Ospite del Rotary Club Valle Sabbia prof. Giorgio Vacchiano indicato dalla rivista Nature come uno degli 11 scienziati emergenti nel mondo nel 2018 per parlare di ambiente e cambiamento climatico
Il Rotary International ha indicato nel proprio programma una nuova area di intervento definita "Sostegno ambientale" nell'ambito della quale la Fondazione Rotary finanzia progetti per sostenere l'ambiente con l'obiettivo di apportare cambiamenti positivi nel mondo.
Nell'ambito di questa area di intervento il Rotary Club Valle Sabbia, presidente Marcellina Bertolinelli, già presidente dell’Ordine dei Dottori Agronomi della Provincia di Brescia, ha voluto promuovere una serata di incontro-confronto con la presenza autorevole del prof. Giorgio Vacchiano indicato dalla rivista Nature come uno degli 11 scienziati emergenti nel mondo nel 2018.
L'introduzione è stata affidata al presidente della Provincia di Brescia
Samuele Alghisi che ha offerto una panoramica con luci ed ombre della realtà forestale (e più in generale agricola e silvicola) della nostra Provincia che è misconosciuta leader italiana per la superficie forestale del territorio (come la Lombardia è la Regione con maggior superfice forestale in Italia) ma al contempo la prima provincia agricola con un impatto sull'ambiente molto pesante (oltre ovviamente al ruolo ben più noto del primato industriale che ricerca uguali problematiche di tutela ambientale).
In conclusione invece l'intervento di Marco Luppis, presidente dell'Ecomuseo del Botticino, che ha rimarcato i valori culturali e la grande valenza educativa per le nuove generazioni legati alla conoscenza del territorio inteso sia come ambiente naturale sia come ambiente antropico dove si esprime la cultura sociale, architettonica e artistica della nostra tradizione.
Giorgio Vacchiano, nato a Torino nel 1980, è professore di Gestione e pianificazione forestale all’Università Statale di Milano. L’oggetto dei suoi studi è capire come gli alberi e le foreste rispondono al climate change, come cambiano i benefici che forniscono all’umanità, e come gestirli in modo sostenibile assicurando la loro conservazione, la loro resilienza e la loro capacità di contrastare la crisi climatica in corso. Per farlo, utilizza modelli di simulazione al computer, in grado di prevedere lo sviluppo delle foreste e del loro funzionamento in seguito al riscaldamento globale, alla gestione del bosco, agli incendi boschivi e alle tempeste di vento.
L’intervento del relatore ha offerto una approfondita presentazione con particolare attenzione al territorio italiano rispetto all’evoluzione delle foreste negli anni anche per capire la relazione tra foreste e cambiamenti climatici. Gli alberi sono una delle armi migliori che abbiamo per lottare contro la crisi climatica. L’impegno di ricerca consiste nel prevedere come si svilupperanno le foreste e come ci possono aiutare al meglio con un approccio innovativo, quello della modellazione matematica. Cercare di riprodurre dentro al computer il modo in cui una foresta cresce, si sviluppa e di capire come possiamo anche aiutarla a sopportare e resistere bene ai capricci del clima che dovremo affrontare.
Oggi è chiaro a tutti che le immissioni di inquinanti in atmosfera non potranno mai essere compensate dal lavoro delle piante anche se proseguissimo nell’opera di piantumazione e salvaguardia delle foreste (che non è peraltro un approccio globale ma solo dei Paesi dell’emisfero settentrionale (tutti sappiamo la situazione di crisi delle foreste sudamericane e africane). Quindi l’approccio deve essere duplici volto a ridurre l’inquinamento e il consumo di combustibili fossili e ad aumentare le zone piantumate che non vuol dire vincolare il territorio perché le zone piantumate possono essere sfruttate. Usare il legno sembra una contraddizione, invece se lo prendiamo in modo sostenibile rispettando il ritmo della natura, è un grande alleato contro il cambiamento climatico.
Tutelare le foreste vuol dire anche garantire la biodiversità che è fondamentale per affrontare il futuro. Ne è testimonianza la pandemia che stiamo vivendo e che riusciamo ad affrontare anche perché vi è una varietà biologica che vanta possibili resistenti e possibili immuni. Più la varietà biologica si riduce più diventa pericoloso e potenzialmente devastante una offensiva biologica.
Tematica dibattuta anche a fronte delle sollecitazioni degli interventi di Giuliano Ghirardi, presidente del Consorzio Cavatori Marmo e di Nicola Bianco Speroni, amministratore pubblico, quella del rischio e gestione degli incendi per il quale il relatore ha convenuto che fanno parte della vita di una foresta e gli interventi umani di prevenzione hanno senso solo dove c’è da tutelare la presenza umana oppure nei rari casi di zone boscate così delicate che potrebbero non riuscire a ripartire dopo un incendio proprio per le avverse condizioni del territorio.
Tendiamo a vedere le foreste come se fossero qualcosa di immutabile. Gli alberi crescono lentamente e sembrano sempre uguali a sé stessi. Invece le foreste sono in continuo cambiamento. Se torniamo in un bosco fra cinquant’anni avrà certamente un aspetto diverso da quello di oggi. Talvolta questi mutamenti sono improvvisi e in ecologia li chiamano «eventi di disturbo»: incendi, schianti da vento, attacchi di insetti. Ci sono da sempre, ben prima dell’esistenza dell’uomo. Sottoponendo le foreste per milioni di anni a questo tipo di eventi, l’evoluzione ha selezionato le piante in grado di resistere come quelle dotate di corteccia, un potente termoisolante. Oppure quelle in grado di rinascere dopo un evento distruttivo, diffondendo i propri semi nell’ambiente o rigenerandosi a partire da un tronco danneggiato. Riescono a farlo finché la frequenza e l’intensità rimangono entro un certo livello prevedibile.
Con le trasformazioni climatiche provocate dall’uomo le cose stanno rapidamente evolvendo. Aumenta l’intensità delle siccità, il periodo secco da stagionale diventa annuale in luoghi come Australia o California, e questi «disturbi» superano l’intensità che le foreste sono in grado di sopportare. È così che inizia il rischio di superare la loro resilienza, compromettendo anche il lavoro utile che svolgono per noi, come l’assorbimento del carbonio o la tenuta dei suoli.
Una ricerca recente ha calcolato che un miliardo e mezzo di persone vive a meno di cinque chilometri da una foresta ed è proprio a questa realtà naturale che deve la sua disponibilità di cibo, di acqua e la protezione idrogeologica. Le primarie, cioè mai modificate dall’uomo, sono un tipo particolare di foreste. In Europa ne sono rimaste poche. Più facile trovarne in Amazzonia, Congo o nelle grandi distese artiche di Canada o Siberia.
Le più vicine da noi sono in Bosnia-Erzegovina, ci si cammina a due o tre metri da terra sui tronchi degli alberi morti, perché nessuno li porta via e rimangono a decomporsi. Studiarle è utilissimo: le foreste primarie costituiscono un modello e indicano quali sono le condizioni ottimali per la loro sopravvivenza: così impariamo a gestire le altre. E poi rappresentano un vero scrigno di biodiversità.
Secondo alcuni studi recenti della Nasa, la Terra appare effettivamente più verde a livello cromatico. Ma le ricerche hanno chiarito che il fenomeno si spiega per un terzo con l’espansione delle terre coltivate. Per un altro terzo, con l’espansione artificiale delle foreste allo scopo di combattere la desertificazione, soprattutto in Cina. Infine, un terzo è davvero dovuto all’anidride carbonica e al riscaldamento. Gli alberi stanno colonizzando la tundra, dove prima non crescevano boschi. Nel resto del mondo, l’aumento di anidride carbonica accelera la fotosintesi e la crescita delle piante. Ma questa fertilizzazione ha un limite massimo: per la fotosintesi servono acqua e sostanze nutritive. Quindi, dato che il riscaldamento climatico aumenta la siccità, la fertilizzazione dura solo finché l’acqua è sufficiente, e in molte aree già non lo è più.
Se un recente studio di Thomas Crowther afferma che c’è abbastanza suolo per piantare nuovi alberi e assorbire il carbonio emesso in atmosfera il nostro relatore ritiene che quelle stime siano certamente esagerate e frutto di un calcolo grossolano.
Secondo l’International Panel con Climate Change, la riforestazione e l’agricoltura possono mitigare al massimo il 30% del riscaldamento globale. Le emissioni, però, nel frattempo aumentano e quella percentuale cala. Il primo obiettivo deve essere la loro riduzione.
E poi è necessario prendersi cura delle foreste che già esistono. In Italia ci sono 15-16 miliardi di alberi. I progetti di riforestazione prevedono di piantare 70 milioni di nuovi alberi in un decennio, duecento volte di meno. A causa dello spopolamento delle aree montane in Valle Sabbia ma in tutta Italia le foreste si stanno espandendo al ritmo di 50mila ettari di foreste in più ogni anno. Secondo un recente rapporto della Fao, l’Italia è uno dei dieci paesi con il più alto tasso di loro crescita. Ma l’ammontare di questa espansione è quasi uguale al numero di ettari di foresta persi a causa delle importazioni da Brasile, Paraguay o Romania.
in foto: il prof. Giorgio Vacchiano