17 Ottobre 2020, 06.22
Blog - Circolo Scrittori Instabili

The River of Dolls

di Marcello Rizza

Il sole asciugava l’uva nei vigneti ed evidenziava il viola e la patina di muffa nobile della bacca del Norton Cinthiana...


...  Era una tarda mattina ottobrina, faceva decisamente troppo caldo per continuare la vendemmia, in Florida c’è umidità anche nelle campagne. I braccianti sudati caricavano i trattori di tinozze colme di uva, alcune donne cominciavano ad apparecchiare su una tovaglia a terra: ciambelle con sciroppo d’acero e succo di mela, salsicce e sangria. Una bracciante notò un’auto parcheggiare nella proprietà di Zeph, ne scese una donna che si diresse verso il retro della casa.

“Guarda chi si rivede!”, distraendo gli altri che si voltarono.

“Ma quella è la figlia”

“Si, è lei, non si vedeva da un pezzo.”

Scese dall’auto e si predispose alla quiete, il CD che aveva ascoltato a basso volume, l’ultimo lavoro inciso da suo padre vent’anni prima, aveva smesso di ascoltarlo molto tempo prima, era bello ma già raccontava malinconia dal titolo – The River of Dolls – e a lei occorreva pace. Non l’aveva avvisato del suo arrivo. Aveva con sé la borsa della spesa e una piccola valigia, conteneva il necessario per quattro giorni.

Lo trovò riparato dal sole sotto la pergola nel retro, in giardino. Dormiva sulla sedia a dondolo, teneva un libro poggiato sulle magre gambe scoperte, il portacenere sopra il tavolino era sconsolatamente pieno. Uno sciame di moscerini dell’uva silenziosi muoveva una danza disordinata vicino al cesto della frutta, pensò che fosse un ambiente quieto d’abbandono. Buck arrivò scodinzolando felice: “Woof woof”.

Gli strinse affettuosamente il muso: “Shhh! Non svegliare Papi”, sorrise e gli diede un bacio sulla fronte. Suo padre non si svegliò – bene! – entrò in casa dall’ingresso posteriore e anche là c’era un contenuto disordine: un po’ di ragnatele agli angoli, tende ingiallite, libri e quaderni dappertutto. Lesse alcune pagine dei quaderni, pur non calcando più le scene il grande rocker continuava a scrivere canzoni.

I testi erano sempre belli, scriveva canzoni che erano poesie, le scriveva per Lilith e su Lilith. Forse in altre pagine aveva anche scritto una canzone su di lei. Probabilmente no. Mise in ordine la stanza, libri e quaderni al proprio posto. Entrò nella sua camera da letto e volse gli occhi all’orsacchiotto della sorella appoggiato sul letto vuoto. Cacciò in gola il pianto, risolse di non aprire subito quel cassetto appena socchiuso della memoria, sapeva che sarebbe giunto quel momento, era tornata a casa anche per quello.

Buck si strusciò addosso al suo padrone, si erse sulle zampe appoggiandosi alla sedia a dondolo e lo leccò col suo vezzo canino di baciare. Lui si svegliò e, ancora intontito, percepì una presenza e un profumo di cipolla caramellata, carne alla brace e rosmarino stufato nelle patate al forno. Capì e malinconicamente si sorprese. “Dove sono gli occhiali? Sarà in cucina? Cosa le dico?”.

Lei stava apparecchiando la tavola, sentì nelle reni il silenzio di suo padre e si voltò, si guardarono, lui con la schiena dritta ma le spalle che cadevano pesanti, lei con una espressione involontaria che s’accordava con le spalle del padre. Non parlarono per un istante, che certi istanti durano immensi ricordi. Non si abbracciarono, lei sorrise:

“Non mi fermo molto, sai, fra sei giorni ho il volo per Roma”.

Zeph osservò la stanza in ordine, i quaderni, e gli scattò qualcosa: ”Hai letto i quaderni?”. Lei esitò un attimo di troppo a dirgli che no, non li aveva letti, le spalle scesero ancora più pesanti. Passarono una serata tranquilla, poche parole di circostanza, silenzi nascosti guardando il cielo stellato. Buck li tirava per i pantaloni e poi si rassegnava e si stendeva ai piedi di uno e dell’altra, di volta in volta.

Dormì poco e male, alle 06:30 suo padre ancora era a letto e lei già in cammino, con a tracolla la chitarra, Buck scodinzolando la seguì. Gli bastarono cinque minuti per raggiungere il fiume e sedersi a guardar scorrere l’acqua, a farsi violentare da ricordi e sensazioni. Era l’anniversario. Trent’anni erano trascorsi.

“Anche tu hai i tuoi ricordi Buck? Ricordi quando morì tua madre? Quando ti staccarono dai fratellini?”, Buck dormicchiava incurante, lo accarezzò.

Rivide se stessa e Lilith piccoline, con il sogno di cantare un giorno sul palco insieme al loro idolo, loro padre. E poi quella bambola a cui lei e Lilith volevano fare il bagnetto. “Papà, dai! Andiamo al fiume!”

Non aveva tempo, si mise le cuffie alle orecchie e riascoltò ancora gli arrangiamenti delle sue ultime canzoni, voleva far uscire il suo disco per dicembre. Quando Lilith cadde nel fiume Zeph non sentì le urla, aveva le cuffie, stava limando gli arrangiamenti, era distratto, non sentì, non arrivò a salvarla. Parlò con sua sorella, parlò alle increspature dell’acqua là dove la vide per l’ultima volta. Le raccontò del suo gatto Oliver e di Leonard, il suo nuovo fidanzato taciturno, che era riuscita a diventare cantante di successo, che l’avrebbe portata con sé sul palco a Roma, per quel concerto. Prese la chitarra: “Dimmi cosa ne pensi Lilith, vorrei cominciare il concerto con questa”. E cominciò a suonare alcuni accordi, poi a cantare. Finita la canzone, Lilith e l’acqua non le risposero. Ancora non pianse.

Sentì un frusciare, si voltò, era suo padre: “Sapevo che ti avrei trovato qui” e si sedette al suo fianco, assieme guardarono le increspature dell’acqua che brillavano del sole ormai sorto.

“È molto bella la canzone che stavi cantando, non la conoscevo, stai preparando un nuovo disco?”

Lei non rispose.

“Ti scriverò una bella canzone, sai? Parlerà di te, di quanto sei bella.”

“Sto andando via, papà”, lo decise nello stesso momento in cui glielo disse, “sto andando via”.

“Di già? Volevo… ”

“Si, andrò via”, si alzò e tornò a casa a preparare le sue cose, Buck la seguì, Zeph restò solo, a guardare le increspature dell’acqua. La raggiunse mentre lei stava caricando nel baule la piccola valigia, appena aperta, giusto lo spazzolino da denti e il pigiama. Lei volse lo sguardo lontano, un velo di malinconia negli occhi, la carne verso il fiume.

“Papà, quando ero piccola ho smesso di amarti”, poi lo guardò dritto, sorrise con dolcezza, come a dirgli che non doveva preoccuparsi “ma ormai sembra proprio un romanzetto da quattro soldi, non trovi? Tipo l’unica figlia del grande rocker, del grande Zephyr Hale Dillard”.

Lo abbracciò, provò a credere in quel gesto, lui triste e incurvato, le spalle cadenti:

“Ti scriverò una canzone, promesso”.

Papà, papà…! Me le scrivo da sola. Un altro The Rivers of Dolls anche no, grazie. per perdonarti devo stare in pace, pensò. Salì in auto e andò via. Guardò i vigneti pensando che quell’anno sarebbe venuto un buon vino e, finalmente, pianse.

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.





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