02 Maggio 2023, 12.55
Il contributo

Uno dei dodici

di Luciano Pace

Si dichiara molto “arrabbiato” con il Signore e si domanda che senso abbia la sofferenza che permette. Ma, udite udite, non si tratta di san Pietro


Mi capita finalmente di incontrarlo insieme a mia moglie e agli amici Fabio e Giandomenico un sabato pomeriggio dalle 14:30.
Prima dell'incontro sapevo della sua esistenza: altri me ne avevano parlato, sebbene egli non frequenti i social. Ci legava a lui anche la condivisione dell’amicizia con il compianto mandolinista di No, Piergiulio.
Soprattutto mi era noto per la sua arte, quella che lui chiama “l’arte di non rovinare il dono più prezioso della terra”. Chi fa il suo mestiere non inventa nulla: accoglie e custodisce con cura.

Si mostra con un temperamento deciso, in particolare rispetto alla religione e al suo rapporto con il Signore.
Nel pomeriggio passato insieme molte volte mi dice che non comprende il Suo modo di agire. “Perché permette la sofferenza dei giovani malati di cancro?”: me lo chiede, guardandomi negli occhi, con la foga e la passione di chi si sente in dovere di arrabbiarsi con Dio perché sa di aver ricevuto da lui un vero miracolo.

Non è il Pietro dei Vangeli, dicevo. Tuttavia, chi incontra Dio nella sua vita quasi faccia a faccia anche oggi è simile al primo papa per temperamento: si incazza con il Signore perché non capisce la Sua volontà. E chi può mai capirla... Dio, come ogni persona, può essere amato più che compreso. E non è forse con i nostri cari che ci permettiamo il lusso di perdere la pazienza. “A chi importa di perder le staffe con gli sconosciuti”, gli dico. Egli annuisce.

Da qui, ci prendiamo in simpatia. Mi dice che assomiglio all’incrocio fra frate Cionfoli e un giovane missionario. Gli faccio sapere che non sono frate (c’è lì mia moglie a fianco) e che insegno Religione Cattolica.
Sorridendo mi fa: “Ah sì, allora dovresti conoscere il mio padre spirituale. Andreste d’accordo. Pensa che mi ha dispensato dal bestemmiare!”.

E così, fra il racconto di suoi aneddoti di vita, in cui Dio c’entrava sempre, e le raffinate spiegazioni della sua arte, abbiamo tutti insieme continuato a conversare per circa quattro ore. Ovviamente, sono piacevolmente volate. Non poteva essere altrimenti mentre si conversa con chi ti insegna che “il vino va abbinato alle persone, non al cibo!”.

Non intendo dirvi per filo e per segno chi è, glielo ho promesso. Offenderei la sua umiltà.
Ma ci tengo a dirvi cosa fa, come lo fa e dove lo fa.

Partiamo dal dove. Ad Alba, in Piemonte, nelle famose “Langhe”, si trova la sua cantina. Piccola, non molto appariscente. Bisogna proprio sapere che c’è prima di trovarla. In questo meraviglioso luogo il nostro presunto Pietro produce vino da più di quarant’anni. Ottimo vino. Fare in modo che il succo d’uva diventi buon Nebbiolo, o Barbera, o Barolo, ecc.: questa è l’arte in cui eccelle.

Nonostante la sua riservatezza, egli si mostra felice quando ci può raccontare, durante la degustazione di vino, che è “uno dei dodici”.
E, sebbene sia molto devoto, tanto d’aver ottenuto l’assoluzione plenaria perpetua da ogni pronunciamento invano del nome di Dio, non è un antico apostolo. Non pensa nemmeno, come qualche sobrio suonato, di esserne la reincarnazione.
È una delle dodici persone attualmente esistenti sul nostro bel pianeta a poter produrre il Barolo in una cantina fuori da uno dei sette comuni autorizzati.

“E come è possibile questo?” gli chiede Fabio, che di vino se ne intende parecchio.
Molto semplicemente, egli spiega che avendo avviato la sua produzione di vino molto tempo fa, prima che esistessero tutte le regole e le restrizioni intorno alle zone in cui si può produrre il pregiato vino del conte Cavour, il Ministero dell’Agricoltura, nei primi anni Ottanta, ha concesso a suo padre, e a sole altre 11 persone, la possibilità di imbottigliare il prestigioso prodotto vinicolo fuori dalle zone in seguito considerate esclusive.
Ci fa vedere il documento per comprovare quanto dice. Ce lo legge. E noi meravigliati ascoltiamo.

Il suo vino, quindi, può essere denominato Barolo anche se prodotto in terra straniera, per dir così.
Che spettacolo! Avreste dovuto vedere la sua gioia nel raccontare questa vicenda di famiglia. E quale previlegio per noi esser lì presenti a sentirsela raccontare.
Dopo una confessione di questo tipo e il buon vino offertoci, dovevamo quindi sdebitarci in un qualche modo.

Queste parole sono il tentativo di pagare il debito.
Nella speranza che risultino gustose come il vino del san Pietro di Alba. Se l’enologo, infatti, è abile a non rovinare il vino che la terra gli offre con le sue mani, forse, il teologo ha il compito di non annacquare i pensieri su Dio quando usa delle sue parole per comunicarli. “Non hai mai pensato che teologo ed enologo sono tutte due parole di sette lettere?” mi fa.
“No, non ci avevo mai pensato” – gli ribatto.

Perciò continuo: “E cosa direbbe, allora, un enologo sul fatto che l’unico rimpianto di Gesù durante l’ultima cena, a quanto ne sappiamo dai Vangeli, è stato quello di non poter più bere del frutto della vite fino a quando non lo berrà nuovo nel regno di Dio?”.

Questa la sua risposta:Non sapevo di un simile rimpianto. Tuttavia, da enologo, so che il vino nuovo è solo quello successivo.
Nuovo, quando si parla di vino, non indica tanto la bontà, ma la futura annata.
Si contrappone a precedente, non a vecchio, cioè da buttare. Il vino non si butta. Quando invecchia, al limite, diventa aceto e insaporisce la verdura.
Il vino nuovo è come quello vecchio. Il suo esser nuovo indica solo la speranza che venga prodotto ancora.
Forse il Signore parlava di questo all’ultima sua cena terrena: della speranza di una vita in cui il vino precedente possa essere ancora assaggiato in futuro”.


Se la fede in Cristo di oggi è nuova nel senso in cui interpreta questo saggio enologo, allora non è impossibile immaginare che egli sia solo uno dei dodici produttori esclusivi di Barolo.
Non sarà nemmeno il Pietro che ha rinnegato Gesù: questo ha addirittura il diritto di bestemmiarlo. Ciò nonostante, si merita di essere ritenuto simile a uno dei dodici apostoli.

Se lo merita per come testimonia la novità della salvezza di Cristo non solo nelle sue Langhe, ma in tutte quelle desolate del nostro povero mondo.
E chi meglio di lui potrebbe farlo, visto che ha ricevuto in dono dal Figlio di Dio il previlegio di nascita di produrre la bevanda simbolo della Sua salvezza?
Una salvezza che è davvero come il vino: sempre nuova e mai da buttare!

di Luciano Pace



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