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giovedì, 8 febbraio 2018 Aggiornato alle 10:30Calcio

Il boemo

di Luca Rota
Znedek Zeman, un nome, una storia, un modulo. Impavido e tenace, sempre pronto a lottare per il giusto, anche a costo “dell’esilio”. Noto a tutti come “il boemo”, nonostante forse sia da considerarsi più italiano di molti altri

Arrivato nel nostro Paese ai tempi della Primavera di Praga insieme alla sorella, Zeman non lo lasciò più, nemmeno a dittatura comunista caduta. Dallo zio Cestmir Vycpalek (ex calciatore ed allenatore di Juve e Palermo), che lo aveva chiamato in terra italica, ereditò la passione per il calcio e per la panchina, ma a differenza sua non sarà mai un allenatore “all’italiana”.
 
Da sempre fautore del gioco offensivo, predilige difensori centrali “relegati” a semplici distributori di palla, alti a dismisura e sempre pronti a mettere in fuorigioco le punte avversarie. I terzini sono ali dedite all’offesa ad oltranza, con la squadra corta operante un pressing asfissiante votato al recupero palla immediato, e verticalizzazioni continue verso i tre davanti pronti all’interscambio, seguiti a rimorchio dagli inserimenti delle mezzali. 
 
Molti giovani in campo, e pochi nomi noti, che famosi poi spesso lo diventeranno grazie a lui. Allenamenti duri, sono famosi i gradoni con l’uomo in spalla, più tanta corsa. Il nome dietro alla maglia conta poco se non ci si sacrifica e non si lotta per la squadra. Ad oggi viene additato come uno capace di allenare soltanto in B. Io lo proporrei per la panchina azzurra. 
 
Uno senza peli sulla lingua Zeman, che ha avuto i suoi anni migliori tra Foggia e Roma, dov’è ancora oggi osannato come un messia. Lì dove c’era una volta “Zemanlandia”. Ora a Pescara sembra abbia ritrovato un ambiente adatto alla sua voglia di fare calcio, con tantissimi giovani e nessun nome altisonante. Fu così che sei anni addietro fece esplodere i talenti di Verratti, Insigne ed Immobile. 
 
Un maestro di calcio, padre di un gioco ultra propositivo sempre alla ricerca del gol; scelta che però spesso paga cara. Ma non si può cambiare a settant’anni; è sempre stato così, e così sempre sarà. Un tipo coraggioso il boemo, nipote e “padre d’arte” (suo figlio allena tra la D e la Lega Pro), integralista inossidabile del 4-3-3 (a suo avviso, “il modo migliore di coprire il campo”) e delle difese alte sulla trequarti.
 
Uno che non le ha mai mandate a dire, soprattutto quando si è trattato di doping. Anche per questo motivo venne epurato dai “vertici” nei primi anni duemila, anche se pochi anni addietro si scoprì che aveva ragione. Non esitò però a scendere in B e in C1 (Avellino ed il ritorno lampo a Foggia), o ad andare all’estero pur di non rimangiarsi quanto denunciato. 
 
Perché la dignità e la verità non hanno prezzo, né categoria; gli imbrogli e le malefatte si. Perciò massimo rispetto per l’uomo e per l’allenatore, che magari non avrà vinto quanto ci si attendesse, ma ha insegnato veramente tanto. Chapeau.