«Cicci muorti»
Se tutti conosciamo l’odierno Halloween e le sue origini, non molti conosceranno un'antica tradizione partenopea legata alle festività del 1 e 2 novembre
Il 1 novembre 1904 Matilde Serao, celebre giornalista partenopea e prima donna a fondare e dirigere un giornale, descrisse in un articolo su “Il Giorno” un'usanza rimasta in vigore fino agli Anni ‘70: anticamente a Napoli anche la morte aveva un sapore di dolce.
Il 2 novembre, i bambini del popolo erano soliti vagare per la città con il cosiddetto “tavutiello”, un salvadanaio a forma di bara, realizzato con materiali riciclati e decorato con teschi e ossa, per chiedere confetti e monete per accendere una candela per chi non c'è più.
Al posto dell'ormai noto “dolcetto o scherzetto” o dell'inglese “trick or treat”, a Napoli si chiedevano i “cicci muorti”, ossia dei chicchi di grano dolcificati con miele o zucchero, noti per essere simbolo di vita eterna.
Si trattava di un piccolo omaggio sia per i vivi che per i morti.
Un'altra radicata tradizione sta nella preparazione del “murticiello”, anche detto “il torrone dei morti”.
Tradizionalmente a forma di bara, poi rotonda, veniva preparato in famiglia per parenti, amici e… defunti.
È proprio con un pensiero rivolto a questi ultimi che nacque un torrone al cioccolato così morbido da sciogliersi in bocca, perché “’e muorte nun tengono ’e riente!” (i morti non hanno i denti).
Per rispettare la tradizione, si dovrebbe dare il primo morso in silenzio, pensando ai propri cari con affetto. E dopo si può ridere, brindare e festeggiare con tutta la famiglia.
Oltre al torrone dei morti, sulle tavole partenopee imbandite per i defunti si trovavano anche diverse altre prelibatezze: si credeva che i morti venissero a trovare i propri cari e questo veniva visto come un gesto di affetto, che non incuteva timore.
Per indirizzare le anime verso casa, in occasione della Festa delle Lucerne, a Somma Vesuviana si accendevano centinaia di lanterne e zucche intagliate con espressioni sorridenti.
A Napoli vita e morte hanno sempre convissuto in un binomio affettuoso e ironico, che ad un occhio esterno potrebbe sembrare macabro, ma in realtà si trattava di un tentativo di esorcismo, soprattutto quando la povertà dilagava e i luminosi sorrisi dei bambini si spegnevano troppo in fretta, per incidente o per malattia.
Giuseppe Marotta, scrittore e sceneggiatore, in “L'oro di Napoli”, scrisse che essi “ridenti e furiosi non sentono la morte che li chiama e li conta come la chioccia fa con i pulcini, ma sono pieni della necessaria dimestichezza con lei”.
Halloween e il Giorno dei morti a Napoli non erano paura, terrore, spavento, ma connessione: tutt'oggi la morte non è altro che una parte della vita.
Chi non c’è più non se ne va mai davvero, ma resta nei ricordi, nell'affetto dei vivi.
Queste tradizioni, i racconti, le sceneggiature teatrali, come la celeberrima “’A livella” di Totò, mostrano il legame che questa città ha da sempre con l'aldilà e insegna, a napoletani e non, che persino la morte e il dolore della perdita possono essere sconfitti con un sorriso e un po’ di cioccolata.
“Quando io morirò, tu portami il caffè, e vedrai che io resuscito come Lazzaro” – Eduardo De Filippo
Giselle Passannante Grimaldi








