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domenica, 17 novembre 2024 Aggiornato alle 08:00La storia

Il fucile che uccise Kennedy partì da Storo?

di Giuliano Beltrami

In occasione dell’anniversario dell’attentato al presidente Usa John Kennedy, il giornalista Giuliano Beltrami ha effettuato un’indagine in merito all’arma del delitto che pare abbia una provenienza italiana

 

Zona industriale di Storo dove c'era la fabbrica d'armi

 

Il giornalista e scrittore Giuliano Beltrami da sempre impegnato nel sociale e ora anche Presidente di Jiudicaria Centro Studi di Tione, nativo di Darzo-Storo, tra i suoi tanti impegni è corrispondente da anni del quotidiano L’Adige di Trento, ed ecco come si presenta nella trasmissione “Persone” di Rai Tre nazionale (2022) curata dal giornalista Stefano Cangemi, in visione sul sito di YouTube di Vallesabbianews:

 

 

Sono laureato in lettere, ho insegnato per parecchi anni e poi mi sono licenziato, soprattutto per una grande passione al giornalismo.

Io sono un non vedente o cieco per dirla in termini crudi, cieco dalla nascita, e fare il giornalista non è semplice per uno che non vede e non mi piace fare il giornalista seduto al computer: preferisco girare perché mi piace annusare la realtà.

Siamo a settantacinque km da Trento e ho capito che potevo dare un contributo al mio territorio, oggi e allora, tutti i giorni con il giornale (L’Adige) e questo mi piace molto, racconto la mia comunità”.

 

In occasione del prossimo anniversario dell'uccisione del Presidente John Kennedy, sessantunesimo, che cade il 22 novembre prossimo, ecco cosa scrive Giuliano Beltrami per Vallesabbianews in questo suo “special”, dedicato all'arma che uccise Kennedy, notizia anche questa del suo territorio, perché sembra che tutto partì da Storo.

Una ricerca accurata e documentata in modo particolare per chi non conosce questo retroscena sull'arma che uccise il Presidente Kennedy a Dallas.

 

Ecco cosa scrive.

 

22 novembre 1963.

Dalle radio e dalle televisioni di tutto il mondo rimbalza quella che oggi (con la sintesi tipica dei mass media del terzo millennio) verrebbe definita una “notizia choc”. Il mondo sbigottisce quando gli speaker radiofonici leggono: “Dallas. Il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy è stato assassinato. Contro di lui tre colpi di arma da fuoco...”.

 

Ecco, l’arma da fuoco. A noi (con un pizzico di localismo magari non troppo edificante) tocca oggi concentrarci proprio su questa. L’arma che sparò contro il “presidente della nuova frontiera” veniva dal Trentino, anzi, da una delle valli più periferiche del Trentino.

 

A dire il vero la notizia non è sicura al cento per cento, nonostante siano passati più di sessant’anni da quel giorno di novembre: fa parte dei misteri che circondano la morte di uno dei più popolari presidenti che gli Stati Uniti abbiano avuto. Non è nemmeno il principale, considerato che dell’assassinio non si conosce ancora chi sia il colpevole, chi sia il mandante e perché qualcuno abbia armato la mano del killer. E non saremo certo noi a strappare un velo tanto fitto.

 

Scendiamo dalla stratosfera dei misteri di Stato e planiamo sulla terra per capire come stavano le cose rispetto al fucile, sulla cui provenienza fece lo scoop già negli anni Sessanta quello che fu uno dei più noti e più bravi giornalisti trentini: Piero Agostini, passato per la Rai e per i due quotidiani locali, prima di approdare, dopo la direzione de L’Adige, a Bresciaoggi, nella cui redazione sarebbe stato stroncato da un infarto.

 

Ad aiutarci è un’inchiesta di due giornalisti, allora (poco più di dieci anni fa) corrispondenti dagli Stati Uniti del quotidiano La Stampa di Torino, Paolo Mastrolilli e Maurizio Molinari, i quali hanno scritto un libro intitolato “L’Italia vista dalla Cia”, il cui contenuto è facilmente immaginabile: hanno trascritto i documenti dello spionaggio americano riferiti all’Italia dai quali è stato tolto il segreto.

 

L’INTERESSE DI ANDREOTTI

Una settimana dopo l'uccisione del presidente Kennedy, il 29 novembre 1963, come riferisce il dispaccio della Cia, “il ministro della Difesa italiano Giulio Andreotti ha chiesto un rapporto riguardo le caratteristiche e le possibili origini del fucile usato nell'assassinio. Non siamo stati capaci di accertare la ragione esatta per cui lo ha voluto, o quale uso ne abbia fatto”, commenta con un certo stupore l’estensore del documento. È possibile che Andreotti, da ministro della Difesa, conoscesse la storia dei fucili “Modello 91” e sospettasse qualcosa sulla provenienza di quello usato da Lee Harvey Oswald? Certo, Andreotti, in fatto di misteri, non era secondo a nessuno.

La storia di questo fucile è misteriosa, anche perché di ‘91’ italiani in quel tempo era pieno il mondo, ed in particolare l’Africa e l’Europa meridionale: infatti dall’Italia (noto colabrodo per commerci legali e soprattutto illegali di armi) ne partirono a migliaia dopo il 1935. Qualcuno potrebbe essere finito negli Stati Uniti fuori dagli stock di cui parleremo più avanti.

 

IL MODELLO 91

“Il fucile apparentemente usato nell'attacco criminale contro il presidente Kennedy - racconta il dispaccio trascritto da Mastrolilli e Molinari - è un ‘Modello 91’, calibro 7.35, modificato nel 1938. La descrizione apparsa sulla stampa italiana e internazionale di un ‘Mannlicher Carcano’ è un errore. Il ‘Modello 91’ è un fucile di origine austriaca, derivato dallo ‘Steyer’”. E se lo dice la Cia...

Non vorremmo addentrarci troppo nelle caratteristiche del “Mannlicher”, arma ungherese il cui caricatore è stato adottato dal “Modello 91” italiano, modificato da Carcano, tecnico specializzato di una fabbrica di Terni nel 1890-91, da cui il nome. Il “91”, per dirla con il documento della Cia, “è il risultato di una combinazione di idee prese da varie armi straniere: caricatore Mannlicher, modello Steyer, otturatore Mauser”.

 

 

L’ARMA DEL DELITTO

“Alcuni resoconti - spiega il documento americano - indicano un ‘Modello 91’ calibro 6.5 modificato nel 1941, e altri un 7.35 modificato nel 1938. Ma il tipo di arma usata nell'assassinio Kennedy non è ancora noto, almeno in Italia, e in ogni caso il telescopio fissato sul fucile non è italiano e non è stato montato là”. Ricordiamo che il documento è del 31 dicembre del 1963, nemmeno quaranta giorni dopo i fatti di Dallas.

 

E qui veniamo alla nostra terra, perché, come ebbe a scrivere Piero Agostini, quell’arma avrebbe potuto far parte dello stock di fucili modificati a Storo, in valle del Chiese, lembo sud-occidentale del Trentino, ad un passo (stavamo per dire ad un tiro di schioppo) dal confine con la Lombardia.

 

L’antefatto è una storia tipica all’italiana, e la raccontano Mastrolilli e Molinari. Nel 1958 le autorità militari decisero di eliminare tutti i “Modello 91”, calibro 6.5 e 7.35, perché ormai obsoleti. Mentre l'esercito e l'aviazione si misero d’accordo per organizzare un’asta, la marina si arrangiò da sola, vendendo 26.000 fucili alla più nota fabbrica italiana di armi, la Pietro Beretta di Gardone Val Trompia, che a sua volta li cedette alla Comir Creation di New York.

 

Quanto all’asta per aggiudicarsi qualcosa come 570.000 fucili dell’esercito e dell’aviazione, fu oggetto della concorrenza di tre ditte americane: la Adam Consolidated Industries, la Interarmco e la Sidem International. La trattativa non fu facile, ma alla fine la Adam si aggiudicò il contratto, e nell'aprile del 1960 cominciò a ricevere le consegne. Prima di partire per l’America i fucili passavano però da Storo.

 

STORO: IN MEZZO ALLA CAMPAGNA SORGE UN CAPANNONE INDUSTRIALE

È la fine degli anni Cinquanta ed il grosso borgo del Chiese è ancora un paesone agricolo. La parte storica è costruita a ridosso della montagna, con le viuzze che si arrampicano verso la chiesa, il cimitero e la casa di riposo. Nei “vaù” (gli androni delle grandi case contadine) si ripongono i carri al ritorno dai campi, mentre sui solai si mette ad essiccare il granoturco. Nella plaga che si estende a sud del paese e si allunga fin quasi a lambire la sponda del lago d’Idro si coltivano granoturco, appunto, frumento e tabacco.

 

Ma un giorno, sul finire degli anni Cinquanta, arriva un imprenditore bresciano, Luciano Riva, intenzionato a piantare un capannone per produrre ciò che i bresciani sanno produrre: componenti per armi. Riva ha portato con sé tre tecnici, mentre gli operai vengono assunti in zona. Comincia così la produzione per gli armieri bresciani. Poco dopo all’ombra della Rocca Pagana giunge un altro personaggio.

 

Si chiama Alberto Bagnasco, si presenta come avvocato ed è il rappresentante legale in Italia della Adam, l’azienda che ha vinto la gara per l’acquisto dei fucili dell’esercito e dell’aviazione.

“Ciò che dovevamo fare”, ci raccontava in occasione del cinquantesimo anniversario dell’attentato Eligio Pianta, in pensione nella sua casa di Castel Mella, uno dei tecnici portati da Riva, “era accorciare la canna dei ‘91’”. “Effettivamente”, confermava Costanzo Coppi, capo della Riva per circa un anno e mezzo, “arrivavano da Roma autotreni carichi di fucili con le canne lunghe. Noi dovevamo tagliare la canna e modificare l’arma per farla diventare un ‘91-38’. L’azienda aveva messo in piedi anche il reparto di brunitura, e si lavorava a ritmo continuo giorno e notte, perché i fucili che arrivavano erano decine di migliaia. Noi lavoravamo anche per i Lomumba dell’Africa”. Di fronte alla nostra faccia perplessa, si giustificava: “Allora li chiamavano così”.

 

La Adam trasporta negli Stati Uniti circa 100.000 fucili a più riprese, con una forte campagna di marketing per venderli. Li aveva comperati per un prezzo medio tra 1,10 e 4,50 dollari l'uno, e li rivendeva al popolo statunitense ad un prezzo che si aggirava fra i 9,95 e i 29,95 dollari. Un business, insomma, sia per la Adam che per l’avvocato Bagnasco.

In realtà un business che durò poco. Infatti non passarono più di diciotto mesi che le consegne si interruppero. Ufficialmente (come spiega la Cia) perché i fucili non funzionavano bene.

La versione di Costanzo Coppi era diversa: “Il fatto è che gli americani non pagavano. Io, che facevo il capo nell’azienda di Storo, glielo dicevo sempre ai titolari: fatevi dare i soldi in anticipo, sennò rischiate di non prenderne neanche uno. E così abbiamo dovuto chiudere i battenti. Io sono tornato a Brescia a lavorare, sempre per le fabbriche di armi”.

 

In effetti la disputa tra l'azienda americana e le autorità militari italiane finì in tribunale, perché la Adam accusò gli italiani di violazione del contratto. E qui torniamo al 29 novembre 1963, giorno in cui Giulio Andreotti scrisse da ministro della Difesa italiano alla Cia per avere informazioni sull’arma che uccise Kennedy. Come sottolinea lo storico ed archivista trentino Maurizio Gentilini in un pezzo sul quotidiano “L’Adige”, a sollevare l’interesse del ministro sulla questione potrebbe non essere uno dei tipici misteri andreottiani, ma semplicemente il fatto che esisteva un contenzioso fra la Adam e l’Esercito italiano.

Così finisce la storia del fucile storese. Ma finisce?

 

Giuliano Beltrami

            

 

Ricerca fotografica di Gianpaolo Capelli


 

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