Il Prodotto Interno Lordo (PIL) continua ad essere il primo e incontrastato strumento per misurare il livello di sviluppo di una società e la vivacità di un sistema economico. È questo il dato che emerge anche dalle recenti analisi nazionali e internazionali sui trend di sviluppo e dai documenti di programmazione economica. Col passare dei decenni il PIL si è talmente radicato nella prassi politica e nella cultura da diventare il principale termometro per valutare l’efficacia delle politiche di governo e ha acquisito il potere di suscitare diversi stati d’animo collettivi. Di recente abbiamo assistito al repentino passaggio dall’euforia alla preoccupazione per stime e dati divergenti sull’andamento del PIL. A fine luglio, il Fondo Monetario Internazionale ha rivisto al rialzo le previsioni di crescita dell’Italia (+1,1% per il 2023) giustificando un certo trionfalismo, soprattutto perché il Belpaese pareva destinato a una crescita del PIL addirittura migliore della Germania e della media dell’area Euro. L’ottimismo si è però dissolto nel giro di pochi giorni quando l’Istat ha comunicato il calo del PIL nel secondo trimestre del 2023, con -0,3% rispetto al primo trimestre. Questa oscillazione tra euforia e preoccupazione dovuta all’andamento del PIL ha certamente una giustificazione sul piano del rispetto di alcuni parametri di politica economica (si pensi solo al noto rapporto tra deficit e PIL), ma forse dovremmo tornare a riflettere sul fatto che il PIL è in grado di dare conto solo di una parte dello sviluppo, quando invece servirebbe un’indicazione più ampia sulla qualità della vita. Il PIL può crescere anche se aumentano povertà e disuguaglianze, anche se gli ecosistemi si degradano, anche se si verificano conflitti, incidenti e calamità. Altrettanto paradossalmente, come sta avvenendo, al rallentamento del PIL non sempre corrisponde un calo degli occupati. Se è vero che il PIL da conto della ricchezza quantitativa è pur vero che lo sviluppo di nazione andrebbe valutato anche considerando la qualità del welfare, dell’ambiente, dell’istruzione, del sistema istituzionale. Il PIL continua a dirci poco sulla qualità dello sviluppo riducendolo alla crescita materiale. Forse è giunto il momento di dare continuità ai tentativi degli scorsi decenni di dotarsi di una nuova misura dello sviluppo. Non è facile rinunciare a uno strumento così popolare, ma potrebbe giovare affiancare al PIL altri indici o indicatori. È questo un compito che la comunità internazionale dovrebbe tornare ad accollarsi, soprattutto oggi che siamo nel bel mezzo delle sfide poste dall’Agenda ONU 2030 per lo sviluppo sostenibile che invitano a far crescere il pianeta perseguendo obiettivi di tipo economico, sociale e ambientale. Del resto, è significativo che se misuriamo lo sviluppo dell’Italia col PIL, il nostro Paese figura tra le prime dieci nazioni al mondo, mentre se lo misuriamo con uno strumento più complesso come l’Indice di Sviluppo umano, che considera ricchezza, salute ed istruzione, l’Italia scivola intorno alla trentesima posizione mondiale. Nella transizione verso una nuova e condivisa misura dello sviluppo sono sempre attuali le famose parole pronunciate da Robert Kennedy, all’Università del Kansas nel 1968, nelle quali invitata ad andare oltre il PIL in quanto “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l'intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell'equità nei rapporti fra di noi… Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.(articolo tratto dal Giornale di Brescia del 18.07.2023)