27 Giugno 2011, 07.21
Valsabbia
I racconti del lunedì

Una storiella e mezzo

La guerra era finita da pochi mesi e finalmente si ricominciava a vivere. Due giovani, poco prima di Natale, realizzarono il loro sogno festeggiando il matrimonio al cospetto dei due testimoni e pochi parenti...

 
Terminata la cerimonia e conclusa la “tavola bianca”, un povero ‘bossolato’, qualche dolcetto ed alcune bevande senza pretese, afferrarono la valigia e salirono sul tram, in partenza per il viaggio di nozze.
Dopo venti chilometri approdarono in città e percorsero il lungo viale che li avrebbe condotti alla casa dei cari amici che li attendevano, per trascorrere un paio d’ore in compagnia.
La strada era lunga, ma la fatica esigua, infatti la valigia era desolatamente vuota.
Prima di sera ripresero il tram, diretti al paese dello sposo, che distava una decina di chilometri da quello della sposa, perché nonna Emma, dopo giganteschi sforzi durati dei mesi per risparmiare sulle tessere annonarie necessarie a quei tempi per l’acquisto di generi alimentari, preparò per gli sposi, i testimoni compiacenti e pochi altri, una cena a base di pastasciutta e bistecche a volontà.
 
Entrambi conseguirono il diploma di scuola media, che negli anni ’30 non era poca cosa; Carla era segretaria in comune e Bruno impiegato nell’acciaieria del paese, ove restò tutta la vita, fino alla pensione, e militò nella gloriosa squadra di calcio locale, la mitica Falck, per censo e blasone seconda soltanto alla compagine del capoluogo cittadino per interi decenni.
Con loro vivevano la mamma e la sorella di lui, Emma e Maria, mentre il fratello Alberto, da tutti chiamato Tino, era in seminario a Tortona.
 
Nonna Emma, un personaggio davvero straordinario, nacque nel 1891 da madre friulana, mentre il padre era un ufficiale austriaco.
Ciò ha determinato la presenza dei caratteristici capelli biondi ed occhi azzurri in molti dei suoi figli, nipoti e pronipoti.
Quando i suoi tre figli erano piccoli, già vedova (il marito Duilio Guido morì nel 1928 a trentadue anni, mentre l’ultimogenita Maria era ancora in grembo), le fu erroneamente pronosticata la tubercolosi, ed allora questi malati erano segregati come se avessero la peste.
Restò per anni a contatto dei veri tubercolotici, ma incredibilmente non ne fu mai contagiata.
La piccola Maria, che neppure conosceva, nelle rare occasioni in cui l’accompagnavano a farle visita, era indotta ad avvicinarsi con il pretesto di una tazzina di zucchero, offertole dalla mamma.
Quando poi cominciò ad affezionarsi tentava di accostarsi e di baciarla, ma gli anni passati ad evitare automaticamente qualsiasi contatto personale, per la paura del contagio, inducevano nonna Emma a dire “No, no….”. Solo il cielo sa come in quelle occasioni non le si spaccò il cuore…
 
La vita fremeva, le attività produttive riprendevano slancio, i consumi aumentavano, tutti si davano un gran daffare.
L’acciaieria del paese costruì i primi condomini per destinare gli appartamenti ai dipendenti. Alla famiglia di  Bruno ne fu assegnato uno alla “villetta rosa”, un bello stabile di dodici appartamenti in una zona gradevole.
Consegnarono le chiavi, ma bisognava attendere un paio di giorni prima di fare il trasloco.
Nonna Emma disse: “Portiamo un materasso, lo occupo io!”. E così fecero.
La prima notte si svegliò tre o quattro volte, e in ogni occasione andava in bagno, guardava la vasca, il lavabo, il wc, scrutava in alto la vaschetta dell’acqua, rimirava il cordoncino argentato che terminava con un pomello nero dalla forma a campana, lo afferrava e tirava con forza; terminato lo sciacquone si metteva a piangere di gioia, silenziosamente. Non aveva mai vissuto in una casa così bella!
Passò poco più di un anno e proprio il giorno di capodanno nacque la primogenita, Lilia, e dopo un altro anno e mezzo fu la volta di Guido.
 
Nonna Emma intanto era sempre più malata. 
Fino a qualche tempo prima il suo disturbo principale era dovuto a sgradevoli sbocchi di sangue, causati dai polmoni acciaccati.
La cosa era deprimente, soprattutto per il disagio che riteneva di provocare ai suoi cari.
Allora fece un patto col Padreterno: “Mandami quel che vuoi, ma liberami da questo malanno!”.
Evidentemente l’Onnipotente l’ascoltò, perché da quel momento l’inconveniente cessò del tutto, ma cominciò immediatamente a rattrappirsi, colpita da un’artrite deformante che la devastò lentamente, fino al momento della morte, avvenuta alcuni anni dopo, ridotta in pratica ad un mucchietto d’ossa.
 
Nel novembre del ‘49 scrisse una lettera al figlio in seminario, il quale avrebbe dovuto attendere ancora tre anni prima di raggiungere la meta. I “Figli della Divina Provvidenza” di don Orione non diventano mai preti prima dei ventisette, vent’otto anni:
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Vobarno,   11/11/1949 - Sia lodato G.C.
Carissimo Tino,
ho presente la tua ultima lettera piena di gioiosa descrizione sulla splendida giornata passata in riviera; ne abbiamo goduto pensando quanto bene può averti fatto conoscendoti sempre entusiasta per il bello.
Grande dono di Dio è il creato naturale, ma più grande ancora è il dono spirituale per saperlo apprezzare e godere.
Se fossi ancora giovinetto avrei occasione per farti una predichina, ma, son passati quegli anni…..dirai tu. Evvero, non ho più nulla d’insegnarti, prima di tutto non ti mancano insigni Maestri, poi in te stesso sta maturando tutta la cultura e l’esperienza che a piene mani ti fu offerta negli anni scorsi.
Poi ringrazia e ringraziamo il Signore di tanta fortuna e finchè sei giovane cerca di sfruttare e far fruttare al massimo le tue capacità. Infelici quelli che arrivano nell’inverno della vita e si accorgono che potevano aver fatto molto di più.
Dunque ti dicevo che io non so più insegnarti perché tu ne sai più di me e di questo gioisco assai, però sento ancora un grande compito o dirò meglio dovere verso Dio a tuo riguardo, e questo lo scrivo non per te ma per me, per imprimerlo sempre più nel mio cuore.
Non ti nascondo, passo momenti di scoraggiamento e grido a me stessa: “non sono all’altezza, il mio Tino non avrà mai aiuto da me”, ma poi mi rivolgo al Signore e alla Madonna Santissima e chiedo misericordia della mia pochezza, offro al Signore solo il mio grande desiderio di vederti giungere alla meta, forte e pronto per la causa del Signore che è poi la nostra.
Il desiderio di vederti è solo per completare la frase, perchè quando tu sarai arrivato che io ci sia o no non ha importanza, l’essenziale è che tu arrivi.
La mia salute risente il freddo, stento a portarmi dalla camera alla cucina, ma quando sono qui oltre il tepore della cucina ho la meravigliosa luce degli occhi di Guido.
Lilia viene spesso a trovarmi a letto e mi dà la sveglia, “su nonna su”, oppure mi dice “fa tante nanne”, piccoli cari.
Voglio loro tanto bene da soffrire, perché temo sempre delle insidie di malattie, o di incidenti e non posso fare nulla, nulla per loro che vorrei proteggere con tutte le mie forze.
 
Doverosi ossequi ai tuoi Revv. Superiori. Al Reverendo don Pellicciotti scriverò presto.
 Lascio la penna a Carla. Uniti sempre nel Signore, con grande affetto,
 mamma
 
Caro Tino,
aggiungo poche righe perché ha già detto tutto per esteso la mamma.
I bimbi crescono bene: Lilia è tanto vivace ed intelligente da richiedere una persona per lei continuamente, vuol sapere tutto, dice tutto da farci restar sbalorditi.
Guido è sempre pronto al sorriso, e quando sorride par di intravedere un lembo di cielo.
Non potremo mai ringraziare Dio abbastanza del dono grande che ci ha dato mandando sulla terra due begli angioletti sani ed intelligenti.
La ringrazio del bel pensiero nell’inviarmi gli auguri di buon onomastico. A lei fervidi auguri per una sempre miglior preparazione alla missione grande che Dio le ha assegnato.
Carla
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         Ed arrivò finalmente il giugno del 1952 e la consacrazione di don Alberto, con nonna Emma ritratta nelle foto ricordo, seduta al centro, piccola, addirittura minuscola, ma con gli occhi luccicanti!
Passarono alcuni mesi, Carla era in attesa per la terza volta e nonna Emma borbottava: “Che ci faccio io qui? Non ci sto, non c’è più posto per me, deve arrivare una nuova creatura….”.
Evidentemente anche in quell’occasione l’Altissimo le diede retta. Erano i primi giorni di gennaio, cominciò a gonfiarsi perché i reni non funzionavano più, quindi fu condotta in ospedale.
Un pomeriggio Maria era agitatissima e disse a Carla: “Mi sento chiamare: ‘Maria, Maria!’. E’ la mamma, è la mamma!”, e così supplicò Francesco, il vicino che abitava al piano di sopra, il quale possedeva una Lambretta, di accompagnarla al nosocomio.
Partirono veloci come il vento e quando arrivarono, Maria corse subito al letto della mamma, l’abbracciò e le strinse le mani. Dopo pochi minuti nonna Emma esalò l’ultimo respiro tra le sue braccia.
 
Quindici giorni dopo Carla diede alla luce una femminuccia meravigliosa e biondissima. Qualche dubbio sul nome da assegnarle? No, nessuno: naturalmente fu chiamata Emma!
 
Maria poco dopo trovò lavoro a Milano ove conobbe suo marito Curzio; la loro unione fu allietata dalla nascita di due bellissimi bambini: il primogenito Guido, che sarà chiamato Guidino per distinguerlo dal cugino più grande, e la biondissima Claudia.
 
Nel 1956 Carla e Bruno festeggiarono l’arrivo di Elio, il quarto figlio, anche lui biondissimo, e con gli occhi azzurri, e quando poco dopo scoccarono i favolosi anni ’60, traslocati da un anno alle “villette” in un condominio ancora più bello del precedente e che tra i primi del paese possedeva un impianto centralizzato con i termosifoni in ogni stanza, finalmente arrivai io, quinto e ultimo della serie: mi chiamarono Ezio.
 
Essendo il fratello più vicino di età, mi resteranno impresse nella mente alcune avventure vissute con Elio, e le domeniche passate all’oratorio, dopo aver ritirato la “mancia” settimanale di cinquanta lire con le quali si andava al cinema, si compravano le liquirizie, la farina di castagne, o un ghiacciolo.
Una volta, avevo sei anni, lo accompagnai a far la spesa alla vicina cooperativa e m’inciampai sul marciapiede che malauguratamente misurava la mia stessa altezza, per cui battei violentemente il capo sul gradino d’entrata del negozio e mi si aprì la fronte.
 
Il sangue usciva a fiotti, così chiamarono Remigio, che era l’addetto alle emergenze, il quale passò da mia madre per avvisarla ed insieme andammo dal dottor Santelia.
Elio dovette subire una vagonata di rimproveri, povero incolpevole fratello mio, ma io non stavo meglio, perché il dottore mi cucì a mente lucida, senza uno straccio di anestesia.
Ricordo perfettamente che cominciai a bestemmiare orribilmente, non robetta semplice, dozzinale, da bambino di sei anni, ma ingiurie articolate e complesse, da adulto insomma, tanto che Remigio, che mi teneva fermo, ed il dottore, strabuzzarono gli occhi, mentre mia madre si tappava le orecchie, volgendo gli occhi al cielo.
Evidentemente in quella circostanza devo aver esaurito l’intero “bonus” blasfemo di una vita, perché in futuro mai più mi è capitata una cosa simile.
 
Non parliamo poi di quando mentivamo alla mamma, dicendole che andavamo all’oratorio, mentre al contrario passavamo i nostri pomeriggi, dopo aver recuperato i costumi nascosti in precedenza sotto le frasche, in riva al fiume o tuffandoci nel canale da altezze che oggi mi incutono terrore e mi fanno ritenere che allora, in quei luoghi, per preservarci dal male, si fossero riuniti i più grandi consessi di Angeli Custode.
So che il mio, quando sono diventato adulto, è stato pre-pensionato per lavoro usurante; credo che anche quello di Elio non sia messo molto bene ed abbia ancora le ossa rotte….
Io non ero d’animo cattivo, ma un terremoto sì, di sicuro.
Lo zio Isidoro di Altedo (zio di papà Bruno, fratello di suo padre, emiliano), quando sua figlia Paola partorì il piccolo Saverio, vietò nella maniera più assoluta che oltrepassassi la soglia di casa.
Era successo che l’anno precedente, durante una delle frequenti visite in Emilia, quando avevo quattro anni, adocchiata la bambola sul sofà della sala buona le ficcai due dita negli occhi, sfondandoglieli.
Quante estati, invece, trascorsero in campagna i miei fratelli maggiori, e zio Isidoro e sua moglie Dirce, oltre alla figlia Paola, si affezionarono a loro in modo straordinario.
Ugualmente sono riconoscente e provo ed ho provato grande affetto per gli altri miei fratelli e sorelle…. 
 
Talvolta ci si interroga sul perchè i fiori più belli siano recisi all’improvviso; forse è il ‘padrone’ del giardino che vuole godere del loro splendore, o desidera condividerne la magnificenza con gli ‘abitanti’.
Non mi chiedo allora perché nel 1967, a quarantatre anni, lo zio don Alberto morì per una broncopolmonite quale complicazione di una banale operazione di ernia; dieci anni prima aveva infilato nella toppa la chiave che aprì il seminario di don Orione a Botticino, acquistato dalla diocesi, e per anni girò in lungo e in largo per cercare vocazioni.
Soprattutto s’innamorò della Valcamonica, che sempre chiamò “la mia Betania”.
Ovunque andasse suscitava sentimenti positivi e tutti lo amavano.
Anche il vescovo, ma di questa circostanza si venne a conoscenza soltanto molti anni dopo la sua morte, gli affidò incarichi importanti e delicati.
Quando ritornava in seminario, dopo giorni di lontananza, per i confratelli cominciava la vera festa: sembrava che fosse tornato il sole! Parlavano e parlavano, fino allo sfinimento, non smettevano più….
Anch’io conservo indelebile il ricordo di zio don Alberto che in qualche occasione venne a prendermi all’asilo portandomi un sacchettino di caramelle verdi, che consideravo “magiche”, mentre le suore lo circondavano, festose…….
 
E non mi chiedo poi perchè nel 1978, a vent’otto anni, mio fratello Guido sia perito in un incidente stradale.
Tra i diciotto e i diciannove anni visse un anno e mezzo in Inghilterra, a Liverpool, ospite in una famiglia; di giorno lavorava e la sera studiava. In quella città nello stesso periodo soggiornò anche un giovane chierico veneto di don Orione, che sarebbe stato ordinato di lì a poco.
Fraternizzarono, perché trascorrevano insieme ogni domenica presso il seminario dove Guido andava a trovarlo e quando fu consacrato, presso la cattedrale di Liverpool, gli portò in dono un paio di scarpe.
Quando tornarono in Italia fu ospite a casa nostra per qualche giorno: la mattina celebrava la messa, in parrocchia, e poi si metteva a leggere sulla terrazza, al fresco.
Papà fu invitato alla sua prima messa in Veneto e mamma ancora oggi è in contatto epistolare con lui.
 
Qualche anno dopo, nell’estate del 1976, don Diego fu chiamato da un professore del seminario che era stato nominato vescovo della diocesi di Vittorio Veneto ed in seguito, quasi a furor di popolo, eletto Patriarca di Venezia; aveva bisogno, lui studioso e riservato, di un segretario sveglio, giovane e poliglotta che avesse girato e conoscesse un po’ il mondo.
Trascorsi un paio di anni, quando partirono per Roma, dopo la morte di Paolo VI, pensavano che avrebbero dovuto trattenersi qualche giorno nella capitale, lo stretto necessario per espletare il gravoso compito di nominare il nuovo successore di Pietro, per rientrare poi alla svelta nella città lagunare. Ma a Venezia non ritornarono mai più.
 
Sapete tutti, infatti, come andò a finire.
Il cardinale Albino Luciani divenne Papa col nome di Giovanni Paolo, e suo segretario continuò ad essere don Diego Lorenzi, al quale pochi giorni dopo fu affiancato un altro segretario, più addentro alle “cose” vaticane, John Magee, oggi vescovo della diocesi di Cloyne, in Irlanda.
Don Diego gliel’aveva predetto, la mattina in cui entrarono in conclave: “Eminenza, c’è il fondato pericolo che sia eletto!”, e quando il giorno dopo, mescolato tra la folla di Piazza San Pietro, sentì il cardinal Felici pronunciare il suo nome, in fondo se lo aspettava e non si stupì più di tanto.
La sera, quando soltanto alle ventuno e trenta riuscì a vederlo vestito di bianco, a colloquio col Segretario di Stato e grondante sudore, gli ricordò la premonizione ed il Papa gli rispose: “Va bene, va bene, va là…. Puoi andare a riposare, ci vediamo domani”.
Che emozione scorgerlo al suo fianco, in quei trentatre giorni durati “lo spazio di un sorriso”, trascorsi i quali gli fu offerto un incarico in Segreteria di Stato, ma lui scelse di rimettersi umilmente al servizio della congregazione; e quale commozione vederlo qualche anno dopo sull’altare a concelebrare il funerale di papà. Che grande uomo, don Diego!
 
Povero Guido, è impossibile descrivere come il dolore ci lasciò sgomenti; era nel fiore della giovinezza.…
Per tutti noi fu un duro colpo, ma in particolare per mio padre,  perché gli cominciò a spaccarsi il cuore, non per modo di dire, ma proprio sottoforma d’infarto, seppur leggero.
Caro papà, mai ti dimenticherò alla guida della scassata seicento di seconda mano, quando a più di quarant’anni ottenesti la patente, e più tardi a bordo della cinquecento L ed infine al volante della ‘lussuosa’ centoventisei azzurra, con la moquette grigia all’interno (che in seguito, dopo averla addobbata con un gran cesto nuziale di fiori collocato sul lunotto posteriore, utilizzerò per condurre all’altare Grazia…..
Sfatando  le tradizioni, che vogliono lo sposo “armato” di ‘bouquet’ in attesa della sposa sul portone della chiesa, con la fiammante centoventisei passai sotto casa sua, le offrii il mazzolino di fiori di campo, la caricai e andammo a sposarci, tra lo stupore generale….).
 
Andasti al lavoro per tutta la vita con la Bianchi dai freni a bacchetta, estate e inverno, e per non far impigliare il cappotto nelle ruote facesti applicare alla mamma due bottoni vicino alle tasche e due asole sui lembi inferiori, in modo da allacciarli per tenerli sollevati.
Vero signore, rigoroso eppure buono e generoso, con la famiglia sempre nel cuore; anche tu, neppure dieci anni dopo Guido, a sessantacinque anni, ci lasciasti in nemmeno due giorni.
Io, che sono il più giovane dei fratelli, avrei voluto godermeli un po’ di più……..
 
Lilia, Emma ed Elio si sposarono, andarono ad abitare in paesi distanti ed ebbero figlie e figli meravigliosi.
Ogni volta che ci s’incontra è una festa, con nonna Carla a far da chioccia ai suoi quattro figli ed otto nipoti, e per fortuna ciò avviene più volte l’anno (e, cara mamma, non fare scherzi; resta fra noi ancora per tanti anni….).
 
Per quanto mi riguarda, ho avuto la fortuna di incontrare Grazia all’oratorio, quando eravamo adolescenti.
Ci siamo sposati molto giovani, e durante il tragitto sono “saliti a bordo” tre nuovi viaggiatori: Paolo Alberto, Anna e Chiara.
Grazia insiste nell’affermare che si ricorda di me, quando eravamo all’asilo, nella stessa classe: siccome ero discolo, mi avevano messo vicino a lei, paziente e ordinata, così mi avrebbe aiutato nei lavoretti in cui bisognava incollare il riso sui cartoncini. Boh, io non mi ricordo, e credo che menta spudoratamente.
 
Non voglio anticipare altro su di loro; in futuro, senza neppure chiedere il permesso, li “userò” in gran quantità. Chissà se mi perdoneranno.
 
Prima che finisca la storia, solo pochi altri accenni per rendere più sapido il gusto del piccolissimo mondo che mi circonda, e che cerco di raccontare.
Accadde l’altra mattina, quando, come ogni giorno, prima di andare al lavoro, per cambiare l’aria aprii la porta della cucina e la finestra della sala, una che si affaccia ad ovest e l’altra ad est, e mi sedetti sul divano ad ascoltare le notizie del telegiornale.
Sentii cinguettare, mi voltai in direzione della cucina e vidi un passerotto che saltellava spavaldo; dopo aver percorso un paio di metri si sollevò in aria, attraversò le stanze, salì sul davanzale della finestra, in sala, ristette, si voltò un istante, quasi per salutare, e spiccò il volo in direzione del sole.
 
Mi sono rivisto dalla Caterì, quando da bambini facevamo la stessa cosa, nel momento in cui utilizzavamo il suo negozio pieno di giochi e verdura cotta, dolci e bottoni, tessuti e gelati, il quale possedeva la straordinaria caratteristica di avere un’entrata ed un uscita poste sui due lati dell’isolato, che facevano risparmiare una cinquantina di metri quando giocavamo a nascondino.
Lei ci sgridava continuamente, ma per raggiungere il nostro scopo noi adoperavamo diversi stratagemmi, come comprare due “golia”, o chiedere un prodotto che eravamo sicuri di non trovare.
 
Come dimenticare poi quello che capitò, non molti anni fa,  un pomeriggio in cui faceva un caldo terrificante, quando insieme ad altri trenta amici abbiamo partecipato ad un campo di raccolta di carta, vetro e ferro per raccogliere fondi da destinare all’oratorio e ai nostri missionari.
Quante cantine e solai abbiamo svuotato, e poi cortili pieni di roba. In uno di questi, tra reti e vecchie stufe, sbucavano due lunghe stanghe di ferro arrugginito: “Chesto lè ‘l caret del Chino”, ha esclamato solennemente il padrone. “Questo è il carretto del Chino”.
Se mi avessero detto: “Questa è l’Arca dell’Alleanza” oppure “Questo è il Santo Graal”, per me l’emozione sarebbe stata la stessa. Il carretto del Chino! Quante volte da bambino lo vidi, pieno di carabattole, trascinato dal contadino più caratteristico del paese.
Mi son messo tra le stanghe e l’ho tirato per qualche metro, cercando di carpirne le ultime volontà, o almeno un briciolo di “Storia”.
L’abbiamo buttato, a malincuore, sulla montagna del rottame, ma fosse stato per me, l’avrei riverniciato e incastonato come un gioiello per farne un monumento.
Su quella montagna di rottame ho gettato anche un pezzettino di me stesso. Coraggio, me ne restano ancora un’ottantina abbondante di chilogrammi!
        
Chili che non riesco di certo a smaltire se continuo a mangiare così.
Qualche sabato fa, a mezzogiorno ero ad un pranzo sociale insieme ad altre centoventi persone, ed avevo di fronte a me il titolare ed amministratore della società per cui lavoro (di solito, ai pochi pranzi cui partecipo mi piazzo all’estremità della tavola, all’ultimo posto insomma, in modo da non sentirmi “schiacciato”; evidentemente anche lui fa lo stesso).
Verso la fine del pranzo, l’ennesima persona che venne a salutarlo, mostrando una grande confidenza, gli si sedette accanto e Orazio gli chiese, indicandomi: “Non conosci Ezio?……”.
Quando apprese dove abitavo, cominciò a parlare: “Eh, sì, io abito a Salò da parecchi anni, ma prima ero a Toscolano Maderno, dal 1945, proveniente da Vobarno, dove nacque mio padre nel 1899 e dove sono nato io!”.
Era il figlio del Podestà!
 
Gli dissi: “Allora lei avrà conosciuto mio papà Bruno, Gamberini….”. Si bloccò all’improvviso e cominciò a balbettare: “Ma tu, ma tu allora sei figlio di Bruno e nipote di don Alberto?…..
Ah, don Alberto, don Alberto…..” e rivolto ad Orazio disse che quelle erano persone che non si dimenticano più: il “calciatore, grande uomo” Bruno e l’ “immenso” don Alberto. “Quando entrava in canonica era come se arrivasse il sole…..”
Il signor Giappi aveva gli occhi umidi e chiamò la moglie, seduta poco più in là, e le disse, indicandomi: “Lo sai chi è questo signore? E’ il nipote di don Gamberini!” e la medesima trasfigurazione avvenne sul viso della sua dolcissima consorte; mi strinse la mano calorosamente e non la lasciava più….. “
Se è ‘un terzo’ di suo zio, caro Orazio, sei in una botte di ferro….”, proseguì il marito, ed Orazio, gran signore, dopo una frazione di secondo gli rispose, sorridendo: “No, è il doppio…..”. Beh, non sapevo più dove stare. Quando a sera mi recai a farle visita e raccontai il tutto a nonna Carla, provò una felicità indescrivibile nel constatare come il ricordo lasciato dai nostri cari a chi li ha conosciuti sia indelebile nel tempo.
 
E ancora nonna Carla è protagonista di un episodio che potrebbe essere ricordato con il titolo di “Potenza di un euro”.
Non molto tempo fa mi recai da un artigiano per saldare il conto di un lavoretto. “Ma no, lascia stare, tua madre è sempre così gentile con mia zia, che è alla casa di riposo….”.
Insistetti, così per non offendermi mi chiese una cifra davvero ridicola. Gli consegnai il doppio, e pur essendo ancora nel campo del “simbolico”, non ci fu verso di fargli accettare qualcosa in più.
La sera chiesi incuriosito a nonna Carla chi fosse questa persona.
Mi spiegò che l’ultimo giorno di terapia per curarsi un ginocchio, presso la casa di riposo, che offre un ottimo servizio medico anche per gli esterni, passò accanto ad un’ospite del ricovero, che conosceva di vista, tolse dal borsellino un euro e glielo mise in mano: “Si berrà un caffè….”, le bisbigliò all’orecchio.
La donna, nel vedere l’euro sul palmo della sua mano, sgranò gli occhi e restò a bocca aperta: “Ohhh, grazie…..”, si commosse e le disse: “Signora, posso darle un bacio?”.
E dopo averla abbracciata, mentre si allontanava percorrendo il lungo corridoio, allentava la stretta del pugno, guardava la moneta, sorrideva, e volgeva lo sguardo verso la “benefattrice”….
 
         Ecco, ora la storia è proprio finita….. 
 
         “Ohè, e l’altra mezza storiella?”
 
Già, dimenticavo l’altra mezza….
Ebbene l’altra mezza storiella è cominciata ieri sera quando sono passato a salutare nonna Carla.
C’era qualcosa di strano nell’aria, i suoi occhi luccicavano: “Vuoi sapere la novità? Diventerò bisnonna!”, e mentre lo diceva ho visto davanti a me ottantaquattro anni di felicità pura.
Laura, figlia trentacinquenne di Lilia, la mia sorella maggiore, è in attesa di un bimbo!
Benvenuta, benvenuta nuova creatura, ti aspettiamo tutti con trepidazione. Nascerai centodiciassette anni dopo tua trisnonna Emma ed ottantacinque dopo la tua novella bisnonna Carla….
Non riesco poi ad immaginare quello che combinerà la tua nuovissima nonna Lilia, già incredibilmente generosa con tutti i suoi numerosi nipoti.
Quando saprai leggere ti donerò una copia della lettera che nonna Emma ha scritto a suo figlio, una delle cose più preziose che sia passata tra le mie mani, ma per ora il cerchio si chiude.
Un frammento del nostro piccolissimo mondo ti è stato rivelato; il futuro, invece, lo scriverai tu.
 
Tratto dal volume: “Tapascio Bombatus e altre storie” – Ed. Liberedizioni – 2008
 
 


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