23 Maggio 2023, 07.03
Eco del Perlasca

Parola viva

di Giselle Passannante Grimaldi

Il ruolo del verbo non violento nel riscatto dei popoli colonizzati


Prima di cominciare, facciamo un po’ di chiarezza: la decolonizzazione è definita come un processo, attraverso il quale, una nazione, prima sottomessa ad una potenza coloniale, ottiene la propria indipendenza, liberandosi così dal controllo di un altro Stato.

I periodi di colonizzazione più forte si ebbero negli ultimi anni dell’800, con l’arbitraria spartizione di Africa e Asia da parte di alcuni Stati europei, e negli anni che divisero i due conflitti mondiali, ossia dopo che il Trattato di Versailles obbligò la Germania a ridistribuire i propri possedimenti coloniali.
Questi e tanti altri territori occupati da stati stranieri, covarono per anni un desiderio di libertà che esplose dopo il secondo conflitto mondiale.

Il rapporto fra le potenze europee e le colonie non fu di certo equilibrato: agli Stati occupati, che dovettero dare il loro contributo fornendo moltissimi uomini nelle due guerre mondiali, venne promesso un forte progresso e una maggiore autonomia, ma, in realtà, nonostante la creazione di infrastrutture, le grandi potenze coloniali pensarono soprattutto al loro interesse, sfruttando la manodopera indigena.

Anche il clima politico era sfavorevole al Colonialismo: molti giovani, che si erano trasferiti dalle colonie alla madrepatria, ovvero il paese colonizzatore, acquisirono gli strumenti culturali necessari alla formazione di una coscienza civile che sarebbe stata poi alla base delle numerose rivendicazioni d’indipendenza.

In questo periodo, né la Francia né l’Inghilterra, indebolite dalla guerra, riuscirono a gestire le proprie colonie, a differenza degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica che ne mantennero il controllo.
Le potenze europee dovettero, così, scegliere se concedere l’indipendenza alle colonie, cercando poi di controllarle ugualmente in modo indiretto, o cercare di mantenere il loro stato coloniale, rischiando il tracollo politico e finanziario, finendo coinvolti in sanguinose rivolte, come poi accadde.

Uno dei primi Paesi che ottenne l’indipendenza fu l’India nel 1947, perché l’Inghilterra era uscita stremata dalla guerra e preferì rinunciare al controllo diretto della nazione, conservando rapporti amichevoli e commerciali con la vecchia colonia.
I contrasti religiosi tra indù e musulmani diedero vita a due repubbliche: l’Unione Indiana (per gli indù) e il Pakistan (per i musulmani) che rimasero associate al Commonwealth britannico (composto da 53 Stati che ancora oggi collaborano per la loro economia e pace). 

La divisione provocò la migrazione di milioni di persone da un territorio all’altro, divise dall’odio religioso.
Molto importante fu l’intervento di Gandhi, fondatore della non-violenza e padre dell’indipendenza indiana, avendo convertito in tal senso gran parte dell’opinione inglese.

Mohandas Gandhi, detto poi il Mahatma, la Grande Anima, nacque il 2 ottobre 1869 da genitori appartenenti alla casta dei mercanti. Si laureò in Legge a Londra e, tornato in India, accettò l’incarico di difendere i suoi connazionali, sottoposti a discriminazione in Sud Africa. 
Di profonda fede induista, ma aperto alle altre culture, dopo la lettura dei capitoli 5 e 6 del Vangelo di Matteo, sperimentò un nuovo metodo di lotta: la resistenza alle leggi ritenute ingiuste con atti improntati all’uso della non violenza, tra cui la disobbedienza civile nei confronti dell’Inghilterra con il rifiuto di pagare le tasse e di acquistare oggetti di fabbricazione britannica.

La più importante campagna per la liberazione dell’India avvenne in risposta alla tassa inglese sul sale, che colpiva le classi sociali più povere dell’India, che non potevano venderlo, produrlo e nemmeno raccoglierlo sulle spiagge. Nel 1930 Gandhi organizzò la cosiddetta Marcia del sale, durata 24 giorni. Percorse a piedi più di 300 chilometri e portò la protesta pacifica nelle saline, presidiate dalla polizia inglese.
Partirono in 78 e arrivano in diverse migliaia.   

Quando all'esercito giunse l'ordine di sparare sulla folla, gli ufficiali si rifiutarono e la marcia del sale si concluse con l’arresto di oltre 60.000 persone, fra cui Gandhi.
Questa marcia resta la dimostrazione che i popoli sottomessi sono in grado di opporsi pacificamente ai loro oppressori.

Purtroppo l’atteggiamento moderato di Gandhi sul problema della divisione del paese in India e Pakistan suscitò l’odio di un fanatico indù che lo uccise a Delhi il 30 gennaio 1948, durante un incontro di preghiera.
La memoria di Gandhi, però, resta sacra al popolo indiano, al punto che il 2 ottobre, data della sua nascita, è stata dichiarata dall’ONU Giornata Internazionale della Non-Violenza.

Il messaggio che Gandhi ha lasciato è quello che un “piccolo grande uomo” riesce, con le sue forze, a sconfiggere il potente impero britannico e a realizzare il grande sogno dell’indipendenza del suo Paese.
Dimostra, inoltre, che la forza di un singolo uomo può diventare la forza di un popolo intero, perché, come egli stesso ci ha insegnato, ciascuno può essere “il cambiamento che vuole vedere nel mondo”.

La parola è il mezzo più distruttivo e nel contempo più innocuo esistente sulla terra, ma spesso per noi “le parole sono solo parole”, qualcosa di inconsistente e immateriale, astratto, cioè un costrutto puramente teorico.

La parola è viva. Questo secondo me è il più grande insegnamento della Grande Anima.

Giselle Passannante Grimaldi, 3ª A Liceo scientifico




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