28 Ottobre 2020, 09.57
Terza pagina

La sfortuna e il montanaro

di Giuseppe Biati

La sfortuna uno, soprattutto se povero, se la porta sempre appresso; di giorno e di notte. Attanaglia, momento per momento, come in una micidiale morsa, uomini e bestie. Sì, anche le bestie, quando queste hanno a che fare con l’uomo...


E miseria si unisce a miseria, dolore a dolore, morte a morte.
Come quando ‘l Gioanì, contadino onesto e laborioso, anzi, quegli onesti chiamati proprio così, vidimati dalla vita, perse la sua mucca per un malaugurato carbonchio; sventrata, era gravida di due bianchicci vitelli, morbidi, quasi nati.
Non era un’autentica sfortuna questa?

E pensare che la Germana, la bestia morta (così era il suo nome che ne indicava la provenienza d’origine) era la regina della stalla, l’unica a garantire una sufficiente quantità di nutriente latte per quatto vispi marmocchietti, tutti, o quasi, coi capelli ricci. Quasi, perché all’Antonio, rapato un giorno a zero, i capelli non gli crebbero più ricci, come agli altri.

Ma si sa, parlare di sfortuna nelle comunità agricole non significa sconfitta. Anzi. La sopportazione, atavica, connaturata, ederificata, faceva indurire ancor più quelle pelli sagomate dal sole su appuntite, ossute sporgenze.
‘L Gioanì si rifaceva su le logore maniche; teneva duro, così anche con pochi ‘pater-ave-gloria’, perché il tempo non c’era per dirli, non la volontà e la fede, Satana, procacciatore di sventure, se la dava a gambe fra gli scoscesi dirupi di quelle balze, aride e ventose.
E la vita ricominciava, come Sisifo imponeva.

Sul più bello, quando pronto doveva esser l’effetto, dicasi pure il prodotto lavorativo, tutto veniva vanificato dalla sfortuna sempre drizzata dietro l’angolo. Una volta dopo l’altra. Sempre sfortuna, sempre diavoleria.

Faceva ‘l Gioanì la legna per vendere. Si riduceva, dopo aver accudito alle bestie dalle tre del mattino, a faticare nel bosco con il Sandro, suo amico: in due il lavoro rende di più.
La legna, s’era sentito dire sul sagrato della settecentesca chiesa del borgo, nel domenicale cicaleccio maschile, tirava; il prezzo era buono e, in valle, serviva per la fusione del minerale. E, allora, lavora tu che lavoro anch’io, la catasta aumentava, si ingigantiva, pronta per la vendita e il trasporto.

Poi, veniva, dalla valle, lo scaltro e loquace commerciante. La legna non andava più; c’era tutto saturo, sovrapproduzione in gergo; le fucine in crisi perché stavano sopraggiungendo nuovi e più moderni metodi di lavorazione del metallo, più redditizi sistemi, tecniche più avanzate.
E ai due la legna rimaneva lì, in catasta, muta, stregata; oppure bisognava svenderla (diavoleria!) a quel diavolo d’un commerciante, al più stracciato prezzo di questo mondo.
Mala sorte esser nati in montagna.

Giù, a valle, la vita pullulava, rendeva, aveva un avvenire. Scuole, ospedali, negozi rendevano il ritmo più appetibile, ricco, moderno, sicuro.
I figli del Gioanì crescevano; sentivano e usmavano, come cinghialetti svezzati, la corsa indipendente nel bosco.
E, pian piano, l’Alessio, il figlio maggiore, si staccò, come dalla nidiata, per andare ad assaporare il caustico calore dell’industria, buttando la falce e il rastrello per imbracciare le pinze dei laminatoi della Valle. Così dopo il primo, il secondo, il terzo. Per il quarto era previsto un sogno di studio, una richiesta a Domineiddio, togliendolo dalla estenuante fatica manuale per andare ad alzar la voce, fattasi forbita, nelle aule scolastiche, da insegnante.

Con loro tutti i figli della montagna se ne andavano,  quegli ex mungitori di vacche e di capre.
E la Valle si arricchiva della laboriosità dei giovani montanari; la produzione cresceva, l’industria avanzava.
‘L Gioanì si ritirava, trepido, a meditare. A lui la montagna aveva sempre fornito il necessario per vivere, senza fasulli attendismi o pratiche stregonesche. Davanti alle intonse banconote, sciorinate dai figli, effetto della sempre più avanzata e tecnologica società industriale, si sbigottiva.
Non per la quantità, mai vista.
Maligneria, tanti soldi.
Là ci covava il Diavolo.

I figli s’erano comprati il rosso motorino, d’avanguardia, frutto delle esplosioni meccaniche giapponesi. Fra i più belli. E dopo, la macchina, pure rossa, rombante; la casa; il divertimento al bar e in discoteca e quant’altro l’eleganza e la moda potessero imporre.
Venivano anche spesso a fargli visita, a casa; ma non per rimanervi.
E gli occhi, stanchi ma lucenti, del Gioanì si facevano più piccoli, nascosti dal vecchio corrugarsi della pelle.
Più piccoli, per non vedere.

La sfortuna aveva ancora una volta cavalcato la verde montagna; così, come si doma, con il ferrigno morso, un puledro scalpitante e riottoso, dopo la sfrenata galoppata della sera.
Diavolo d’un mondo!

di Giuseppe Biati



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