07 Gennaio 2024, 07.53
Eco del Perlasca

Solitudine

di Anna Fusco

L’isolamento si manifesta nel trascorrere del tempo in solitudine, mentre la solitudine è trovare tale condizione sgradevole


Tutti noi, in un momento o nell’altro della nostra esistenza, abbiamo sperimentato la solitudine: quando nessuno sembra voler condividere un pasto con noi, quando ci troviamo in una città sconosciuta o quando ci rendiamo conto che non siamo stati inclusi nell’elenco degli invitati per un evento sociale.
Tuttavia, in tempi recenti, questa sensazione sporadica di isolamento è diventata una condizione cronica per milioni di individui. In Italia, il 55% della popolazione dichiara di soffrirne, con una prevalenza particolare tra i 18 e i 34 anni.
Negli Stati Uniti, invece, il 58% degli abitanti afferma di sentirsi solo con regolarità. Viviamo in un’epoca di connettività senza precedenti nella storia dell’umanità, eppure, paradossalmente, molti di noi si sentono isolati la maggior parte del tempo.

È importante sottolineare che “essere soli” e “sentirsi soli” non sono concetti intercambiabili.
È possibile provare un senso di beatitudine nella solitudine, così come è possibile detestare ogni istante trascorso in compagnia di altri, siano essi amici, familiari o colleghi.
Questo stato d’animo di disagio sociale è ciò che viene definito “isolamento”. D’altro canto, la “solitudine” è un’esperienza puramente soggettiva e individuale: se ti senti solo, allora sei solo.

Un pregiudizio comune tende a correlare la solitudine con l’incapacità di comunicare efficacemente con gli altri o di comportarsi adeguatamente in pubblico.
Tuttavia, recenti ricerche hanno evidenziato che, negli adulti, le competenze sociali non subiscono variazioni significative a prescindere dal grado di solitudine sperimentato.
La solitudine può, infatti, colpire chiunque.
Ricchezza, notorietà, potere, bellezza, abilità sociali, una personalità affascinante…, nessuno di questi fattori può offrire una protezione assoluta da questo sentimento, in quanto la solitudine è intrinsecamente legata alla nostra evoluzione.

Essa è una risposta fisiologica, paragonabile alla fame, come sottolineato dalla Teoria Polivagale di Stephen Porges del 2014. Così come la fame ci spinge a prestare attenzione ai nostri bisogni fisici, la solitudine ci ricorda dei nostri bisogni sociali.
Questo era di fondamentale importanza milioni di anni fa, poiché fungeva da indicatore delle probabilità di sopravvivenza. La selezione naturale premiava i nostri antenati per la loro propensione alla collaborazione e alla formazione di relazioni con altri individui.
I nostri cervelli si sono evoluti e hanno sviluppato la capacità di comprendere i pensieri e le opinioni altrui, facilitando così la formazione e il mantenimento di un circolo sociale. Questa abilità di “cogliere ciò che gli altri pensano” è ormai parte integrante della nostra essenza.

Nell’antichità, si nasceva in villaggi composti da 50 a 150 individui, con i quali si condivideva l’intera vita assieme. Soddisfare le necessità caloriche, rimanere al caldo e al sicuro o prendersi cura della prole erano compiti ardui per un individuo solitario; pertanto, la sopravvivenza era strettamente legata alla vita comunitaria.
L’isolamento equivaleva a una condanna a morte; era quindi quasi obbligatorio mantenere buoni rapporti con il gruppo. Per i nostri antenati, la minaccia più grande alla sopravvivenza non era rappresentata dalle fauci di un leone, ma dall’esclusione sociale derivante da comportamenti scorretti o anomali.

Per prevenire tale eventualità, il nostro organismo si è evoluto, dando origine al “dolore sociale”, un adattamento eccezionale all’estromissione. Questo meccanismo fungeva da campanello d’allarme per un individuo, segnalando che il comportamento individuale lo stava allontanando dal resto del gruppo e che era necessario ristabilire l’equilibrio precedente.
Provando “dolore”, coloro che erano stati emarginati facevano tutto il possibile per essere accettati nuovamente. Questo spiega perché la solitudine era percepita in maniera così straziante. Questi meccanismi per mantenerci connessi hanno funzionato egregiamente nella storia, fino a quando l’umanità ha iniziato a crearsi un nuovo mondo.

L’epidemia di solitudine che osserviamo oggi ha avuto origine durante la Rivoluzione industriale: le persone abbandonavano i loro villaggi e i loro cari per lavorare nelle fabbriche.
Le comunità locali, che erano esistite per centinaia di anni, iniziarono a dissolversi mentre le città crescevano. Intanto che il nostro mondo diventava moderno, questo modello economico continuava a ripetersi, tanto che oggi è considerato la norma: viaggiamo lontano alla ricerca di lavoro, amore o istruzione, lasciando il nostro nucleo sociale alle spalle. Incontriamo meno persone di persona e meno frequentemente rispetto al passato.

Negli Stati Uniti, il numero medio di amicizie intime è diminuito da 3 nel 1985 a 2 nel 2011. Molte persone si ritrovano a vivere in uno stato di solitudine cronica senza averlo realmente desiderato: raggiungono l’età adulta e si ritrovano sommersi da impegni lavorativi, universitari, affettivi, familiari, o semplicemente intrattenuti da piattaforme di streaming come Netflix…
Il tempo sembra non essere mai sufficiente!

L’aspetto della vita che risulta più semplice da sacrificare è il tempo dedicato agli amici, fino a quando un giorno ci si sveglia all’alba e ci si rende conto di sentirsi isolati, desiderosi di amicizie più profonde; ma, la creazione di legami forti in età adulta può risultare difficile, e così la solitudine diventa cronica. Nonostante i nostri interessi siano cambiati, le nostre menti sono fondamentalmente le stesse di 50.000 anni fa: secondo l’approccio di Stephen Porges, siamo ancora biologicamente predisposti a coesistere con gli altri.

Numerose ricerche hanno evidenziato che lo stress derivante dalla solitudine cronica rappresenta uno dei fattori più nocivi per la salute umana. Questa condizione può accelerare il processo di invecchiamento, aumentare la mortalità a causa del cancro, accelerare la progressione dell’Alzheimer e indebolire il sistema immunitario.

La solitudine cronica è due volte più letale dell’obesità e altrettanto pericolosa quanto fumare un pacchetto di sigarette al giorno. L’aspetto più preoccupante è che, una volta diventata cronica, la solitudine può autoalimentarsi. I dolori fisici e sociali utilizzano meccanismi comuni nel nostro cervello, che interpretano entrambi come minacce. Di conseguenza, il “dolore sociale” può innescare immediatamente un comportamento difensivo.

Quando la solitudine si cristallizza in una condizione cronica, la nostra psiche si mobilita per difenderci, interpretando ostilità e pericolo in ogni situazione. Tuttavia, la questione è ancora più complessa: in uno stato di solitudine, il cervello diventa estremamente sensibile, recettivo e allarmato dagli stimoli sociali; ma, paradossalmente, la sua capacità di interpretarli si deteriora.
Si presta una maggiore attenzione agli altri, ma la comprensione di questi ultimi diventa più ardua. La regione cerebrale dedicata al “riconoscimento facciale” entra in uno stato di disfunzione e inizia a percepire ostilità in volti neutri, erodendo la fiducia nei confronti degli altri. La solitudine ci induce a prevedere il peggio dalle persone che ci circondano.
Per autoprotezione, potremmo sviluppare comportamenti egocentrici o narcisistici, atti a farci apparire distanti, meno amichevoli e più strani di quanto siamo in realtà.  

Se la solitudine rappresenta una presenza costante nella tua vita, il primo passo verso il miglioramento consiste nel riconoscere il ciclo vizioso in cui ti trovi intrappolato.
Di solito, il processo si sviluppa come segue: un sentimento iniziale di isolamento genera tristezza e tensione, che porta a percepire le interazioni con gli altri in maniera negativa.
Questo, a sua volta, alimenta pensieri sempre più negativi su te stesso e sugli altri, modificando il tuo atteggiamento.
Inizi a evitare le interazioni sociali, il che comporta un ulteriore isolamento. Questo ciclo tende a intensificarsi con il passare del tempo, diventando sempre più difficile da interrompere. La solitudine può portarti a sederti lontano dagli altri in classe, a non rispondere alle chiamate degli amici, a declinare gli inviti fino a quando questi cessano di arrivare.  

Ognuno di noi ha una storia unica e se la tua è caratterizzata da un senso di isolamento, col passare del tempo il mondo esterno può diventare un riflesso di ciò che percepisci. Questo è un processo graduale che può richiedere anni e può culminare in depressione e in uno stato mentale che ostacola la formazione di relazioni, anche quando si è disposti ad instaurarne. Il primo passo per affrontare questa situazione è accettare che la solitudine è un sentimento del tutto normale e non qualcosa di cui vergognarsi.
Ogni individuo sperimenta la solitudine in un momento o nell’altro della propria vita; si tratta di un’esperienza universale. Non è possibile eliminare o nascondere un’emozione nella speranza che svanisca magicamente, ma è possibile accettare di provarla e affrontare le sue cause.

Ovviamente, ogni persona e situazione è unica e un’autoriflessione potrebbe non essere sufficiente. Se ritieni di non essere in grado di affrontare la situazione da solo, non esitare a cercare aiuto professionale. Non è un segno di debolezza, ma di coraggio.

Gli esseri umani hanno forgiato un mondo che può essere descritto come straordinario, tuttavia, nonostante le nostre incredibili realizzazioni, nulla di ciò che abbiamo creato è in grado di soddisfare o sostituire il nostro fondamentale bisogno di interazione. Mentre molte specie animali traggono ciò di cui hanno bisogno dal loro ambiente circostante, noi, come esseri umani, dipendiamo gli uni dagli altri per soddisfare i nostri bisogni.

Proviamo un approccio diverso oggi;
impegniamoci a contattare spontaneamente qualcuno, indipendentemente dal fatto che ci si senta un po’ soli o si desideri migliorare la giornata di un’altra persona. Potrebbe essere qualcuno con cui non si è parlato da un po’ di tempo, un parente che è diventato un estraneo, un collega da invitare a prendere un caffè, o potrebbe essere l’occasione per frequentare un luogo che di solito si evita per timore di pregiudizi o per pigrizia, come un evento sportivo.
Ognuno di noi è unico, quindi solo tu saprai cosa è “giusto” per te! Potrebbe darsi che tu non ottenga alcun risultato tangibile, ma non importa, l’obiettivo non è quello di avere aspettative concrete, ma semplicemente di aprirsi un po’, di esercitare i propri “muscoli sociali” affinché si rafforzino nel tempo, o di aiutare gli altri a fare lo stesso.

In un mondo sempre più connesso, dobbiamo ricordare che, nonostante i progressi della tecnologia, nulla può sostituire il calore e la comprensione di un altro essere umano. La solitudine ci ricorda che siamo, in fondo, creature sociali, e che le nostre vite sono arricchite dalle connessioni con gli altri.
 
Anna Fusco, 1B liceo scientifico




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