18 Luglio 2020, 05.44
Blog - Circolo Scrittori Instabili

«Andrà tutto bene» di Marcello Rizza

di Marcello Rizza

Andrà tutto bene… ero quieto da non poterne più del leitmotiv...


Andrà tutto bene… ero quieto da non poterne più del leitmotiv. Ero già nel vortice del bianco e nero della quarantena, con le gradazioni di quei colori appiattiti dalla bruma quando cala fitta addosso all’uomo, quando si fa tacere l’urlo del lutto.
Da giorni tossivo per minuti interi, poi per ore niente, perché probabilmente stava risolvendosi. No, tossivo ancora, respiravo male, ragionavo peggio. Un disagio dal sapore di neve, che è acqua e non basta a dissetare, che si scioglie al calore e non aggiunge calore, a condizionare il mio vivere “qui e ora”, nel tempo del Virus interruptus.

Il mio sangue aggredito era grigio scuro, denso, colloso, rallentato come i miei pensieri. Un agente esterno si era impossessato del mio corpo e agiva per sua e non mia natura, mi teneva prigioniero. Bruma di solitudine e apprensione, di quella specie era la mia nebbia, permeata di pensieri in bianco e nero. Di contro la natura, in quella notte carica di luna, con i suoi giochi di luce e intensità, con le sue sfumature argentee, restituiva un bianco e nero più marcato e affascinante.
Cristalli di neve ovunque posati scintillavano di luna, gli abeti, come dita di una mano diafana, si stagliavano a puntare stelle, in quel cielo le nuvole erano agenti patogeni vinti.

Col naso attaccato al vetro freddo del finestrino
, nel mentre che l’amico guidava – parlava “altro” – mi giungeva lontano, guardavo quegli squarci di chiaro poetico, quello del lucore di tante scintillanti notti che incanta o turba l’uomo fin dagli albori, che lo fa piangere di gioia, di mistero o di malinconia e solitudine.
Così vivevo il momento, il qui e ora, quanto ti incontrai, era inverno che volgeva a primavera. Ingmar, lungo il viaggio per raggiungerti in clinica, mi parlò di te tra una svolta, un incrocio, una frenata per non investire uno scoiattolo – amavo il mio amico anche perché custodiva nell’animo il rispetto per l’uomo e gli animali, soccorreva chiunque. Qui soccorreva te, così avevo inteso, perché lui è sempre vago e schivo, perché aiuta con guanti felpati.

Scelse di raccontarti attraverso flash sulla tua anima, non mi disse quanto fossi bella, mi conosceva. Se prima il suo discorrere giungeva lontano, in quel momento una diversa attenzione, un orecchio interno meno sordo colse immagini più che parole, ma in qualche modo le informazioni trovavano in me lo spazio che reclama a sé la curiosità. Non so perché Ingmar abbia scelto così, di raccontarmi della tua anima, sembrava una normale storia umana.
Forse accadde perché mi raccontò di quel tuo ultimo giorno d’attrice, di quando nel momento catartico dell’Elettra ti guardasti intorno e guardasti a te, cominciasti a ridere e decidesti che non avresti più parlato per essere pienamente te stessa, perché la parola è una maschera. Forse per questo della tua anima, così come il pugno del pugile appena abbassi la guardia, mi arrivò l’intimità triste e violenta, corrotta d’umanità, spuria come tutte le altre.

Nella mente prendevano forma immagini del tuo mondo malato come il mio, dove esistono sogni, meraviglie e brutture inconfessabili: erano falli, ragni, cartoni animati, chiodi che penetravano la carne, una pellicola che prendeva fuoco e che veniva giunta, col suono del proiettore che riprende ad addentellare il film della vita perché the show must go on.

Era al tuo spettacolo quella sera, spettatore e amico, ti conosceva da anni, e non pensò nemmeno di farsi rimborsare il biglietto, si decise ad ammirarti ancora di più, forse dovrei essere geloso. Dal suo racconto appassionato, per le sue parole accalorate, ho visto la tua crocifissione, la tua decisione di rinunciare alla parola.
L’auto si fermò, dal parcheggio si vedeva quel bosco che ancora non profumava di funghi, perché non era stagione di funghi e di profumi, imboccammo a piedi il viale ed entrammo dentro.

Non capivo perché fossimo lì, in quell’ospedale, non avevo conoscenze mediche, non avevo studi in psicologia o psichiatria, non avrei potuto aiutare nessuno, tanto meno te. Ma se l’amico Ingmar voleva che provassi ad aiutare la sua amica, per quanto non fossi nemmeno io in piena forma, lo avrei accontentato, due orette di garbato colloquio, qualche frase salvifica di circostanza sarei riuscito a “raccontarla”.

Ci presentarono e ti ho vista, poi guardata, poi considerata. Solo al terzo stadio sei giunta, bellissima e pur bellissima, con quei tratti nordici e quel segno di malinconia, specchio di una estetica del freddo.
Eri vestita con quel camice d’obbligo di clinica, i capelli raccolti, la mascherina verde che ormai portavano tutti, qualsiasi cosa potessi indossare per regola non sarebbe bastata a coprire la tua luce.

Mi stringesti la mano e, istintivamente, l’altro palmo andò a coprire la tua, erano tre mani, a quel contatto sentii così tanto. E poi mi guardasti con l’educazione della curiosità e scorsi quel tuo acquattato istinto sensuale e materno, quello sguardo in bianco e nero che anche m’appartiene e qualcosa d’altro che allarga il dramma e che potrebbe spiegare la rinuncia alla parola per restare nello scarno dell’essenza.
Certo, ancora avresti sorriso, ti saresti commossa, in qualche modo saresti giunta al prossimo ma non avresti mai più parlato. Lì capii che mi sarei trasferito in pianta stabile per aiutarti concretamente, c’era del bello in te, ne subivo l’influsso. Ingmar ci salutò, gli occhi trapassavano la mascherina verde e da quel tessuto percolava commozione.

Passarono i mesi, mi avevano messo a disposizione una stanza, leggevo poco e pensavo tanto. E poi arrivò il momento, in quella clinica non sapevano ormai come approcciarsi, avevano compreso che la tua non era una malattia, era una precisa scelta supportata da una forte volontà: essere e non sembrare di essere.

In estate ti dimisero, andammo assieme in quella struttura sanitaria di riabilitazione in riva al mare, non ti avrei lasciata sola, ti avrei aspettato, stava montando più amore, e montava. Parlammo molto in quelle settimane, io con la voce e tu con gli sguardi, con una tazza di caffè caldo, coprendomi le spalle col plaid quando faceva sera, ricordandomi di prendere le pastiglie e lo sciroppo per la tosse che non voleva saperne di abbandonarmi.

Muovevi le labbra, a volte, soprapensiero o nel sonno quando venivo a spiarti di notte, mi illudevo, non usciva voce perché sapevi ascoltarti coi mezzi dell’intimo, comunicavi all’universo che ci sente comunque.
E cominciai a comprenderti sempre meglio, L’inquietudine incarnava quel tuo viso algido e ardente al tempo stesso, nei tuoi sogni riuscivo a cogliere che confondevi figli, amici e amanti, che avresti voluto giacere e scrutarli di notte con le identiche carezze, con la stessa passione; sapevi che era incesto ma eri vera e trattenere l’impulso era la tua arte di comporre il dramma personale.

E ora eri lì, con quel pallore color del latte inutile del tuo incantevole piccolo seno, preziose coppe di fortuita estetica.
E quel seno lo conoscevo, lo spiavo quando finalmente toglievi i vestiti, convinta che nessuno badasse a te, e ti tuffavi in mare. Uscivi dall’acqua, Venere tra la spuma marina, il costume bagnato che faceva e non faceva vedere. Presi coraggio e ti pensai con gli occhi, sicura mi facesti intendere che eri più bella ancora, che non potevo saperlo, che avevi profumi di eleganza, che bastavi a te stessa. Avrei potuto farti compagnia, ci fossi stato o non ci fossi stato non avrebbe cambiato di una virgola il tuo mondo. Non avremmo mai fatto l’amore, quello carnale, non avremmo avuto figli, questo me lo hai fatto intendere chiaramente, vedevi che ti parlavo con gli occhi. Eri attrice e già avevi concepito, carne e sangue e ossa nate vive e d’intralcio alla bellezza e alla carriera.

Ti ho sempre più capita e ti ho creduta senza batter ciglio, e nel crederti si aggiungeva passione e curiosità, anche aspettativa, quella che fa incagliare mente e anima quando ci si innamora a prima vista. Ora siamo qui che ti amo, che mi ami a modo tuo, candida. Ora come allora e ancor di più il cuore incendia e vuol bruciare come il sacerdote pregno d’Oriente che s’immola per l’ideale, perché tu sei fede e io ministro. Il tempo è volato come il frullo d’ali della farfalla, altre nuvole giungono veloci e minacciose, la pioggia diventa sempre più insistente, presto sarà un anno.

Leggo poco, penso molto, penso al cuore. Medici, filosofi e artisti ci hanno spiegato come palpiti il cuore. E parlano di tempesta ormonale, di momenti misurabili solo coi suoi battiti, del palpito associato ai piccoli spostamenti del cuore. Gli unici battiti del cuore che mi avvincerebbero oggi, amore mio, sarebbero quelli del cuore di un nostro figlio, ascoltandoli mi emozionerei. Riuscirò a farti cambiare idea, vedrai, faremo l’Amore, col tempo mi darai un figlio, so che mi ami e che devo solo aspettare.

Cominciasti a scrivere un romanzo, la storia di un uomo e una donna, la fantasia non ti mancava, lo so perché di notte, come un ladro, leggevo di nascosto le tue pagine. Scrivevi di un malato aggredito da un virus di cui ancora non si conoscevano pienamente le implicazioni, che non aveva più febbre e che non tossiva più ma che per altri aspetti non guariva, che non era pericoloso ma che mostrava segni di pazzia e inquietudine.
E di una donna, una suora laica, della sua scelta in tarda età di dedicarsi agli altri a seguito di un percorso travagliato dove si era guardata dentro, si chiedeva se fosse all’altezza di assistere una persona con quel tipo di affezione.

Non era propriamente il mio stile di scrittura, scrivevi come la tua rinuncia a parlare, ti avrei consigliato più calore, più movimento, più climax. Il tuo linguaggio assomigliava più a quello usato in una cartella clinica e i personaggi li stavi descrivendo come se fossimo io e te. Ma non potevo dirtelo, ti avrei aiutato volentieri ma avrei dovuto ammettere che stavo leggendo di soppiatto il tuo romanzo.

(Un modesto omaggio al film “Persona” di Ingmar Bergman e alla bellissima Liv Ullmann)

Marcello Rizza

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Per gentile concessione del Circolo Scrittori Instabili, blog sul quale si sperimentano gli appassionati che hanno frequentato i corsi di scrittura creativa tenuti da Barbara Favaro.





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