Tre anni: e ci siamo ancora
Il tempo passa e come dice il proverbio: “il tempo è medico”. Ma quel che è successo in questi anni non si può dimenticare.
Tutti sappiamo come la Pandemia ha stravolto il nostro modo di vivere, di relazionarsi, di incontrarsi.
Non possiamo pretendere di rispondere a tutti gli interrogativi e tutte le conseguenze di questo periodo nero ed epocale che ha condizionato tre anni della nostra vita.
Quel che è accaduto interessa tutti, direttamente o indirettamente: tutti siamo stati coinvolti da questa situazione incontrollabile ed improvvisa che come uno tsunami ha travolto l’umanità intera. È stata una vera e propria pestilenza, di quelle che la storia non dimenticherà.
Chi ha vissuto questa situazione e ne è stato colpito porta le conseguenze tuttora: chi non ha più visto né sentito familiari, parenti, amici, ha sentito solo suonare le campane, allarmi delle ambulanze…e soprattutto non ha potuto accompagnare i propri cari nel momento più difficile del distacco.
Abbiamo dovuto “fare la conta”, purtroppo tanti se ne sono andati e tanti hanno vissuto e vivono le conseguenze di questa tremenda malattia.
Quella scritta che campeggiava su una terrazza di una casa che vedevo dalla finestra della mia camera d’ospedale e che si ripeteva spesso: «Andrà tutto bene», riecheggiava nella mia mente mentre le mie condizioni di salute peggioravano continuamente, ma mi davano speranza, nonostante tutto.
Ma ci chiediamo ancora oggi se siamo diventati migliori o peggiori dopo una situazione del genere che mai avremmo pensato di vivere.
Dinanzi ai tanti episodi di dolore che esigono condivisione, fraternità, attenzione, dialogo, ascolto, come ci siamo comportati e come viviamo realmente oggi?
Ci siamo aperti o ci siamo chiusi ulteriormente nel nostro piccolo mondo egoisticamente evitando di incontrarci e di sostenerci?
Come abbiamo reagito di fronte al dolore altrui? Siamo stati capaci di empatia e misericordia?
Tutto questo me lo chiedo partendo anche dalla mia esperienza personale che mi ha condotto sul baratro della morte parecchie volte con la difficoltà di una ripresa lenta e cadenzata.
Quel che ho vissuto mi ha posto dinanzi il vero senso della vita: ho sperimentato la vicinanza del personale medico e di servizio in modo eroico: purtroppo ho potuto vederli “de visu” solamente dopo la guarigione per via di tutte le difese protettive.
So che tanti medici e infermieri si sono ammalati, ma anche immolati durante questo periodo.
Posso testimoniare che nei 150 giorni di ricovero, ma anche in seguito, ho sempre sentito la loro vicinanza e attenzione, anche nei momenti più tragici che ricordo.
La loro professionalità, donazione, attenzione, cura, amore sono stati per me di grande conforto tant’è che quando il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella mi ha chiamato, ho chiesto che si possa fare un monumento per il personale ospedaliero.
Anche se la mia odissea è durata tanto tempo, posso dire che la vicinanza di tante persone mi ha stimolato, nonostante i tanti mesi di isolamento e di convalescenza.
Non mi sono mai sentito solo e questo ha rafforzato la voglia di riprendere. Inoltre lo scritto che è scaturito da questi viaggio: «Alzati e cammina» mi ha messo in contatto con tante persone che hanno vissuto il mio stesso itinerario.
Anche l’interesse di vari giornali e televisioni, sia locali che nazionali, mi hanno permesso di esprimermi sul mio vissuto: non solo un grande problema, ma l’esperienza più bella della mia vita.
Il film «Io resto» poi mi ha consentito di riprendere il mio vissuto e ripresentarlo in tante sale della provincia riconsiderando il mio vissuto di rinascita alla vita.
Un aspetto da non sottovalutare è stata la catena di preghiera che si è letteralmente scatenata a mio favore.
Ho saputo poi come tantissime persone erano collegate in streaming tutte le sere, anche le parrocchie in cui ero avevano organizzato adorazioni notturne; dal Brasile, dall’Africa hanno pregato per me.
Ma anche i due papi a cui era giunta la notizia e tante persone che conoscevo mi hanno sostenuto, e direi, caricato nel loro cuore.
E le ho sentite le preghiere.
oprattutto per la serenità con cui ho affrontato questo lungo calvario: mi chiedevo come potessi essere così, semplicemente tranquillo, non disperato, nonostante fossi inchiodato in un letto e legato da vari monitor e vari strumenti per nutrirmi, respirare e ricevere flebo.
La mia avventura si è conclusa positivamente, ma in quante situazioni ci sono stati traumi indelebili, fatiche, difficoltà di ripresa e conseguenze fisiche e psicologiche!
Mi auguro che l’esperienza vissuta da tutta l’umanità ci lasci come eredità di saper ricominciare considerando il dono della vita come possibilità di ulteriore apertura e disponibilità a servire con responsabilità e attenzione.
Possiamo essere più umani e uniti! Facciamone tesoro!