consegnò al parroco Don Giuseppe Bravi affinché ne desse comunicazione alle famiglie e provvedesse al seppellimento ed alla redazione dell’atto di morte per l’eventuale riconoscimento.
Da chi partì l’ordine di eliminare i prigionieri è rimasto un mistero anche se durante le fasi processuali gli indagati fecero cadere le responsabilità sull’ufficiale alleato di collegamento “capitano Moicano” nel frattempo resosi irreperibile ed identificato, solo dopo lunghe ricerche, in Paolo Poduje, nato a Lubijana nel 1915 da genitori italiani e morto a Milano nel 1999.
Per correttezza di informazione, il parroco Don Giuseppe Bravi, ebbe sempre a smentire questa eventualità mentre lo stesso Poduje, prima di morire, si assunse invece tutta la responsabilità.
Naturalmente i responsabili del massacro a guerra ormai terminata, non subirono alcuna condanna in quanto dichiarati non punibili dall’articolo unico del Decreto Legislativo Luogotenenziale n. 194 del 12/04/1945, firmato da Umberto II di Savoia, che sanciva come azioni di guerra, le operazioni di ogni tipo messe in atto prima del 01 maggio 1945 da formazioni partigiane regolarmente inquadrate.
La sentenza a non procedere venne emanata il 21 aprile 1952 dalla Corte d’Appello di Brescia.
Molte responsabilità inevitabilmente ricaddero sul maggiore Pacifico che si defilò come fece Ponzio Pilato e sul parroco Don Giuseppe Bravi che non seppero o non vollero garantire l’incolumità dei prigionieri a loro affidati.
Molte reticenze, molte contraddizioni da parte del prelato nelle deposizioni davanti al Procuratore della Repubblica e alla Legione Territoriale dei Carabinieri.
Non solo non ebbe l’accortezza di avvertire le famiglie dei caduti, ma cercò con ogni mezzo di disorientare le ricerche e non fare venire alla luce la verità dei fatti.
Occultò per un anno l’ordinanza di esumazione emanata dal Prefetto di Bergamo ritardando le operazioni in modo tale da non permettere l’identificazione dei legionari e adducendo sterili pretesti.
Con tenace omertà tentò di nascondere i nomi degli assassini nel timore di essere a loro associato e non mancò di interpellare un legale per addormentare la voce della sua coscienza circa le proprie responsabilità.
Lodovico Galli, grande storico e ricercatore di documenti inerenti la Repubblica Sociale Italiana è stato il primo ad affrontare questo argomento e dobbiamo dargliene il giusto merito.
Nel suo volume, dato alle stampe oltre venti anni fa, “L’eccidio di Rovetta – 28 aprile 1945 – Una spietata rappresaglia nella bergamasca”, in merito ai ragazzi della Camilluccia spietatamente eliminati senza alcun processo, così si esprime: “
Abbandonarono i genitori e si arruolarono da umili gregari nella legione d’assalto ‘Tagliamento’, con l’unico scopo di combattere per la loro Patria”.
Si può disquisire all’infinito su questa affermazione ma non si può sovvertire il cammino della storia e ridare voce a questi sventurati ragazzi che, probabilmente, non si erano macchiati di alcun crimine, pur facendo parte di un reparto di una unità militare che, nel periodo della guerra civile, è stata responsabile di cruenti rastrellamenti e rappresaglie sulla popolazione inerme.
Si può rimarcare il fatto che non si ebbe a combattere per la patria facendolo in sinergia col nemico invasore, non si può omettere che la legione “Tagliamento” venne esplicitamente addestrata per l’attività di repressione antipartigiana stante la scarsa considerazione che i tedeschi avevano per le forze armate della R.S.I. e per i soldati italiani in generale, considerati di scarso supporto logistico, indisciplinati e più un peso che un reale valore militare, eccezion fatta per l’aviazione e la marina.
Per completezza d’informazione bisogna ricordare che alcuni di essi dovettero arruolarsi nella Tagliamento pochi giorni prima, perché accusati di fornire alimenti ai partigiani della Valle Camonica.
Don Michele Carlotto, cappellano del battaglione Camilluccia quando questo prese base a Valli di Pasubio, ebbe a scrivere: “
Erano illusi questi ragazzi-militari che avrebbero vinto la guerra, aspettavano con ansia che la bomba missilistica tedesca, la annunciata V2, risolvesse il conflitto, Convinti di poter rifare la marcia su Roma il 28 ottobre”.
La legione d’assalto ’Tagliamento’ della G.N.R., era composta da circa millecinquecento uomini al comando del console
Merìco Zuccàri.
Per inquadrare meglio la figura di questo fanatico comandante riporto testualmente un suo dispaccio del 10/09/1944 alla vigilia del cruento rastrellamento della Piana di Valdagno e della Lessinia.
Così si rivolgeva ai suoi soldati:
“I banditi catturati, dopo essere stati interrogati, devono essere passati per le armi, o meglio, impiccati. Dovranno prima di morire, specificare l’ubicazione dei campi ribelli e dei campi di concentramento per prigionieri. Tutte le case che hanno ospitato banditi, dovranno essere date alle fiamme”.
Qualche mese dopo, all’indomani del 25 aprile 1945, all’intimazione di resa formulata dal Corpo Volontari della Libertà, rispose per iscritto: “
La Valle Camonica è destinata ormai a diventare un campo di battaglia. Le truppe tedesche non si arrendono. Ad ogni azione di ostilità da parte delle ‘Fiamme Verdi’ saranno i paesi della valle a subire rappresaglia”.
La replica del comando partigiano fu perentoria ed altrettanto inquietante:
“
Abbiamo ricevuto la sua risposta negativa alla nostra intimazione di resa. Intimazione fattale a nome del Comitato di Liberazione Nazionale per l’Alta Italia.
Avevamo creduto di parlare da soldati italiani ad un soldato italiano, dal quale ci dividevano diversità di ideali e di concezioni politiche, ma al quale ci dovevano unire ancora i legami derivanti dall’aver tutti appartenuto ad uno stesso Esercito che un tempo aveva combattuto gli stessi nemici della nostra Patria. Ci siamo sbagliati.
Lei, Signor Merìco Zuccàri, non è più soldato e nemmeno un italiano, lei è un volgare e sanguinario capo al soldo dei nemici d’Italia.
Cerchi pure di difendere i suoi padroni tedeschi, a minacciare e ad attuare rappresaglie contro le popolazioni innocenti. Nessun militare della ‘Tagliamento’ sfuggirà alla punizione che lo attende.
Vi diamo una sola parola, e siate ben sicuri che la manterremo: noi “Fiamme Verdi” della “Tito Speri” vi giustizieremo tutti. Il Comandante ‘Sandro’.
Purtroppo mantennero la parola nei confronti dei legionari della Presolana.
Nei primi di maggio del 1945, il console Zuccàri venne bloccato con i suoi soldati a Revò (Tn).
Provvide immediatamente a tagliarsi ‘la mosca’, a riempire lo zaino di vettovaglie e fece perdere le sue tracce riparando prima in Svizzera e quindi, via Genova, per l’Argentina dove visse sotto false generalità.
Condannato a morte in contumacia, con sentenza poi tramutata in ergastolo e infine amnistiato, farà il suo ritorno in Italia nell’estate del 1959.
Nel dicembre dello stesso anno morì per un infarto cardiaco.
I giornali di stampo neo fascista dell’epoca, addussero che la morte fosse dovuta dalle forti emozioni in occasione dei festeggiamenti da parte dei commilitoni e paesani.
Probabilmente il suo cuore non resse alla ventata di libertà e democrazia e al fatto che tutti potessero esprimere le proprie opinioni senza abbassare il capo come pretendeva durante il ventennio e nel periodo della Repubblica Sociale Italiana.
Guido Assoni
Note bibliografiche:
Lodovico Galli - L’eccidio di Rovetta – 28 aprile 1945 – Una spietata rappresaglia nella bergamasca;
Bruno Cardini – Liberamente
Comitato Onoranze Caduti di Rovetta
Fondazione RSI
Redazione Araberara
.in foto: Zuccari; minacce della "Tagliamento" su una saracinesca.
ID66985 - 28/06/2016 13:17:41 - (bernardofreddi) -
Interessante la bibliografia ... si capisce tutto!