Milano: serpenti, fantasmi e … pietà
Milano è una città frenetica, ricca di idee, moderna ma indissolubilmente legata da un nobile passato a una cultura che ancora si può sentire e vivere in molti luoghi
Una Milano che non è solo leggera, ma che si rivela città profonda, concreta, ricca di storia e di persone che con la forza la vogliono preservare.
Qualcuno ha detto che l'indagine è il sale di ogni conoscenza, in grado di trasformare nozioni talvolta troppo polverose in un’avvincente voglia di sapere. E allora eccomi nella meravigliosa basilica di Sant’Ambrogio alla ricerca di lontane leggende legate ai sotterranei misteri di Milano con la profonda consapevolezza che la leggenda è l’arte più audace.
Che ci fa una colonna di granito a sinistra dell’entrata in basilica? È una colonna anomala: se ne sta da sola e non sostiene niente. Sulla sommità poggia un serpente detto “di Mosé”, una fusione in bronzo donata nel 1007 al vescovo di Milano, Arnolfo, dalla principessa Stefania, che avrebbe dovuto andare in sposa all’imperatore Ottone III.
Quella scultura si dice che sia il serpente forgiato dallo stesso Mosé quando nel deserto si servì di quel manufatto per salvare il proprio accampamento dai serpenti velenosi. Il serpente di bronzo è uno dei segni premonitori della fine del mondo. Rimarrà infatti sulla colonna in Sant’Ambrogio fino al giorno del giudizio quando poi prenderà vita, si animerà e scenderà a terra per dirigersi verso la valle di Josafat.
Possiamo quindi stare tranquilli! Finché lo vedremo sulla cima di quella colonna, vuol dire che il mondo sta ancora vivendo la sua quotidiana vicenda!
Anche Satana in persona frequentò questa basilica! Un giorno si presentò a sant’Ambrogio e provò inutilmente a tentarlo. Si dice che il santo vescovo, non solo resistette agli inviti del demonio, ma che addirittura lo colpì nel sedere con un calcio talmente violento da spingerlo in avanti e farlo conficcare con le corna in una colonna che oggi si trova all’esterno della basilica. In quella colonna si possono ancora scorgere i due buchi provocati dalle corna di Satana. Da quei fori, a volte uscirebbero un intenso odore di zolfo e rumori infernali.
E dopo la visita alla basilica del santo patrono di Milano, passeggio per i corridoi della pinacoteca di Brera cercando invano un quadro misteriosamente scomparso. Si intitolava “La ninfa dei boschi”. Una notte di qualche anno fa alcune telecamere di sorveglianza avevano intercettato uno strano fenomeno: un'ombra usciva dal dipinto e lo abbandonava. Di quel quadro non rimane traccia; c’è chi dice che non sia mai stato esposto.
Verso il tardo pomeriggio avverto un’inquietante compagnia mentre passeggio per i viali di Parco Sempione, attorno al Castello Sforzesco.
Qui infatti è possibile incontrare “la donna velata”, una signora vestita di nero, dal volto nascosto, anticipata sempre da un intenso profumo di fiori, forse di viole. La sua presenza è percepita anche dalla leggera brezza che provoca nell’avvicinarsi, quasi volasse sfiorando il terreno. Emana un fascino talmente irresistibile e la sua presenza provoca una tale attrazione che ci si sente spronati a seguirla.
Attraverso i viali del parco conduce alla sua villa e lì si concede ai suoi prescelti. Ma quando, risvegliati dallo stordimento, cercherete alla luce del sole quella misteriosa villa, non la troverete più. L’enigmatica donna velata sarebbe una certa Antonietta che avrebbe abitato in piazza Castello al numero 29. In vita le avrebbero espropriato la villa al fine di abbatterla per fare posto ai grandi alberi che ancora oggi possiamo vedere nel parco.
Altri spettri si aggirano nei pressi del castello: quello di Isabella da Lampugnano, che, tacciata di stregoneria, morì sul rogo. O quello di Bianca Maria Scappardone, una donna decapitata nel 1526 proprio dove oggi sorge il parco. E Bona di Savoia la scorgerete a una finestra che piange per la perdita dei suoi parenti.
La mole del castello Sforzesco appare sullo sfondo con la sua bella torre centrale. Al suo interno molti interessanti musei espongono gran parte del patrimonio artistico milanese. E così, tra strumenti musicali, quadri e oggetti d’arte, maioliche, costumi, arazzi, oreficerie, capita di trovarsi di fronte a un Michelangelo tragico e incompiuto. È la pietà Rondanini, opera del Buonarroti ormai anziano, che rispecchia il tramonto della vita dell’artista proprio quando anche il Rinascimento concludeva la sua radiosa giornata. Che profonda differenza di vedute tra la Pietà di Milano e quella composta e delicata che il giovane Michelangelo scolpì nel candido marmo carrarese e che oggi si può ammirare a Roma nella basilica di San Pietro!
Nella gloria barocca del Vaticano, la splendida Pietà michelangiolesca conquista per perfezione, per dolcezza e bellezza. Al punto che il dolore e la morte si impegnano in una sintesi artistica di linearità e armonia.
Nello spazio vuoto del castello milanese, dietro la piombatura delle finestre medievali, lontano dalla gloria e dagli splendori della grande basilica romana, la Pietà Rondanini sembra invece un’informe scultura ancora imprigionata nella morsa del marmo. I tratti appena accennati, scalfiti e abbandonati, sono immagini di un’anima non più giovane, che si consegna volontariamente al mistero della morte. Le linee si contorcono, il volto di Maria è disperato e privo di forza. È il testamento spirituale di Michelangelo. Il Cristo è fuso al corpo della madre in un abbraccio commovente. La morte del figlio è immensa disperazione, è angoscia e paura. Maria non siede sicura con il suo figlio sulle ginocchia. Si sforza di restare in piedi. Avverte lo schianto di un figlio che cade verso il basso e che lei con le sue povere forze non riesce a trattenere. La Pietà di Milano precipita nel marmo stesso da cui stava nascendo. È la parentesi conclusiva della vita dell’artista.
Uscendo da quella stanza sono stato più volte tentato di tornare indietro. Di fermarmi nuovamente a contemplare quella solitudine. Senza gloria, senza resurrezione, senza tomba vuota.
La Pietà Rondanini è ferma alla sera del Venerdì Santo. È silenzio e attesa. E di fronte ad essa ci si sente molto soli.