Al cimitero dei Burci
Sono un lacustre ed ho sempre guardato alle imbarcazioni con attrazione e meraviglia. Non solo la navigazione mi ha costantemente ispirato, ma tra le espressioni che trovo più appassionanti c’è “prendere il largo”
Fin dalla mia infanzia, ho infatti sognato e fantasticato sulle rotte dei navigatori che partivano verso mete lontane e sconosciute; ammiravo la loro audacia, la loro sicurezza, l’incoscienza con la quale sfidavano l’ignoto, consci del fatto che i limiti possono anche essere superati se in noi palpitano il senso di avventura e il desiderio di conoscenza.
Quando mio padre mi portava a trovare lo zio Pierì, che viveva di pesca e che ogni giorno usciva sul lago con la sua barchetta, provavo una grande gioia. Ricordo pomeriggi di sole, seduto nella barca a guardare attentamente il filo per pescare immerso in acqua e pronto a predare la fauna ittica del lago. Venni così a conoscenza dei nomi caratteristici di molte imbarcazioni e mi colpì il variegato mondo delle barche e delle loro funzioni.
Sentivo parlare di un tipo di imbarcazione, in verità non molto in uso dalle mie parti, il “Burcio”. Così era detta la tradizionale barca a fondo piatto utilizzata in particolare per la navigazione fluviale, per la pesca, per il trasporto di persone, ma in particolare per quello delle merci.
E un giorno mi capitò tra le mani un articolo di giornale che raccontava della “crisi del burcio”. Si parlava di una zona del Veneto, quella del trevigiano, tra i fiumi Sile e Cagnano, dove era particolarmente diffusa questo tipo di navigazione oltre che per il commercio anche per il turismo. Negli anni Settanta, però, il commercio fluviale cominciò ad andare in crisi, vinto dall’affermarsi di quello su strada. Molti armatori e barcari dei burci, allora, si decisero a mettere in atto una clamorosa azione di protesta contro i camion che toglievano loro il lavoro. Cominciarono ad affondare i loro burci nel fiume Sile e lo fecero soprattutto nel tratto di fiume davanti all’ex area dell’industria alimentare “Chiari e Forti”, a Casier, a pochi chilometri da Treviso.
Negli anni, poi, cespugli, alberi e canneti sono cresciuti in quella zona, e molti uccelli tipici del posto hanno nidificato tra le erbe. Fino a quando – come una fenice che risorge dalla cenere – gli scheletri dei burci sono riaffiorati dall’acqua e hanno creato un surreale paesaggio che affascina per la sua eloquente tragicità e per la maestosità del silenzioso messaggio che il turista più sensibile può cogliere.
Così oggi, partendo dalla piazza che si trova dietro la chiesa di Casier, si può gustare una piacevole passeggiata nel verde, godere del silenzio e della bellezza di sentieri costeggianti le verdi acque del Sile, attraversare passerelle in legno e giungere infine al tragico e commovente spettacolo del “cimitero dei Burci”.
Alcuni di questi conservano delle parti azzurre, colore che ricorda le piantagioni di lino che anticamente veniva coltivato nella valle del Sile.
Originale cimitero in verità. Ma quegli scafi scheletriti sembrano voler comunicare qualcosa: racconti di piacevoli navigazioni lungo il fiume, di fatica e di lavoro; di speranze e cambiamenti.
Il tempo intanto passa e loro parlano ancora.