Il «tropo» segreto degli sporcaccioni
di Leretico

Se per caso o per diletto foste mai arrivati a visitare il salone dei corazzieri nel palazzo del Quirinale a Roma, avreste potuto ammirare i pregevoli affreschi di un noto artista manierista del Seicento chiamato Agostino Tassi


Fu un raffinatissimo pittore ed ebbe committenti molto ricchi da cui ricevette l’incarico di affrescare palazzi nobiliari ed aristocratici della Roma dei primi anni del Seicento.
Fu anche amico di Orazio Gentileschi, ma ebbe la malaugurata idea di stuprarne la figlia. Famoso il processo che ne derivò, in cui il Tassi fu condannato.

Nel processo tentò diverse manovre per evitare la condanna, non ultima quella di screditare Artemisia Gentileschi con accuse infamanti relative alla sua presunta immoralità sessuale.

Nel Seicento una donna stuprata non aveva futuro, a meno che il violentatore non avesse acconsentito a sposarla.

Ebbene, il Tassi subito dopo lo stupro promise ad Artemisia che l’avrebbe sposata, cosa che tranquillizzò il padre Orazio e soprattutto lei, la figlia. In realtà lo stupratore non aveva alcuna intenzione di portarla all’altare, essendo egli già sposato. Le sue promesse erano una mera manovra dilatoria che, infatti, non durò a lungo.

Orazio Gentileschi chiamò in giudizio il Tassi per lo stupro della figlia nel maggio del 1612 e nel novembre dello stesso anno ci fu la condanna. Lo stesso Tassi decise di andare in esilio per cinque anni, ma molto prima del termine della pena era già a Roma a dipingere un nuovo affresco per un facoltoso signore.

Ora, vorrei che qualcuno, se ce la fa, mi spiegasse perché il salone dei corazzieri al Quirinale non è stato oggetto del vandalismo quanto lo è stata la statua di Indro Montanelli a Milano il 13 giugno scorso.

I funesti imbrattatori che l’hanno presa di mira, hanno fatto colare una vernice rosso -sangue sulla testa e sul busto e, infine, hanno scritto sul basamento in granito parole infamanti: “razzista” e “stupratore”.

Stessa sorte mi sarei aspettato per gli affreschi del Tassi al Quirinale, visto che il suo autore era stato condannato, come ormai sappiamo, proprio per stupro. E invece no: il Tassi passi, non il Montanelli.

Dopo qualche mese dalla vandalizzazione della statua di Montanelli, avvenuta come si diceva a metà giugno di questo tribolato 2020, mi è venuta voglia di ripensare alla motivazione di quel gesto “barbaro”. Gli esagitati verniciatori volevano colpire simbolicamente una parte politica ben precisa, che oggi si manifesta con toni nazionalisti e sovranisti, utilizzando il primo simbolo che avevano a disposizione.

Purtroppo, è noto storicamente che quando si comincia con lo sfregio dei simboli, si finisce irrimediabilmente con l’uccisione degli uomini. Tuttavia, la guittezza dell’atto vandalico perpetrato a Milano non sta solo nel puerile tentativo di sfruttare la fama dell’attaccato per salire agli onori delle cronache, ma anche nel “tropo”, nello slittamento, nella deviazione nascosta contenuta nel significato dell’atto. Uno sfruttamento indebito del passato per dare una punizione circostanziata al nemico di oggi. Pessima attitudine.

Cerco di farvi capire meglio.
L’orda imbrattatrice italiana nasce, come altre, dall’uccisione da parte della polizia negli Stati Uniti del nero George Floyd, avvenuta il 25 maggio scorso. Sulla spinta dell’indignazione popolare provocata da quell’episodio, in tutto il mondo sono stati abbattuti monumenti dedicati a uomini in qualche modo accusati di razzismo o legati alla tratta degli schiavi.

In Italia, per ragioni storiche, scarseggiavano monumenti di egual fatta e, dunque, si è dovuto cercare bene. Chi ha voluto vandalizzare il Montanelli monumentale, conosceva il Montanelli dalla gioventù fascista, senza averlo mai perdonato.

Sull’onda emotiva alzata dal movimento “Black lives matter”, costoro hanno approfittato per sfoderare il loro “tropo” segreto che, come una tavola da surf, gli ha permesso di cavalcare quell’onda evitando l’accusa di essere dei semplici, vili, indomiti sporcaccioni.

La grandezza del giornalista, dello storico, dello scrittore sembrava a costoro solo una parentesi di poco conto, rispetto alla giusta punizione che si sarebbe dovuta comminare a suo tempo al Montanelli. La gambizzazione che gli riservarono quelli delle Brigate Rosse nel 1977 è per loro praticamente insignificante. Quel 13 giugno 2020 la persona da punire non era disponibile, hanno virato quindi sulla sua statua.
Ora mi viene da dire, e ben qui lo faccio, che la logica di un tale gesto è veramente assurda, anzi inesistente.

Seguendo lo stesso schema si dovrebbero far saltare in aria tutti i simboli del passato che sono nati, in un modo o nell’altro, sotto regimi dittatoriali o in nome di quelli. Che ce ne facciamo dunque dei templi greci ancora in piedi in Italia, visto che la società greca dipiù di due millenni fa era schiavista e razzista? Li dovremmo radere al suolo?
Ci sarebbero migliaia di esempi disponibili per confutare la tesi che sia giusto distruggere monumenti storici perché la visione politica odierna li considera “contro” il modo di sentire attuale. Ve li risparmio.

Resta in ogni caso la negatività di quel gesto, che non sta solo nella violenza indiretta costituita dallo sfregio verso un certo modo di vedere il mondo, cosa sempre disdicevole in democrazia, ma soprattutto sta nell’aver voluto celare la reale motivazione politica del gesto, sotto le spoglie della lotta al razzismo e allo stupro. Impostura, sfruttamento indebito, volgare segno di inciviltà portata avanti a colpi di vernice rossa e di “tropi” segreti.

E così, il messaggio passato con il gesto dei furenti imbianchini milanesi, è che si può utilizzare un monumento, un oggetto simbolicamente carico di storia, a fini di lotta politica contingente, senza pagare alcun dazio.

Altrettanto indecente sarebbe quindi la vandalizzazione a Roma degli affreschi del Tassi, che non sappiamo se fu razzista, ma certamente fu stupratore. Visto i tempi che corrono e le menti brillanti che circolano, non è detto che in futuro non possa avvenire.
Leretico
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