13 Febbraio 2019, 15.15
In Tv

Questa non era «Mia»

di Alessandra Pappaterra

Leggere i commenti postati sui social sotto i numerosi articoli dedicati nella serata di ieri alla fiction su Mia Martini, firmata Rai fiction, ci lascia comprendere quanto i telespettatori molto spesso credano a quanto sia riprodotto fedelmente sullo schermo, a prescindere dai criteri di affidabilità


Trattandosi di una Biopic,
in teoria, si dovrebbe cercare di riprodurre il più fedelmente possibile la vita del protagonista, senza camuffarne le scelte ideologiche, le “cadute”, senza censurare gli abissi dell’umana fragilità.

Riportare sullo schermo Mia Martini, nonostante la bravura dell’artista Serena Rossi che ha vestito i suoi panni, non equivale necessariamente a ricostruirne la sua fisionomia e qualche caricatura caratteriale. Principalmente non credo sia stata una giusta scelta puntare sulle doti canore (indiscusse) dell’attrice. In taluni casi il doppiaggio è indispensabile. Mimì era la sua voce, la sola che continua a vivere ed emozionare, seppur con un gran rimpianto e non poca malinconia. Quella non era la sua!

Le grandi assenze sullo schermo di Renato Zero e Ivano Fossati sono state etichettate come delle “mancanze di rispetto” postume verso la cantante. E se invece provassimo a cambiare prospettiva? Se cercassimo di comprendere perché i due artisti non abbiano dato il consenso ad essere citati ed interpretati all’interno dello sceneggiato?

La fragile esistenza di Mia Maritini, se ascoltiamo le interviste rilasciate live, e oggi presenti on line su Youtube, lasciano intuire quel vuoto esistenziale che la logorava da sempre. Una carriera sabotata dalle malelingue, forti a tal punto da prevalere sul talento. L’esclusione dai palinsesti televisivi, la poca pubblicità discografica. Tutto perché Mimi, secondo le infantili e invidiose voci di corridoio, “portava sfiga”.
Silenzi e ritorni in scena. Rapporti umani precari e rocamboleschi (con la stessa amata e odiata sorella Loredana Bertè).

La fiction Rai termina con la performance sanremese del 1989, con le note di Almeno tu nell’universo, scritta per lei da Bruno Lauzi- M. Fabrizio. Dalle scene finali si intuisce che gli autori vorrebbero concludere lo “spettacolo” quasi in odore di felicità, di riscatto.

In sordina passano le scritte che precedono i titoli di coda. Quelle che “sintetizzano” il fatto che Mia Martini non vinse mai alcun festival di Sanremo, e che morì sei anni dopo a causa di un “arresto cardiaco”.

Tutti sanno che il corpo Mimì fu ritrovato senza vita presso la sua abitazione il 12 maggio 1995, in circostanze molto poco chiare e con ancora le cuffie del walkman sulle orecchie. Anche alla fine, la musica pare essere stata la sua unica e vera compagna di vita. Sarebbe bello immaginarla terminare la sua esistenza cullata da chissà quali note, chissà quali voci, forse la sua.

Inizialmente si è parlato di infarto, poi anche di overdose di cocaina (accidentale o intenzionale) a causarne il decesso.

Ciò che indigna profondamente nel guardare le fiction Rai è la necessità di stravolgere la conclusione tragica di una vita, conducendola verso una sorta di redenzione “morale”.

Quella sullo schermo non era “Mia”. Per ritrovarla, per cercare di carpirne l’essenza della sua solitudine, del suo “male di vivere”, di chissà quante epifanie mancate, è sufficiente, anzi, indispensabile ascoltare la sua voce. Solo lì, chi vorrà, riuscirà a farla propria, scovando nelle sue intonazioni, nelle sfumature di quella voce così graffiante, un punto di connessione con la sua esistenza.  Senza pudori, senza cercare risposte, senza reticenze, senza commiserazione, con le cuffie nelle orecchie e le parole dei testi nelle proprie coscienze.
 


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