14 Febbraio 2021, 07.50
Valsabbia
La nostra storia

La tragica vicenda del partigiano Raffaele Botti di Iseo

di Giuseppe Biati

Erano un gruppo di vivaci e spensierati ragazzi della cultura contadina, di lago...


Quella cultura che alternava la coltivazione della vigna e la colmatura del granoturco con lo sciabordio dell’acqua, in quelle barche, piccole e silenziose, che si incuneavano nelle anse lacustri per scovarvi l’anguilla, il cavedano o la tinca.
All’inizio della grande guerra avevano appena terminato le scuole, qualcuno andando oltre la essenziale elementarità degli apprendimenti, verso i primi avviamenti professionali che si presumeva togliessero le loro braccia dalle estenuanti fatiche agricole.

La politica e ventennale “contingenzali aveva resi tutti figli disciplinati del “fascio”, in rigide scuole del “fascio”, per una futura occupazione garantita solo dal locale gerarca, cioè dal “fascio”.
Spesso queste folate fuggitive di monelli si rifugiavano in oratorio per la relazionalità di gioco e, spinti dalle famiglie sempre troppo numerose, anche per il legame che Domineiddio e contadini avevano “connaturalmente” stipulato, quasi come una solidarietà clanica tra il primo nei cieli  e gli ultimi sulla terra.

All’oratorio, col prete, iniziavano a fare anche i primi ragionamenti al di fuori dello schema del pensiero unico, nel germinìo di gravi concetti, come libertà, giustizia sociale, uguaglianza, una riacquistata e magari già vista brezza, ma  pur sempre  rivoluzionaria.
Se nella solidarietà il paese si trovava in una quasi totale adesione, le difficoltà per gli altri capisaldi della vita civile si palesavano evidenti, capisaldi civici e umani che il fascismo, attraverso i suoi subdoli gerarchi e i suoi violenti manipoli, aveva totalmente disarcionato dal galoppante cavallo della storia.

Per i semplici ragazzotti, ormai cresciuti in forze da misurare, non era stato difficile trovare un’occupazione nelle fabbriche locali, stante anche il fatto che la manodopera adulta maschile era impegnata nei vastissimi fronti della sciagura mondiale. Quelli che avevano appreso nell’avviamento professionale i primi e necessari rudimenti di operatività sia teorica che manuale erano i primi a trovare un’occupazione. Poi, ad Iseo, c’era la ferrovia che, oltre al saper fare, prevedeva, in ingresso, il fatidico pezzo di carta o attestato.

Negli ambienti di fabbrica la fascistizzazione degli apparati era totale, ma come nelle cose subite, spesso, nasceva, si alimentava, cresceva e circolava un apice di pensiero, quello libero, quello di una intima e inarrestabile esigenza di liberazione, di sovvertimento e di ribaltamento dell’apatia e dell’ingiustizia.

Raffaele, primogenito di sei fratelli, era uno di questi ragazzi, di sentire pulito, che per primo aveva trovato un’occupazione lavorativa alla “Caproni” di Iseo, dove la Decima MAS testava i suoi siluri e sommergibili prodotti.
Il clima in fabbrica era giocoforza di un esasperante rigore e di  assoluto asservimento al “dovere” della guerra; qualche refolo di un venticello fresco di libertà iniziava, nella sua levità, a far breccia, in piccoli e pervasivi pensieri, attenti nella forma e, magari, spiccicati a mozziconi per non destare sospetti e punizioni.
Ma si infiltravano.

Per il giovane Raffaele il tiepido venticello libertario diventò furiosa tempesta d’animo e di ribellione quando, nel luglio del 1944, il cittadino Bonomelli veniva ammazzato e i due fratelli arrestati dai nazifascisti. Il regime colpiva duramente chi “osava”.
Raffaele coglieva sempre di più il fermo anelito per una società libera e di uguali. Si confidava con pochi fidati e maturava la sua scelta.

Era appena trascorso il fatidico 8 settembre del ’44, quando, da diciottenne, la RSI lo chiamava al suo servizio di leva, pena la deportazione in Germania dei disertori, nei campi di lavoro o di sterminio.
Scelse, come alcuni suoi compagni, la montagna e, con la montagna, la macchia e, con la macchia, chi nella macchia c’era già.

Quasi alla sommità del monte di casa, negli anfratti che lo stesso monte  riservava, la vecchia osteria del “Tesöl” era stata trasformata in punto di ritrovo dei partigiani: lì ragionavano e maturavano scelte politiche, scelte di vita.
Non era facile, perché l’idea base, quella di partenza, era di fuggire, non di partecipare a rischiose avventure che la razionalità stessa della propria mente individuava come difficili o impercorribili.

Su quei monti, spesso freddi e ventosi, operava  già un intrepido operaio triestino, Giuseppe Verginella, con il nome di battaglia di “Alberto”, già attivo nella Resistenza piemontese e qui, su queste alture bresciane prospicienti il lago d’Iseo, comandava la 122ª Brigata partigiana Garibaldi.

Era “un uomo deciso e sicuro di sé, onesto, democratico e con la visione della lotta partigiana molto ben inquadrata” (Leonida Tedoldi, in “Uomini e fatti di Brescia partigiana”) ; era “audace, geniale e dirompente; …con alle spalle un notevole bagaglio di esperienza e di guerra antifascista, quale fu quella combattuta in Spagna dal 1936 al 1939” (Guido Assoni, Giuseppe Verginella e Giorgio Robustelli. Una tragica amicizia, in Pagine di Storia, Provincia del 28 marzo 2016), esperienza che metterà a frutto nel territorio bresciano.

Il giovane Raffaele ne fu attratto.
Sapeva che la nuova via da percorrere non sarebbe stata né facile, né sicura, ma doveva essere percorsa e lo sarebbe stato.
La scelta era ormai stata effettuata, dietro il fascinoso richiamo degli ideali proposti e resi operativi dal fulgido comandante.
Il ragazzo iseano era diventato a pieno titolo un partigiano per la libertà, un effettivo della 122ª Brigata Garibaldi.

Veniva da subito inviato in Valle Sabbia.
A casa Raffaele non era più tornato, ma la prolungata assenza aveva fatto capire a tutti i famigliari che aveva preso definitivamente la strada dei monti.
Il gerarca locale aveva convocato la famiglia, aveva esercitato pressioni, minacce; infine aveva segnalato il ragazzo come partigiano, “bandito” e da catturare.

Ma le mamme, quando i figli non tornano, vanno a cercarli.
La sua, per trenta continui giorni, eludendo ogni controllo di coprifuoco, era salita, nelle ore più impensate, sul monte prospiciente Iseo, sui monti vicini, alla ricerca del figlio di cui non aveva più notizie.
Ma le notizie, con l’entità che meno ti aspettavi, camminavano e arrivavano puntuali col trafelato passo del sagrestano che portava la richiesta del parroco di recarsi in canonica.

La mamma, come tutte le mamme, aveva perfettamente intuito ciò che don Schivalocchi le avrebbe potuto dire:
“Raffaele è stato ucciso in un rastrellamento il 19 ottobre: è là, a Pertica Alta; ma non dovete partire subito, è troppo pericoloso”.

Il dolore, atroce, aveva avvinghiato la donna nella trafiggente morsa della disperazione, ma anche nella fierezza del coraggio.
Il giorno dopo, con la cognata, si metteva in cammino per quella sconosciuta e sperduta zona della Pertica.
Nel rispetto dell’inconsolabile dolore, alcuni conoscenti le accompagnarono col carretto in località “Forche”; poi, a piedi, per Polaveno fino a Gardone Val Trompia.
Qui elusero i serrati controlli dei nazifascisti, cosa che riuscì con l’aiuto di generose e benevoli persone del luogo che indirizzarono le donne su vie secondarie e non controllate.

Nevicava, la salita era durissima, la cognata zoppicava vistosamente, ma si continuava a camminare fino alla sera che coglieva le due coraggiose viandanti nella sua invernale e raggelante oscurità.
Tra le difficoltà c’era anche un impetuoso torrente da attraversare, sul quale una trave imbiancata dalla crosta di neve gelata faceva da improvvisato e pericoloso ponticello.
L’ostacolo era prontamente superato dalla madre, ma non dalla zia di Raffaele che, già provata, incespicava e cadeva pesantemente tra i sassi appuntiti e i gelidi inzuppi di acqua torbida.

Non si sapeva più cosa fare, dove andare, mentre neve e gelo intirizzivano gli arti già rattrappiti, indurivano i vestiti, intrappolavano le loro volontà.
Parve di vedere una lontana luce. La madre si fece forza, l’estrema, si affrettò lesta e sollecita; ansimando il cuore le si strappò, ma arrivò, trafelata più che mai.
Bussò e chiese un disperato aiuto.

La coppia di montanari affacciatasi sull’uscio intuì da subito il dramma e la velocità che il soccorso doveva comportare.
Andarono fulminei, trassero in salvo la zia dolorante e provata.
Si affrettarono più che si potesse e il provvidenziale caminetto della casa riscaldò le due donne, portò loro sollievo, asciugò i loro vestiti nel rispettoso e ammutolito silenzio  dei montanari, udito il racconto dell’immensa disgrazia.
Era ormai notte fonda e la famigliola contadina rifocillò le due donne con latte caldo.

Una delle due donne era ancora troppo infreddolita, quasi tremolante e la mancanza del tatto le fece rovesciare la scodella di latte caldo sul nudo tavolo.
Un solo attimo di smarrimento, perché all’improvviso cinque attoniti (fino a quel momento) marmocchietti, con la velocità della fame, si tuffarono a succhiare e a leccare con la lingua il latte versato.
Non ne andò una goccia sul pavimento.
Dal suo zaino la madre di Raffaele trasse prontamente un filone di pane bianco. Era per loro, per tutti, per quella sera di solidale intesa tra poveri.
Il dono del pane lenì, per un attimo, il dolore della tragedia per la perdita del figlio per l’una e del nipote per l’altra.

Dormirono, le due donne, nel tepore del letto dei contadini, che trovarono per se stessi un rimediato giaciglio nella sottostante stalla.
All’indomani il mesto corteo, guidato dal contadino, si portò a Lavino di Pertica Alta.
Toccò, poi, al prete, don Serioli, originario di Sale Marasino, portare le due donne per il riconoscimento del defunto alla camera mortuaria del cimitero, aprire la rudimentale bara approntata, espletare il cristiano e doveroso sostegno.

Il volto del giovane, pulito dalle compassionevoli cure delle donne del paese, una volta tolto il rosso foulard con cui la pietà amicale l’aveva coperto, manifestava tutto il pallore dell’eterno riposo.
E la tragedia, per una madre e per una zia, ebbe il suo disperato culmine: era il 22 ottobre 1944.

Il 30 settembre, sempre del ’44,  vi era stata una furibonda battaglia tra la 122ª Brigata Garibaldi e i nazifascisti ai piani di Mura in Valle Sabbia.
Poi, era iniziata una lunga serie di rastrellamenti nazifascisti, condotti da ingenti forze composte da militari del GNR di Brescia, dei Reparti Alpini Tedeschi, dei Reparti della SPEER, del Battaglione Italia (friulano), della Guardia del Duce (Legione M), della famigerata Brigata nera.
Il più noto fu il rastrellamento del 15 ottobre alle cascine VAS e CEA di Mura.
Un altro rastrellamento da Ombriano di Marmentino verso la Val Cea catturava Raffaele Botti.

Dalla relazione della Brigata:
Il giorno 19/10/ cadde un altro garibaldino, Raffaele Botti, di anni 18, che stava in una missione portaordini”.

In effetti, pochi giorni dopo il rastrellamento del 15 ottobre ‘44 e del conseguente spostamento del suo distaccamento, stava rientrando da una missione di portaordini da Ombriano di Marmentino.
Doveva ritornare nella stessa giornata, come attestava il comando della brigata. Invece si era attardato presso un’abitazione – probabilmente quella di Rosa Borghetti - e il giorno 19 era stato sorpreso dai nazifascisti che, dopo averlo ferito gravemente a una spalla, lo avevano catturato presso il valico che scende a Noffo, quindi legato e trascinato lungo i sentieri del bosco fino a giungere al luogo della fucilazione, una cascina molto appartata in località “Tecle”, nella valletta denominata Cea, in quel di Noffo di Pertica Alta (Isaia Mensi, Traccia di relazione dal titolo: CONTRIBUTO DELLA RESISTENZA GARIBALDINA A ISEO E DINTORNI, Per l’incontro all’Istituto Giacomo Antonietti di Iseo, 25 aprile 2020).

Determinante e stringata, per il dolore, fu la testimonianza della staffetta della brigata Garibaldi, Rosa Borghetti, nome di battaglia “Topolino”, che abitava proprio a Ombriano di Marmentino:
“Botti di Iseo lo hanno trascinato per i piedi lungo la montagna e poi in fondo lo hanno ucciso”.

Giuseppe Biati

Per raccontare anch’io questa tragica vicenda partigiana mi sono avvalso, oltre che dei testi citati nelle altre note, dell’intervista del 19.04.2019, fatta al fratello minore, vivente, Mino Botti , I Resistenti di Iseo, in Memoro, la banca della memoria.





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